Visualizzazione post con etichetta CineClandestino. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta CineClandestino. Mostra tutti i post

sabato 8 dicembre 2012

La mia recensione di "Maniac" (2012) di Franck Khalfoun per CineClandestino - Torino Film Festival XXX edizione



pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/maniac.html





Maniac (2012)


Timid Man




Aveva tutta l’aria di una scommessa persa in partenza questo remake del cult movie di William Lustig, Maniac, pellicola di per sé non riproducibile per l’unicità delle atmosfere malsane e di un protagonista/simbolo, l’indimenticabile Joe Spinell (anche co-sceneggiatore e co-produttore del film) nel ruolo di Frank Zito, personaggio che si era cucito addosso alla perfezione e al quale aveva donato sfumature e caratteristiche divenute perno centrale dell’opera. La pachidermica fisicità dell’attore italo-americano (il cui vero nome era Joseph J. Spagnuolo, morto nel 1989 a soli a 52 anni) entrava in netto contrasto con la debolezza interiore di Frank, oppresso dall’immaginaria voce della madre defunta in schizofrenici e conflittuali dialoghi/monologhi che erano la spinta primaria delle sue pulsioni omicide.

Maniac rappresenta tuttora, per Lustig (che è tra i produttori del remake), il lavoro più riuscito in una carriera mediocre, frutto dell’alchimia di una serie di fattori felici che diedero vita a un vero e proprio oggetto di culto per schiere di appassionati. Rifare una pellicola del genere era dunque impresa non facile, assai diversa dalla produzione seriale di brutti film fotocopia dei classici horror e slasher ad uso e consumo di un pubblico di adolescenti troppo occupati a masticare popcorn: il remake di Maniac era atteso al varco con una buona dose di pregiudizi negativi, che lo vedevano già sconfitto in partenza, anche per la scelta del nuovo protagonista, un Elijah Wood troppo vicino al cinema mainstream e lontano anni luce da ciò che Joe Spinell ha rappresentato per il personaggio.


Contro ogni aspettativa, invece, il film riesce a soprendere, rivelandosi rilettura intelligente e riuscita. Diretta da Franck Khalfoun (suo il non eccelso -2 Livello del Terrore) e prodotta dall’ex-enfant prodige Alexandre Aja, anche autore dello script insieme al fidato Grégory Levasseur e a C.A. Rosenberg, l’opera evita abilmente le trappole più insidiose, accantonando la pretesa di essere replica dell’originale bensì imboccando una strada diversa, che si rivela azzeccata.
Maniac versione 2012, presentato con successo alla 30° edizione del Torino Film Festival all’interno della sezione Rapporto Confidenziale, quest’anno densa di horror, non possiede la carica malsana del film di Lustig poiché l’atmosfera è qualcosa di non ripetibile: l’intelligenza dell’operazione si ritrova nel creare dei differenti punti di forza, dando vita ad una pellicola che omaggia l’originale rendendosi al tempo stesso autonoma. La scelta di Wood per il ruolo di Frank Zito si rivela ottima, in quanto il suo aspetto fragile ed indifeso esteriorizza ciò che il massiccio corpo di Spinell teneva nella sfera interiore: entrambi, infatti, sono visti come “anime gentili” dal personaggio di Anna (qui interpretata da Nora Arnezeder), e in questo film tale caratteristica è accentuata; l’aspetto del nuovo Frank, inoltre, ispira fiducia nelle sue vittime, che non lo temono, creando così un contrasto maggiore tra apparenza e reale personalità del killer.


La narrazione viene attualizzata in modo non posticcio, senza mai scadere nell’imitazione fine a se stessa, citando la pellicola-genitrice con trovate efficaci e talvolta sorpredenti, calando la vicenda ai nostri giorni e rendendola del tutto credibile.
La vera innovazione del Maniac di Khalfoun si denota nella tecnica di ripresa: il film è girato per gran parte in soggettiva, dunque dal punto di vista di Zito, mostrato raramente  in terza persona e il più delle volte riflesso da specchi, a rappresentare la pallida proiezione di una personalità disgregata. Il P.O.V. del killer, a differenza di quanto accade nella maggioranza delle pellicole orrorifiche, crea in questo caso un intervallo di distacco emotivo tra spettatore e personaggio, poiché mostra l’efferatezza dei crimini commessi dissociandoli dalla sua figura: la fisicità fanciullesca di Elijah Wood infatti, unita alla parte di narrato sulla sua infanzia, provoca empatia da parte di chi guarda, una sorta di pietà indulgente verso un individuo che è criminale, ma al tempo stesso dilaniato da sensi di colpa e schiacciato da una vita orribile.


L’elemento dei manichini ricopre un ruolo ancora più centrale rispetto al film di Lustig, rendendoli compagni di vita quasi umanizzati, e assai importanti nel legame che si instaura tra Frank e Anna. La relazione tra i due è rappresentata in modo non superficiale e senza lesinare cinismo, attraverso la lente deformante del punto di vista di Zito, dunque col filtro della sua mente disturbata.


Maniac ha un ritmo lento, poco accattivante, con alcuni tempi morti che contribuiscono tuttavia a renderlo ancora più disturbante e paranoico; il gore è offerto a giuste dosi, sempre funzionale alla narrazione e mai gratuito, in un film che unisce un plot robusto a un visivo affascinante e non patinato, grazie alla fotografia volutamente sporca ad opera di Maxime Alexandre, anche lui presenza fissa nello staff di Aja. Una nota a parte merita il magnifico score, composto da Rob, pseudonimo del francese Robin Coudert, il quale dà vita ad un tappeto sonoro elettronico perfetto per le immagini, ulteriore valore aggiunto in una pellicola assolutamente notevole.


Una prova ampiamente superata a dispetto delle scarse aspettative, la dimostrazione di come dovrebbe essere realizzato un remake, rendendolo oggetto a sé stante senza sganciarlo dalle proprie origini ed evitando, soprattutto, di cadere nella facile trappola della ridicola imitazione.  

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Maniac
Francia/USA - 2012
Regia: Franck Khalfoun

mercoledì 5 dicembre 2012

La mia recensione di "Call Girl" di Mikael Marcimain per CineClandestino - Torino Film Festival XXX edizione


pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/call-girl.html










Call Girl (2012)


L’ipocrisia della libertà



Ispirata al fatto di cronaca noto come lo scandalo Bordellhärvan, che scosse la Svezia nel 1977, Call Girl, co-produzione nordeuropea diretta da Mikael Marcimain, al suo esordio nel lungometraggio, è un’opera affascinante, complessa e stratificata, in cui i forti echi di un certo cinema americano politicamente impegnato (in primis Tutti Gli Uomini Del Presidente, di Alan J. Pakula, del 1976) si mescolano in modo assai efficace a un dramma personale, con una cifra stilistica peculiare che dimostra una grande padronanza del mezzo filmico, sebbene si tratti di un’opera prima. 

Lo svedese Marcimain ha al suo attivo un’importante esperienza come regista di seconda unità in La Talpa (2011), di Tomas Alfredson, altra pellicola che è influenza tangibile, sia dal punto di vista del narrato che a livello visivo, per la ricostruzione impeccabile delle ambientazioni dell’epoca, perizia che al Torino Film Festival è valsa il Premio Bassan – Arti e Mestieri alla scenografa Lina Nordqvist, che ha svolto un lavoro eccelso nel ricreare minuziosamente le atmosfere del decennio ‘70, in modo così efficace da far credere allo spettatore di trovarsi di fronte ad un girato realmente realizzato in quegli anni.

La storia di  Iris (Sofia Karemyr, splendida esordiente) e di sua cugina Sonja (Josefin Asplund, già vista nel Fincheriano Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne), quattordicenni dai trascorsi famigliari travagliati, affidate alla casa minorile Alsunda, sorta di struttura-modello che ha il reale scopo di proteggere i propri ospiti, oltre che tenerli sotto sorveglianza, lasciando loro nel contempo una certa dose di libertà. E’ proprio tramite alcune compagne dell’Alsunda che, durante una serata in città, le due ragazze si ritrovano in un ambiguo festino nel corso del quale incontrano Dagmar Glans, interpretata da una superlativa Pernilla August (Gli Innocenti,  Star Wars – La Minaccia Fantasma), carismatica maîtresse a capo di un grosso giro di prostituzione d’alto bordo. La donna è abile nel far presa sulle due giovani, sostanzialmente ingenue, coprendole di attenzioni (con una spiccata preferenza per Iris) e auto-definendosi “mamma”, in un gioco ipocrita e meschino, nel quale le neo-squillo sono soltanto pregiata carne fresca per i suoi facoltosi e potenti clienti.

Clientela che vanta nomi altisonanti, tra cui il Ministro della Giustizia ed altre personalità politiche piuttosto in vista; tra denaro facile ,feste di lusso e hotel a cinque stelle, per Iris e Sonja è facile perdere il contatto con la realtà che le circondava fino a poco tempo prima. Le fughe notturne da Casa Alsunda diventano una prassi, ma l’ebbrezza della nuova vita dura poco, poiché l’altra faccia di una medaglia perversa non tarda a manifestarsi: sesso svogliato e squallido con uomini viscidi e attempati, droga e alcool che diventano coadiuvanti necessari e la Glans che da pigmaliona fintamente affettuosa e protettiva arriva a mostrare il suo vero volto di donna tirannica e priva di qualsiasi scrupolo.

La vicenda personale di Iris e Sonja è soltanto uno dei binari percorsi da Marcimain nel suo racconto ad incastri, ingrandimento di un dettaglio interno ad una narrazione ramificata, nella quale ogni elemento è perfettamente funzionale agli altri, anche per merito dell’eccellente e robusta sceneggiatura firmata da Marietta von Hausswolff von Baumgarten, al suo primo script cinematografico. Due minorenni in un giro di prostitute frequentato da uomini potenti: l’ispettore di polizia Sandberg (John Berger), è determinato a portare avanti le indagini sul caso, scontrandosi con  un muro di ostracismo da parte dei superiori non appena vengono alla luce i grossi nomi coinvolti. Lo  attenderà una fine tragica, per essersi spinto troppo oltre.
 
Call Girl non si limita a ricordare, denunciandolo, un episodio scomodo della recente storia svedese, ma mette alla berlina l’intero sistema sociopolitico della nazione in una data epoca, mostrando, con malcelato sarcasmo, sia le campagne elettorali a favore della parità dei sessi, che le dichiarazioni di proposte di leggi che depenalizzano stupro e pedofilia, il tutto come background del narrato principale, ossia lo sfruttamento della prostituzione: il paese-simbolo della liberalizzazione sessuale mostra dunque il suo volto ipocrita e segnato da troppe cicatrici.
 
Lo stile di Marcimain è raffinatissimo, non esente da qualche virtuosismo di troppo ma estremamente abile nell’affrescare un racconto che si dipana con un ritmo lento ed inesorabile (lodevole il montaggio, ad opera di Kristofer Nordin) per ben 140 minuti, senza mai annoiare lo spettatore, riuscendo sempre a sorprenderlo e ad ancorarlo a ciò a cui sta assistendo.
 
Graziato da alcune trovate visive di rara efficacia (tra cui l’uccisione di Sandberg, e il zoom out d’apertura, che da uno schermo televisivo catapulta il racconto nella dimensione del reale), con la magnifica fotografia vintage di Hoyte Van Hoytema ed un ossessivo score elettronico composto da Mattias Bärjed, Call Girl segna dunque l’esordio di un cineasta da tenere d’occhio, dal talento non comune e capace di orchestrare un apparato visivo potente e rigoroso.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

 

domenica 2 dicembre 2012

La mia recensione di "Shell" (2012), vincitore del Torino Film Festival, per CineClandestino


Pubblicata nella giornata di ieri su CineClandestino, ecco la recensione di Shell, film che si è rivelato il trionfatore di questa edizione del Torino Film Festival. Vittoria secondo me meritatissima.

pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/shell.html





Shell (2012)

Le sperdute lande dell’Anima


Shell è il nome della protagonista di questo piccolo e al tempo stesso immenso film in concorso alla 30 ° edizione del Torino Film Festival, Shell come conchiglia, scrigno chiuso che racchiude in sè qualcosa di assai prezioso, per usare le stesse parole della ragazza, in risposta all’ottusa battuta di un cliente di passaggio che cita, banalmente, una nota marca di carburante; c’è davvero una perla di grande valore nascosta nel guscio di quest’opera prima, firmata dal britannico Scott Graham, che si schiude poco per volta in tutta la sua limpida bellezza. Così come limpido e ancora infantile è il volto di Chloe Pirrie, interprete straordinaria che recita con lo sguardo, le espressioni spesso attonite, i gesti ed i lunghi silenzi intervallati da poche ma essenziali parole.
Graham realizza un’opera con pochissimi elementi, sia dal punto di vista attoriale che da quello dell’ambientazione: i protagonisti principali sono soltanto due, la giovane e suo padre Pete, interpretato da Joseph Mawle (“1921 – Il Mistero di Rockford”, “La Fredda Luce del Giorno”), anch’egli eccelso nel delineare una figura paterna giovane ma dal volto già segnato, e vittima di improvvisi attacchi di epilessia. Shell e Pete gestiscono una stazione di servizio sperduta nelle highlands scozzesi, in cui le giornate scorrono lente, divise tra i rari automobilisti di passaggio e l’abitazione del piccolo nucleo famigliare, spazio cardine della messa in scena, luogo chiuso, claustrofobico, contrapposto al paesaggio che lo circonda, sconfinato e quasi impressionante nella sua totale bellezza. Il mondo esterno contro il microcosmo al quale Shell è ancorata, sia dall’affetto verso che il genitore che dall’obbligo, poiché lo stato di salute del padre la  costringe a restare lì, senza poter fuggire.

Guardare il mondo o meglio immaginarlo, ponendo domande incuriosite ai propri sporadici clienti, chiedendo loro da dove arrivino, dove siano diretti, cercando così di portare via scampoli di vita al di fuori del suo isolamento. La giovane occulta la propria fisicità con maglioni larghissimi ed un giaccone che ha sempre addosso, schermandosi così dietro ulteriori corazze entro le quali si sente al sicuro. 
Il rapporto col genitore si delinea lentamente, nel corso del narrato, prendendo una forma ambigua, fino a toccare da vicino il legame incestuoso: i ripetuti “I love you” che Shell dice a Pete restano nell’ambivalenza del significato, che in inglese corrisponde sia al voler bene che all’amore, ed è attraverso le immagini e le situazioni che la frase assume sfumature diverse, fino a risultare tagliente nella sequenza dell’amorevole e morboso abbraccio con cui la figlia stringe il padre, dopo essersi rifugiata nel letto di lui per ripararsi dal freddo, nel desiderio di una vicinanza fisica che l’uomo tenta, seppur con fatica, di respingere.

Graham riesce a trattare un argomento delicato con una sensibilità eccezionale, lasciando scorrere sotto la pelle del racconto questo tumulto di sentimenti e sensazioni, rappresentati mediante dialoghi ridotti all’osso, sguardi colmi di significati, piccoli ma importantissimi gesti che valgono più di tanti inutili discorsi.
Il silenzio, infatti, domina una narrazione in cui lo score è totalmente assente, sostituito dal suono del vento, sottofondo ideale che simboleggia l’onnipresenza della Natura desolata e selvaggia in cui si colloca la trama del racconto; unica eccezione musicale è la splendida The Walk Of Life dei Dire Straits, sulle cui note Shell si scatena in una danza solitaria, catartica, liberatoria di un’energia vitale tenuta, volutamente, sottochiave per il resto della pellicola.

La solitudine dei due protagonisti, motore primario del loro legame simbiotico insieme alla malattia dell’uomo, è isolamento al tempo stesso volontario e riluttante, accettato con una rassegnazione nelle cui pieghe l’impulso di fuggire scalcia silenziosamente.
I pochi clienti della stazione di servizio sono galleria umana con cui la ragazza si confronta, in modo spesso conflittuale: il giovane Adam (Iain De Caestecker), operaio in una segheria della zona, rappresenta un possibile corridoio di fuga verso il mondo esterno, nel suo interesse verso Shell, nel chiederle più volte di trascorrere una serata al pub, inviti a cui la ragazza risponde con un “I don’t know”, parole che sono eco non soltanto di una perpetua incertezza nell’accettare un rapporto umano altro da quello che la lega al padre, in un timore di “tradire” il genitore, ma che rappresentano il sostanziale conflitto tra il desiderio di fuga e la paura di assecondare questo impulso, dettata anche dalla necessità di dover restare per non abbandonare colui che non può restare solo.  

Altro personaggio che ruota attorno a questo piccolo mondo è Hugh (un’ottimo Michael Smiley, il Gal di “Kill List”), uomo rattristato dal non riuscire mai a trascorrere del tempo con i propri bambini, che vede in Shell una sorta di ancora di salvezza in una vita mesta, ma dalla quale è anche colpevolmente attratto.

Scott Graham ed i suoi straordinari interpreti ci donano dunque un kammerspiel circondato da terre sconfinate che rappresentano, per la protagonista, il mondo esterno, l’ignoto, affascinante e spaventoso al tempo stesso, con riprese paesaggistiche che tolgono letteralmente il fiato per la loro assoluta ed imponente bellezza.
Un film che si disserra come un dono prezioso, in uno svolgersi lento, con una calma apparente che cela i tumulti di un’anima che si offre poco per volta, mettendo a nudo le proprie paure, conflitti e sentimenti che non si possono confessare, in 90 minuti di incanto filmico che permangono, avvolgendo come un guscio il cuore dello spettatore.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Shell
Uk - 2012
Regia: Scott Graham


domenica 25 novembre 2012

Torino Film Festival XXX Edizione: The Lords Of Salem (2012)






Ha preso il via, da venerdì, la trentesima edizione del Torino Film Festival, che seguirò come inviata per Positifcinema, con extra per altre testate. 

Si inizia in grande stile, con The Lords Of Salem di Rob Zombie, per CineClandestino


http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/the-lords-of-salem.html 




The Lords Of Salem (2012)


Heidi Hawthorne, donna fragile ed ex-tossicodipendente, lavora come dj alla stazione radio di Salem, Massachussets, la cittadina arcinota per il suo passato di condanne stregonesche. Passato che torna sotto forma di Lp, recapitato ad Heidi da parte del misterioso gruppo “The Lords”: il suono inquietante ed ipnotico la trasporterà in un incubo atavico con il quale dovrà fare i conti.



Giunge finalmente sulle italiche sponde, grazie al Torino Film Festival, l’attesissimo “The Lords Of Salem” di Rob Zombie, presentato in anteprima assoluta per il nostro Paese. Opera dalla genesi produttiva travagliata, e già oggetto di pareri controversi ed opposti, che vedono pubblico e critica divisi tra entusiasmi assoluti e accuse di eccessiva attenzione formale a scapito della sostanza.
La pellicola del regista/musicista statunitense (nativo proprio del Massachussets) rappresenta, in realtà, una prova di maturazione e l’ulteriore conferma di uno stile sempre più personale che punta a slegarsi da qualsiasi cliché, film dopo film. Il talento di Zombie, infatti, si ritrova anche nel non essere mai uguale a se stesso, in un percorso stilistico/narrativo che è progressivamente mutato, arricchendosi: si parte dall’esordio con la fantasmagorica blood feast ipercitazionista de La Casa dei Mille Corpi (2003), per poi passare al magnifico e crudo La Casa Del Diavolo (2005), spoglio e impietoso, in netto contrasto con lo splatter barocco del primo film.  Il suo prequel atipico del classico Halloween, Halloween - The Beginning (2007) è rilettura ricostruttiva, appassionata e “altra” rispetto al capolavoro Carpenteriano, opera a sè stante e dotata di vita propria; più debole Halloween II (2009), ma in ogni caso dotato di alcuni momenti che sono chiaro frutto di un talento puro.

Rob Zombie è, in primis, un grande appassionato di cinema orrorifico e quest’amore trapela da ogni inquadratura dei suoi film: le numerosissime citazioni sono sempre omaggi e mai plagi o bieche imitazioni, poiché si rivelano funzionali sia alla messa in scena che al narrato.

The Lords Of Salem rappresenta una svolta nel suo percorso registico, un felicissimo cambio di rotta verso un cinema sempre più caratterizzato in senso personale, e pregno di riferimenti maggiormente diversificati; la trama, volutamente semplice, cela in realtà rimandi più sottili, lasciando allo spettatore la facoltà di coglierli ed interpretarli. La storia di Heidi (una come sempre eccellente Sheri Moon Zombie, anche qui incontrastato corpo-iconico, con iconosclastia in agguato), donna dalla vita incerta e traballante, che si ritrova al centro della nemesi delle Streghe di Salem, non è soltanto un chiarissimo omaggio all’horror satanico anni ’70 (evidente anche nella fotografia sgranata della prima parte del film, ad opera di Brandon Trost) ma è anche simbolo delle due facce del Femminile, lo Stregonesco e il “virginale” che tale non è, poiché Heidi, per quanto sia spaventata dal Male, non è certo priva di macchie. La donna non combatte, non è eroina positiva, e anche in questo caso si ritrova il rovesciamento di un tipico cliché di molti film di genere: la sua debolezza, semplicemente, la trascina.

Il Male affascina, rapisce e porta inesorabilmente a sè, in una vittoria che è anche giustizia per le violenze e le torture subite da chi veniva, arbitrariamente, accusato di stregoneria:non vi è, ovviamente, nessun tipo di giudizio morale, soltanto la Visione, strega ed ammaliatrice per eccellenza.
I riferimenti sono molteplici, da John Carpenter a Mario Bava (impossibile non pensare a La Maschera del Demonio), passando per le suggestioni sataniste di Kenneth Anger, fino a giungere ad alcuni tocchi di Ken Russel e Jodorowsky nei passaggi più visionari, sottolineati anche da splendidi scenari barocchi memori di David LaChapelle. L’immaginario visivo di Zombie viene donato a piccole dosi, alternato a una rappresentazione realistica e a tratti lineare; nei momenti in cui il delirio visivo si scatena, esso è puro e senza freni, viscerale e lisergico come da tempo non si aveva il piacere di vedere sui grandi schermi.

The Lords Of Salem possiede un’anima iconoclasta, sovversiva, blasfema, il che fa tristemente presagire che una distribuzione italiana possa essere impresa assai difficoltosa, o per meglio dire impossibile per la versione integrale dell’opera.
Il film vuole anche essere omaggio alla musica rock anni ‘70, con una colonna sonora sorprendente (i Velvet Underground su tutti), e riferimenti musicali sparsi in ogni dove. Lo score (composto da John 5 e Tom Rowland) è magnificamente quieto, alternando pianoforte e chitarra acustica, mentre l’ipnotico pezzo dei “The Lords”, cupo ed ossessivo, fa da sfondo a una tra le più belle sequenze dell’intera pellicola.

Un’attesa che non delude, una prova ampiamente superata, il segno di una maturità artistica in continua ascesa: se non si perderà lungo il cammino, Rob Zombie è destinato ad entrare, a pieno merito, nell’Olimpo dei Maestri dell’Horror.

Chiara Pani
(araknex@email.it)


The Lords Of Salem
USA/Uk/Canada - 2012
Regia: Rob Zombie