venerdì 27 maggio 2011

La mia recensione di Vinyan ora su Nocturno.it

Con mio grande piacere annuncio la mia collaborazione con Nocturno.it,ecco la mia recensione di Vinyan:

http://www.nocturno.it/recensioni/vinyan

domenica 22 maggio 2011

Necromentia (2009)

Ci si interroga spesso,o almeno viene spontaneo farlo,sulla sottile differenza tra citare e copiare in toto,tra omaggio e plagio,tra “riferimento a” e furto bello e buono.
Trovandomi di fronte a questo Necromentia,film del 2009 firmato Pearry Reginald Teo e presentato al Festival di Cannes nell’anno in questione,fin dai primi fotogrammi ho visto davanti a me,gigante e intermittente come l’insegna di un motel americano,la parola “copiato”.
Visivamente parlando,nel calderone c’è un po’ di tutto:un pizzico di Ringu,un bel po’ di Saw (in alcune inquadrature e anche nella misteriosa figura di Mr Skinny,che resta comunque una delle cose migliori del film),una massiccia dose di Floria Sigismondi (nella seppur bella fotografia,nei colori:i primi minuti del film sembrano presi di peso dai suoi videoclip girati per Manson e Bowie),qualche spruzzatina di Jean-Pierre Jeunet e,last but not least,Clive Barker (il mostro pseudo-cenobita il quale,ahinoi,non ha un quarto del carisma dei personaggi Barkeriani).Senza contare una spolverata di Silent Hill,che pare non guasti mai.
“Saw incontra Hellraiser,ma è meglio di entrambi”:così recita,sulla locandina,l’estratto da una recensione dell’ LA Weekly.No comment.Il silenzio è d’oro,in certe situazioni.
Lo spunto da cui parte la sceneggiatura è nonostante tutto interessante:tre personaggi,Morbius (Layton Matthews),Hagen (Santiago Craig) e Travis (Chad Grimes),uniti dal desiderio di riportare in vita qualcuno che han perso.Mr Skinny,il guardiano degli inferi,è il fil rouge che li unisce,nella loro volontaria discesa all’inferno (altro tema che avrebbe potuto essere sviluppato in maniera più efficace).
Inferi resi in modo interessante e non banale,un tunnel sotterraneo,il personaggio di Mr. Skinny con maschera antigas ha un suo fascino sinistro e con lui il sordomuto Morbius,biondo reminder di un giovane David Bowie,mosso da un cieco desiderio di vendetta.In veste di Demone,è fascinoso e mostra l’eredità delle tradizioni orientali,nella sua crudele leggerezza (il regista è nato a Singapore).
Buona e visionaria la scena del grottesco personaggio-suino che si materializza dallo schermo televisivo:anch’essa rimanda a troppe cose,ma nel complesso funziona. Fortunatamente,non manca qualche sanguigna scena gore/splatter,niente di memorabile,ma meglio che nulla.
Il plot narrativo è volutamente frammentato e vorrebbe chiudere il cerchio nel finale,vorrebbe ma non riesce,poiché il film sembra essere stato troncato quasi per errore.
L’idea dell’incidersi sul corpo i simboli di una tavola Oujia per finire all’inferno di propria volontà è,se presa isolatamente,anche originale,ma viene inserita nel contesto in maniera banale;nella visione complessiva,risulta come il solito minestrone esoterico/satanico che abbiamo visto troppe volte.
Il montaggio videoclipparo di Damian Drago,la fotografia sì bella ma troppo patinata e perfettina,l’aria terribilmente modaiola e fighetta che impregna il film,tolgono il 90% del potenziale a una storia che,se presentata in modo meno ambizioso e più onesto,avrebbe anche potuto funzionare. Alla resa dei conti,il film lascia poco o nulla,a parte alcuni spunti interessanti e ovviamente non ben sviluppati.Il tutto scivola via come l’ennesimo prodotto trendy che avrebbe avuto esiti ben superiori,se si fosse prestata meno attenzione all’estetica,alla sovrabbondanza di “citazioni” e ci si fosse concentrati di più sullo sviluppo dei contenuti. Vecchia lezione che molti registi non impareranno mai,purtroppo.

Chiara Pani (Araknex Nexus)
araknex@email.it




USA – 2009

Regia:Pearry Reginald Teo



giovedì 19 maggio 2011

Aggiornamento:via le pagine!

ho deciso di eliminare le pagine,ripubblicando le recensioni in post singoli,in ordine cronologico (in fondo,le più vecchie),per rendere più agevole l'uso delle etichette e arrivare più velocemente ai contenuti

le pagine su articoli e saggi restano invariate

Vinyan [pubblicata:Maggio 2011]





Un nugolo di bollicine invade lo schermo e lentamente,si tingono di rosso:questo è l’incipit,cripticamente riassuntivo e profetico,di Vinyan,opera seconda del regista belga Fabrice Du Welz,già autore dell’interessante ed atipico Calvaire.Con questo film,presentato alla Mostra di Venezia nel 2008 in cui passò inosservato (oltre a non essere stato distribuito nelle sale),Du Welz riafferma ed espone in maniera più definita la sua cifra stilistica personale,e ormai già riconoscibile:l’orrore come ombra sempre incombente ma lasciata al di fuori dello schermo,accompagnato da una magnifica fotografia fredda,ancora una volta ad opera di Benoît Debie,che simboleggia il tormento delle anime livide dei suoi protagonisti.
Anche Vinyan narra di un calvario,quello di Jeanne e Paul (una sempre splendida e intensa Emmanuelle Béart e il bravo Rufus Sewell),coppia di coniugi afflitti dalla perdita del figlio,avvenuta durante lo Tsunami di sei mesi prima,perdita avvolta dal dubbio,poiché il cadavere non è mai stato ritrovato,dubbio che tormenta e che nutre vacillanti speranze.
A differenza di Calvaire,dove la totale assenza del Femminile costituiva il fulcro del film,qui esso divora la pellicola,in tutta la sua fisicità,incarnato da una Béart dolente,fantasma di se stessa,azzerata dalla forzata negazione di essere Madre.
L’evento scatenante ha luogo durante un viaggio a Phuket,in Thailandia:in un filmato girato in un villaggio birmano,Jeanne crede di riconoscere il figlio,nella figura di un bambino,ripreso di spalle.
La fissità del fotogramma,sgranato,di quel bambino che potrebbe essere chiunque,riflette la fissità dell’ossessione di Jeanne,la sua non rassegnazione a quella perdita che è stata anche e soprattutto perdita di una parte fondamentale di se stessa.
Inizia dunque il calvario,sotto forma del viaggio intrapreso dalla coppia verso la Birmania,dopo le ripetute insistenze della moglie e le resistenze del marito (figura antagonista e a tratti marginale,simbolo di una razionalità rappresentata come distacco emotivo);viaggio come inseguimento di una chimera,focalizzato sulla sorda speranza/disperazione di Jeanne.
Viaggio che diventa sempre più cupo,in una natura ostile e carnale,anch’essa femmineo che fagocita il film.Una pioggia perenne fa da sfondo alla pellicola,con l’acqua che rende i protagonisti madidi,acqua che non lava bensì fa diventare marcescenti e deboli,come nell’afflizione data da un forte dolore.
Nel corso di una suggestiva scena nella quale Jeanne assiste ad una festa locale su un’isola,con lampade di carta che vengono fatte librare nel cielo,ci viene svelato il significato del titolo del film:”vinyan” significa “arrabbiato,furioso”,e furiosi sono gli spiriti erranti che hanno incontrato una brutta morte;le lampade vengono lanciate in cielo dai vivi per guidarli,per dar loro un po’ di luce nell’oscurità del loro iracondo tormento.Queste,le parole di Thaksin Gao (Petch Osathanugrah),potente boss di Phuket al quale la coppia chiede aiuto all’inizio del viaggio per superare l’ostacolo della chiusura delle frontiere verso la Birmania.
Thaksin Gao è un personaggio ambiguo,chiede continuamente denaro alla coppia per proseguire il viaggio,presenta loro un bambino indigeno col volto dipinto di bianco e la stessa maglietta rossa indossata da Joshua,il figlio della coppia,al momento della scomparsa (e anche dal bambino del video), “ecco il bambino bianco che state cercando”;una beffa crudele,ma anche incredibilmente ingenua.Vinyan è la parola chiave del film:la rabbia di coloro morti di morte violenta,del dolore di Jeanne,ma anche e soprattutto quella di un paese più volte violato e ferito dall’Occidente.In questo senso,il personaggio di Thaksin Gao non è più negativo di una Jeanne o di un Paul che col loro denaro credono di comprare ciò che non si può,il lasciapassare per il raggiungimento di un’illusione.Lo sfruttamento tra la coppia e gli indigeni non è a senso unico e a sfavore della coppia come può sembrare a primo acchito bensì bilaterale e può simboleggiare una sorta di nemesi per tutto ciò che i “bianchi” hanno fatto a quelle terre.
L’aspetto di Jeanne muta nel corso del film,si trasfigura,diventando un unicum con la natura che la circonda,fino allo splendido finale,che esplode,anch’esso furente quindi “vinyan”,in tutta la sua forza.
Jeanne nel film è folle icona di disperazione,un’Adele H matura e madre che non vede e non vuole vedere la realtà,fino all’autoumiliazione (dolorosa la scena del riso),ma col cuore a suo modo puro nella sua ricerca.
Aleggiano le ombre di Fitzcarraldo e di Aguirre di Herzog,in alcune scene,nell’ambientazione,nel concetto di uomo che sfida la natura inseguendo un sogno folle ed impossibile,e nell’allucinatorio ed allucinato finale.
Film simile dunque al precedente Calvaire nel concetto di percorso,di discesa nella follia,di sostanziale solitudine umana.Opposto ad esso nella sua carnale femminilità,e più maturo nel suo discostarsi da certi clichè presenti nel film d’esordio,che ricalcava il pattern del survival horror,rileggendolo in chiave diversa e con un’ottica tipicamente europea.
Un film dunque da riscoprire,per assaporarne il gusto amaro e rabbioso,cercando,con la visione,di dargli una piccola luce.


Araknex/Chiara Pani

(araknex@email.it)








Francia/Belgio/Uk/Australia - 2008

Regia: Fabrice Du Welz






I Saw The Devil (Akma-Reul Bo-At-Da) (2010) – 28 ° Torino Film Festival [pubblicata:Dicembre 2010]



Anatomia di una Vendetta.Così può essere riassunta l’ultima,bellissima,pellicola del regista sudcoreano Ji-woon Kim,che torna sul tema della nemesi dopo “Bittersweet Life” (2003).Tematica ricorrente nel cinema della Corea del Sud,se si ripensa alla magnifica “Trilogia della Vendetta” di Park Chan-wook (“Sympathy For Mr. Vengeance” – “Oldboy” – “Sympathy For Lady Vengeance”),e ovviamente presente nel cinema di tutto il mondo.La vendetta e le sue declinazioni,le sue conseguenze,il suo potere di trasformare una persona,è stata analizzata sotto molti punti di vista,per lo più di natura morale:la spinta a vendicarsi come abbruttimento dell’essere umano in preda alla febbre di una rabbia mista a dolore.Il film di Ji-woon Kim prende in considerazione anche questa prospettiva,ma non solo,ed è questo ciò che lo rende unico nel suo genere:coinvolgente,ricco di pathos e distaccato al tempo stesso ma in primo luogo ricca fonte di riflessione.
La storia parte con l’omicidio della giovane Joo-yeon,figlia di un capo della polizia in pensione e fidanzata dell’agente segreto Dae-hoon (l’eccellente Byung-hun Lee),ad opera del serial killer Kyung-chul (lo straordinario Min-sik Choi,che qui dà vita e corpo a un villain assolutamente memorabile).La scena del ritrovamento del cadavere decapitato in un fiume è già di per sé da mandare a memoria,col padre e il fidanzato in preda al dubbio sull’identità della giovane,in un girotondo di caos e sofferenza,fino all’accidentale caduta della testa del cadavere da una scatola in mano ad un agente.Dae-hoon,in preda al dolore,promette vendetta all’amata e alla sua famiglia.
Inizialmente aiutato dal padre di lei,che gli fornisce le foto segnaletiche dei possibili sospettati,il giovane comincia la sua personale discesa agli inferi,in preda alla sete di giustizia,alla sofferenza senza possibilità di conforto,a una rabbia che non conosce argini.L’uomo che dà la caccia al mostro,trovandolo,e iniziando con lui una nuova,sadica caccia a circuito chiuso,diventa mostro egli stesso,ed apparentemente simile a colui che odia.
Dae-hoon arriva dunque a lui,Kyung-chul,passando per la sua famiglia (altro tema estremamente importante nel film);killer psicopatico,sadico,di grande carisma e astuzia,autista di scuolabus,viene catturato dal giovane in un momento visivamente forte (lo stupro di una giovanissima studentessa),spingendo così lo spettatore ad odiare completamente il villain e a trovare catarsi nelle prime torture da parte di Da-hoon,che gli promette che non finirà così,che quello è solo l’inizio di un lungo incubo in cui la morte arriverà unicamente al culmine della sofferenza.
Comincia così il gioco del gatto col topo,in cui il giovane agente segreto,con uno stratagemma, tiene perennemente le tracce del killer,lo lascia apparentemente libero,anche di uccidere ancora,per poi riprenderlo,e riprenderlo di nuovo.”La genesi di un mostro”,come la definisce il killer cannibale amico di Kyung-chul.

Fin qui la chiave di lettura è apparentemente soltanto morale:Dae-hoon sfoga la sua rabbia e il suo sadismo dolorosamente,ma non senza compiacimento,nonostante la famiglia della ragazza tenti di fermarlo poiché ciò che fa “non la riporterà indietro”.Ma subentra il fattore sorpresa,il colpo di genio,la chiave interpretativa fin qui non considerata:mai cercare di battere il Diavolo,perché egli vincerà sempre in astuzia.Dae-hoon commette un errore fatale:sottovaluta il mostro. “Io non conosco il dolore,non conosco la paura.Dunque non c’è nulla che tu possa portarmi via.Per quello tu hai perso e io ho vinto”,queste le parole di Kyung-chul,che meglio di qualsiasi altra definizione riassumono il concetto di come la glacialità di una mente crudele finisca inevitabilmente per avere la meglio sule fiamme del dolore e della sete di vendetta.La crudeltà è razionale nella sua follia,il Male conosce mille astuzie.
Il finale è preceduto da altri colpi di scena,un finale apparentemente elementare,semplice ma assolutamente bello,inesorabile,dolente.Il film inizia con un tragitto in auto,in andata,e termina con un cammino in ritorno,fine di un percorso nell’abisso,faccia a faccia col mostro/Diavolo dentro e fuori dal Sé.
Una pellicola dunque magnifica,da amare o odiare,che non ammette mezze misure,forse troppo convenzionale nella prima parte ma che scatena tutto il suo potenziale nella seconda.
Mai cercare di battere il Diavolo,poiché sia la vittoria che la sconfitta saranno,inevitabilmente,assai amare.


Araknex/Chiara Pani
(araknex@email.it)








Titolo Originale: Akma-Reul Bo-At-Da
Titolo Internazionale:I Saw The Devil
Corea del Sud – 2010
Regia: Ji-woon Kim











 


 



 

Calvaire (2004) [pubblicata:25 Novembre 2010]




Strano e controverso oggetto filmico questo Calvaire,primo lungometraggio del belga Fabrice Du Welz,costellato da critiche non solo discordanti,ma diametralmente opposte,tra chi grida al capolavoro e chi demolisce completamente il film.E’ questo forse,in nuce,il primo pregio della pellicola,suscitare reazioni,forti,in direzioni completamente diverse.Nel cinema odierno,in cui molte opere suscitano la più totale indifferenza,l’assenza di emozioni che è il peggiore dei mali,tutto questo è già molto.
Il canovaccio di sceneggiatura è all’apparenza semplice e ricalcato sulla maggioranza dei “survival horrors”,ma con significative variazioni che lo caratterizzano in maniera originale e lo plasmano su una tematica ben precisa:la solitudine.Vero leit-motiv del film.
Qu non c’è il solito gruppo di teenagers che si avventura turisticamente in luoghi sperduti per finire in pasto al “mostro” di turno.Marc Stevens (il bravo Laurent Lucas),è un cantante girovago,la cui casa è il suo furgone,che sfodera il suo repertorio di canzoni d’amore nelle occasioni più svariate.L’inizio del film,con l’esibizione in un ospizio alle soglie di una nevosa vigilia di Natale,getta già le basi tematiche dell’intera pellicola:la tristezza di fondo,la solitudine sia di Marc che delle persone attorno a lui,ma soprattutto la morbosità di costoro (l’anziana che tenta un triste approccio,l’infermiera che nasconde proprie foto osè nella busta con la paga di Marc),dipingendo fin dalle prime scene il protagonista come calamita dell’altrui debolezza e disperazione.
Lungo il viaggio verso la prossima meta,il furgone si guasta;compare l’inquietante Boris (Jean-Luc Couchard),un ritardato in cerca di Bella,la sua cagnetta persa nei boschi.Anche in questo caso si annuncia un’altra tematica di fondo del film,la perdita/assenza del femmineo,della Donna in quanto catalizzatore d’amore e simbolo di delicatezza in un villaggio abitato esclusivamente da individui di sesso maschile,caratterizzati in modo assolutamente triviale.
Boris conduce Marc alla locanda di Bartel,altro simbolo di solitudine (“nessuno viene più qui da anni,ma le camere sono in ordine”).Bartel (l’ottimo Jackie Berroyer),è personaggio grottesco e inizialmente burbero ma che si accende di un subitaneo ed eccessivo entusiasmo alla vista del furgone “da tour” di Marc:”Lei è un artista!Anch’io sono un artista.Un umorista.Ma da quando mia moglie Gloria mi ha lasciato,ho perso il mio umorismo”.Gloria,che era come Marc una cantante,personaggio presente nel film solo attraverso le parole di Bartel prima,e degli abitanti del villaggio poi,simbolo del Femminile perduto,che se ne è andato,causando dolore,rabbia e infine follia.
Marc,ansioso di ripartire,è suo malgrado costretto a fermarsi alla locanda,bersagliato dalle promesse di Bartel di riparargli il furgone il giorno successivo.
La follia si insinua,sempre più manifesta e meno sottile,nel frugare ossessivo di Bartel all’interno del furgone di Marc,nella scena di accoppiamento tra un uomo del villaggio e un maiale,a cui il protagonista assiste,inorridito,di nascosto,fino alla scena della cena (nella quale il regista ha voluto omaggiare nientemeno che Psycho),durante la quale,in seguito alle insistenze del locandiere,Marc intona uno dei suoi cavalli di battaglia,davanti all’estasiato Bartel:”Grazie per questo meraviglioso momento”.
Questa scena può essere definita uno spartiacque tra la prima parte del film,in cui la tensione è sottesa,e la seconda,dove esplode manifesta e violenta,il mattino successivo,al risveglio di Marc.Bartel è sparito.Nell’armadio della stanza di Marc ora ci sono abiti femminili.Piccoli segni che vanno in crescendo fino alla distruzione e incendio del furgone;la follia di Bartel è ora chiarissima e manifesta :mostrando la batteria a Marc,prima di colpirlo in testa:”è questa che cercavi?sei tornata per andartene di nuovo?”.Nella mente disturbata di Bartel,Marc ora E’ Gloria.
Il seguito del film è piuttosto prevedibile,con Marc ostaggio del folle,tentativo di fuga fallito,nulla manca al consueto pattern del survival horror.Con qualche eccezione che rende il film per alcuni aspetti originale.Bartel si reca all’osteria del paese,per annunciare il ritorno di Gloria e intimare agli ostili abitanti del villaggio di starle lontani.”E chi lo dice che è tua moglie?”,dice uno di loro (impersonato da Philippe Nahon,il memorabile “assassino” di Haute Tension).
Parte un’angosciante melodia al piano (unica musica del film,insieme allo score nei titoli di coda),due uomini ballano tra loro in modo grottesco,seguiti dagli altri.La scena è surreale,per molti versi ingenua,probabilmente anche un po’ inutile nel suo ribadire,per l’ennesima volta,come l’assenza del Femminile porti alla perdita del raziocinio.
Il finale è violento,con una forte e un po’ forzata citazione da Texas Chainsaw Massacre,ed enigmatico,poiché il film pare interrompersi bruscamente.
Film controverso:banale sotto alcuni punti di vista,originale per altri,troppo ingenuo nel suo grido di solitudine di un mondo senza donne diventato rozzo e folle,apparentemente forzato nell’identificazione Marc/Gloria da parte di Bartel,in realtà identificazione da parte dell’intero villaggio,con una donna che probabilmente non è mai nemmeno realmente esitita.A dire del regista,i personaggi del film sono soltanto due,Marc e Bartel,poiché gli “altri” sono solo variazioni di Bartel stesso.
Ul film dunque con molti difetti,ma anche innegabili pregi.Uno strano oggetto dunque,una sorta di gioco di specchi in cui lo spettatore può vedere cose diverse,e trarne diverse conclusioni.

Araknex/Chiara Pani
(araknex@email.it)


 

Belgio/Francia/Lussemburgo – 2004

Regia: Fabrice Du Welz





Shadow (Federico Zampaglione – Italia 2009) [pubblicata:Ottobre 2010]




Una bella sorpresa nel panorama horror italico questa pellicola di Federico Zampaglione,già leader del gruppo pop Tiromancino e regista della black comedy Nero Bifamiliare (2007).Sorpresa a metà,a dire il vero,visto che il film era già stato incensato da critiche entusiastiche.In questi casi,ci si appresta alla visione pregni di pregiudizio positivo,ma non troppo,viste le cocenti delusioni che l’horror di casa nostra ci ha riservato,dopo gli anni d’oro che tutti conosciamo fin troppo bene.


Il film si apre con una panoramica di ampissimo respiro,sulle montagne di “un bellissimo posto in Europa”,come recita la voce fuori campo del protagonista David (l’americano Jake Muxworthy) in una lettera alla madre,che in poche parole e sui titoli di testa ci schiude lo sguardo sull’incubo,reale,da dove egli proviene:l’Iraq,la sua guerra,i suoi orrori.”Non vedo l’ora di salire di nuovo sulla mia bicicletta”.Questo è David a inizio film,biker in uno splendido scenario naturale,libero e in movimento,dopo il grande incubo bellico e la sua angosciante inerzia,in piena luce,senza Ombre.


Ma il nuovo incubo è in agguato,e ben presto si svela nella sua prima fase,tra le mura di un piccolo bar,impersonato da due cacciatori (l’ottimo Ottaviano Blitch e Chris Coppola,nipote di) che molestano la bella Angeline (Karina Testa),che diventerà compagna di viaggio e sentimenti di David nel suo percorso di fuga dal passato.


Gli orrori della guerra tornano in un racconto della stessa Angeline,che narra di un gruppo di civili iracheni che proprio in quelle zone,al Passo delle Ombre,si erano rifugiati,per essere poi sterminati da un gruppo di soldati (”li hanno uccisi nel sonno”),narrazione con tocchi un po’ banali di ghost story,di fantasmi che ritornano,corollata dal classico “chiunque si sia avventurato lì non è mai tornato”.


L’incubo riprende carne e sangue con i due cacciatori all’inseguimento della coppia che (ovviamente) si salva.


Al che tutto improvvisamente si fonde/confonde in una nebbia onirica (sonno,sogno e incubo sono i temi centrali della pellicola),momento di smarrimento e transizione tra la prima parte del film e la seconda,nella quale il registro visivo cambia radicalmente.


Angeline scompare,i cacciatori e David vengono catturati.


La seconda parte del film ha inizio,speculare opposto della prima:l’incubo si manifesta in tutta la sua prepotenza e perversione,con David e i suoi due aspiranti carnefici imprigionati a tavoli di contenzione,in una camera di torture malsana e claustrofobica.


L’incubo ha il volto dell’attore svizzero Nuot Arquint,assolutamente perfetto per la parte,villain memorabile,maligno e silente,senza nome e identità,incarnazione del Male assoluto,dal corpo fragile ed emaciato,quasi alieno per certi versi,chiaramente Nosferatico ma anche evidente omaggio a La Morte del Bergmaniano Settimo Sigillo.Un cattivo come se ne sono visti pochi ultimamente,destinato a permanere a lungo nell’immaginario collettivo cinematografico.


Gli echi di torture movies come Hostel e Saw sono inevitabili,gli omaggi argentiani abbondano,in primis nella musiche di chiara ispirazione gobliniana,composte dal fratello del regista,ed in alcune precise scene (su tutte,a fine film,David che si china per svelare alle sue spalle la presenza del torturante,celeberrima scena di Tenebre già ripresa pari pari da De Palma in Doppia Personalità).C’è anche molto di Fulci e Bava,appassionati omaggi al cinema con cui il regista è cresciuto e grazie al quale ha sviluppato la propria passione per il genere.


Questa parte del film è a tratti scontata,con i suoi richiami agli orrori del nazismo (foto di campi di concentramento,la camera di torture che diventa camera a gas),ma nonostante ciò non perde di forza,mantenendo alta la tensione fino al finale “a sorpresa”,nel quale il cerchio si chiude (il film si conclude,dal punto di vista sonoro,così come era iniziato,con la lettera di David alla madre).


Realtà e incubo si fondono in un amplesso di angoscia.


Inevitabile il paragone tra Zampaglione e Rob Zombie,altro musicista/regista e anch’egli passionale omaggiante degli horror della sua adolescenza (il suo splendido film d’esordio House of 1000 Corpses è un’unica,innamoratissima citazione dei capolavori americani orrorifici degli anni ’70,The Texas Chainsaw Massacre su tutti).Zampaglione non raggiunge forse i livelli del collega americano ma ci regala una piccola e oscura perla,slancio vitale nel cinema italiano di genere che sembrava ormai morto per sempre,tranne rare eccezioni (l’ottimo regista nostrano Ivan Zuccon).


Una speranza per gli appassionati che si spera non resti un caso isolato;Zampaglione verrà ora atteso al varco per la sua prossima prova filmica:l’Ombra è calata,c’è solo da sperare che non torni la finta luce della banalità e del già visto.

Chiara Pani/Araknex

(araknex@email.it)





Shadow - L'Ombra



Italia - 2009



Regia:Federico Zampaglione 





The Countess


Cominciamo dalla fine;al termine della visione del film,una domanda sorge spontanea nella mente di chiunque abbia anche solo una vaga idea di chi fosse Erzsébet Báthory:ma lei,dov’era?Poichè il personaggio rappresentato nella patinata pellicola fortemente voluta dall’attrice francese Julie Delpy,che l’ha scritta,prodotta,diretta,interpretata e non paga ne ha anche composto lo score musicale,è solo una pallida e ridicola rappresentazione da romanzetto rosa del folle personaggio della Contessa Sanguinaria.
La storia della Contessa Bathory è assai affascinante,ma poco coltivata sul grande schermo (tra i pochi precedenti,l’italo-spagnolo “Le Vergini Cavalcano La Morte”,del 1973 e il britannico “La Morte Va a Braccetto Con Le Vergini”,dell’anno successivo):nata in Ungheria nel 1560,ma allevata in Transilvania,imparentata con Vlad III,è personaggio storico di culto,a metà tra vampirismo e omicidio seriale,follia e pratiche stregonesche,sadismo e grande intelligenza;in un’epoca in cui le donne contavano poco o nulla,a meno che non fossero regnanti,lei fu una nobildonna estremamente potente.
Data in sposa a un nobile di grande crudeltà,fu proprio durante le lunghe assenze del marito che venne iniziata alle pratiche magiche da sua zia Karla.
La Bathory era una donna estremamente crudele con i servi,spietata,folle,ebbe numerosi amanti di entrambi i sessi,era dedita alla magia nera e,sua caratteristica più conosciuta,era convinta che il sangue delle vergini avesse un potere ringiovanente sulla sua pelle,convinzione che mise in pratica senza esitazioni:tutto ciò spiegato in forma ovviamente assai riduttiva e sintetica ma di per sé contenente già un grande potenziale per una bella storia cinematografica.
Potenziale non solo sprecato,ma incenerito:la Contessa interpretata dalla Delpy è una donna monoespressiva,la sua follia si riduce a puri capricci,la sua crudeltà a qualche tortura opportunamente censurata.Si rasenta l’assurdo con la storia d’amore tra lei e il giovane nobile Istvan Thurzo,che la vede struggersi fino alla follia;forse la regista/attrice/produttrice ha voluto ignorare che non ci fu bisogno di un amore andato male per far impazzire la Contessa,poiché era già assolutamente folle di suo.E’ ovvio che bisognava versare melassa sul film,renderlo appetibile,ed ecco qua una storiella pronta per essere riscaldata e mangiata,tinteggiata di un bel rosa posticcio.Forse il rosso del sangue è stato considerato troppo:peccato che di sangue se ne veda ben poco,in quella che dovrebbe essere la storia di una Sanguinaria.
Un film senz’anima,il che stupisce vista la dedizione della Delpy alla pellicola,un biopic da film televisivo,curatissimo,patinato,lucidato a dovere,assolutamente insensato per una storia sporca di sangue e delirio come quella della Contessa Erzsébet.Un susseguirsi di vergini dissanguate,con la vanitosa Contessa che,miracolo!,si vede subito più giovane,come in un brutto spot di una crema antirughe.Non c’è la discesa nella follia,l’analisi di questa ossessione,è come un album di belle figurine che messe tutte insieme formano un rudimentale canovaccio di racconto.
Resta una sola constatazione:se la Contessa Bathory avesse potuto vedere questo film,la Delpy e tutta la troupe non avrebbero fatto una bella fine.

Chiara Pani/Araknex
(araknex@email.it)






Germania/Francia/USA - 2009

Regia:Julie Delpy




Promenons nous dans les bois - Deep In The Woods (maggio 2008)



Riesco finalmente a mettere le mani e soprattutto gli occhi su questo film dopo un bel po' di tempo dalla sua uscita (2002) e dopo averne sentito parlare un gran bene;provvidenziale ebay e il dvd import,visto che nelle nostre sale e videoteche non ha mai visto la luce,ed è un peccato,per chi ha fame di horror recenti e originali questo poteva essere un piatto gustoso.

I film d'oltralpe di genere immancabilmente incuriosicono,visto che è un paese che pare piuttosto allergico all'horror (se si escludono pochissime chicche tipo Haute Tension,che stilisticamente ricorda comunque questo film) e tende comunque a virarlo più verso il thriller e il dramma che verso il terrore o il gore fine a se stesso.

Il film non è perfetto,a volte si dilunga troppo,ma è interessante e visivamente bello,merita una visione:un gruppetto di giovani attori viene chiamato in una *sperduta dimora* per fare uno spettacolo privato:nella trama l'originalità non regna,ma alcune trovate sono decisamente brillanti,con sequenze psicologicamente disturbanti poichè dilatate all'eccesso.Una pellicola che riesce a dare un senso di disagio senza un uso eccessivo di effettacci,che comunque sono presenti ma con una certa misura ed impiegati ad arte.

Se il cinema è uno dei prodotti di una data cultura,prendendo l'horror come genere-campione,analizzare le produzioni di paesi solitamente avari nel settore può dirci qualcosa in più sul *cosa c'è dietro*,visto che notoriamente e dalla sua nascita l'horror rispecchia le paure e le ferite di un determinato paese in un dato periodo storico....

In ogni caso,un film misconosciuto,dal titolo inglese negativamente ingannevole ma che far venir voglia di vedere qualcosina in più in tema di pellicole orrorifiche per quanto riguarda il paese *della nouvelle vague*,che ormai è un 'etichetta ancora più trita che pizza-spaghetti-mandolino e da cui il cinema d'oltralpe potrebbe - e dovrebbe - finalmente affrancarsi.











Titolo Originale:Promenons Nous Dans Les Bois


Titolo Internazionale:Deep In The Woods


Francia - 2000


Regia:Lionel Delplanque








Il Prescelto vs. The Wicker Man (maggio 2008)


Premetto che mi sono avvicinata a questo film,Il Prescelto,di Neil LaBute,remake di The Wicker Man ("L'Uomo di Paglia",Robert Hardy,1973),con una certa dose di curiosità positiva e ottimismo,nonostante si tratti di un remake,oggetti cinematografici ambigui a cui di solito guardo con forte diffidenza.
Predisposizione positiva ispirata dal nome del regista,il LaBute di cui ho amato il crudele Nella Società degli Uomini e lo sgangherato e folle Betty Love,e ovviamente curiosa di vedere cosa sarebbe potuto risultare dal rifare (e in questo caso attualizzare) un film bellissimo e davvero bizzarro nella più pura accezione del termine come The Wicker Man,pellicola di culto targata 1973.
Purtroppo tutte le mie buone intenzioni si sono spente come una torcia scarica ancora prima di arrivare a metà film:tutto ciò che aveva reso l'originale degno di interesse e unico nel suo genere è completamente sparito da questo film,dove domina un Nicholas Cage che pare non saper bene da che parte girarsi,con la storia rimaneggiata in maniera a dir poco confusa:a cominciare dalla location,originariamente un'isola della Scozia,ora sbalzata nel Pacifico,passando per la storia in sè,dove nel film di Hardy il protagonista (o meglio,uno dei protagonisti) era un poliziotto integerrimo e al servizio della legge che,per cercare una bambina scomparsa,si trova a fare i conti con quest'isola popolata da una comunità di personaggi sinistramente bizzarri,con scene puramente grottesche (la cerimonia in maschera su tutte,che nel remake diventa pressocchè ridicola) e su cui troneggia il capo della comunità,un magnifico Christopher Lee,il tutto innaffiato da un sensualità fortissima e più che sottilmente malsana (con Ingrid Pitt e Britt Ekland a farne da icone).
In questo film del 2006 lo splendido oggetto originale si tramuta in una patacca,con Cage sempre al servizio della legge ma in "missione" per conto di una sua ex fidanzata,abitante dell'isola,che gli scrive implorandolo di ritrovare la famigerata bambina scomparsa,con un complotto di sottofondo piuttosto scontato e inutile,dove il formidabile e sensuale Lee è sostituito da una pur sempre molto brava Ellen Burstyn che non riesce purtroppo ad avere un briciolo della forza del personaggio originale nel suo simboleggiare una società qui diventata un matriarcato in maniera forzata e dove la componente sessuale che impregnava il primo film si è tramutata in una serie di ammiccamenti buttati allo sbaraglio qua e là,sprecando la presenza di Leelee Sobieski che poteva essere perfetta e che invece pare capitata nel film per caso dopo aver sbagliato set.

Anche il vero protagonista,L'Uomo di Paglia,inquietante Golem pagano che domina l'isola e che dava al primo film il definitivo tocco di genio,qui diventa un pupazzone senza significato che viene inquadrato sì e no per due minuti e anche lui pare buttato lì per errore.

Un remake che se fosse stato fatto con cura,attenzione e maggiore fedeltà all'originale sarebbe stato un film potenzialmente valido è invece diventato l'ennesimo prodotto inutile,che ci si augura possa però avere una conseguenza positiva:far conoscere il primo film a chi (e non è una minoranza) non l'abbia già visto e apprezzato,per mostrarne le profonde differenze e cercare di far capire,per l'ennesima volta,che una buona idea può fare molto di più che un sacco di dollari di budget buttati al vento.









Titolo Originale:Anthony Shaffer's The Wicker Man

UK - 1973

Regia:Robin Hardy
























Titolo Originale:The Wicker Man

Titolo Italiano:Il Prescelto

USA/Germania/Canada - 2006

Regia:Neil LaBute