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martedì 5 marzo 2013

La mia recensione di "Educazione Siberiana" (2013) per Nocturno.it


pubblicata su Nocturno.it

http://www.nocturno.it/recensioni/educazione-siberiana






Educazione Siberiana (2013)


Kolima e Gagarin hanno 10 anni e crescono seguendo le regole non scritte della loro comunità, in una zona franca, la Transnistria, nel Sud della Russia. Un codice d’onore criminale tramandato da Kuzja, anziano capoclan e nonno di Kolima, un’etica particolare, sovversiva e rigida al tempo stesso. A dieci anni di distanza i due ragazzi si ritroveranno ad affrontare non soltanto un mondo che è completamente cambiato, ma, in primo luogo, il loro stesso mutamento.





Poco o nulla si sapeva della Transnistria, piccolo stato anarchico non riconosciuto della Siberia, prima dell’uscita del romanzo d’esordio di Nicolai Lilin, Educazione Siberiana (Einaudi, 2009), scritto parzialmente autobiografico che racconta di questa zona franca e della comunità che lo abita, gli Urka, figli di una tradizione in cui il codice d’onore criminale è l’unica legge riconosciuta. Un narrato vicino alla forma del diario personale, dunque non facile da trasporre in immagini: la casa produttrice Cattleya propone l’idea a Gabriele Salvatores, che accetta la sfida di un progetto arduo, col medesimo coraggio con cui affrontò Nirvana ormai sedici anni orsono, com’egli stesso confida nella lunga intervista pubblicata su Nocturno di Febbraio. E Salvatores, vince: il suo Educazione Siberiana è film di ampio respiro e dal sapore epico, segno visibile di un cambiamento, e proprio le trasformazioni ne sono tematiche centrali, sullo sfondo di una Russia osservata nell’arco del destabilizzante decennio tra gli ’80 e i ’90. Vecchio e nuovo si fondono, in un’opera che guarda al passato, al Sergio Leone di C’era Una Volta In America e al grande cinema sovietico, ma che al tempo stesso non cela l’entusiasmo dell’imboccare il sentiero inesplorato di questo romanzo di formazione nel quale il nonno Kuzja (grandissimo John Malkovich) si fa portavoce di un “codice morale” che è sì criminoso, ma per certi versi condivisibile (“rispetterai tutte le creature viventi eccetto la polizia, i banchieri e gli usurai”). Nonostante qualche ingenuità di troppo nella rappresentazione poetica del “criminale onesto”, il plot riesce a mantenere una linea rigorosa: la sceneggiatura, firmata dal combo Stefano Rulli e Sandro Petraglia insieme allo stesso Salvatores, tiene fede allo scritto di Lilin scegliendo una forma più dinamica nell’alternare la messa in scena tra il passato e un quasi-presente; il rapporto tra i due amici è analizzato con occhio partecipe, in special modo dopo l’ingresso della giovane Xenya (notevole Eleanor Tomlinson), malata mentale per il resto del mondo, “voluta da Dio” per una cultura in cui il sacro è base portante. L’importanza del tatuaggio come voce narrante della storia di un uomo, caratteristica già osservata ne La Promessa Dell’Assassino di Cronenberg, è incarnata dalla figura imponente e sciamanica di Ink, al quale dà volto e corpo un superbo Peter Stormare, artista/stregone di un fondamentale rituale di passaggio.   
    
Da sottolineare le musiche di Mauro Pagani, che mescolano sapientemente la tradizione russa con i tempi moderni, e la splendida fotografia, come sempre ad opera di Italo Petriccione, che si fa calda e avvolgente nei ricordi d’infanzia, per diventare nitida e spietata nel rappresentare il vissuto più vicino.

Educazione Siberiana è sfida portata a termine con successo, una sorta di rituale iniziatico filmico che apre la strada a un nuovo percorso nella carriera di un regista il quale, ancora una volta, si fa voce fuori dal coro nel panorama troppo spesso allineato del cinema di casa nostra.

Chiara Pani
(araknex@email.it)
 


Educazione Siberiana
Italia - 2013
Regia: Gabriele Salvatores
Data di uscita in sala: 28 Febbraio 2013

sabato 19 gennaio 2013

"Django: da Corbucci a Tarantino e l’urlo lisergico di Takashi Miike", il mio approfondimento sul personaggio per Point Blank

in occasione dell'uscita di Django Unchained, uno sguardo retrospettivo sul personaggio di Django, dal film di Corbucci passando per il grande Takashi Miike fino ad arrivare alla prospettiva tarantiniana. Come sempre, buona lettura :) 

pubblicato su Point Blank: 


http://www.pointblank.it/?p=28373










Django:  da Corbucci a Tarantino e l’urlo lisergico di Takashi Miike




Che il cinema di Quentin Tarantino possa piacere o meno, e che sul suo effettivo valore si sia ormai dibattuto fino alla nausea, è ormai un dato di fatto. Ma è altrettanto indubbio che uno degli innegabili pregi del cineasta statunitense sia stato quello di far scoprire al grande pubblico film misconosciuti oppure, come in questo caso, di cui si è sempre sentito parlare ma che molti non hanno mai visto. “Ha scoperto l’acqua calda” diranno i detrattori, “ha tolto il lenzuolo da pellicole pregevoli che han preso polvere troppo a lungo”, diremo noi. Alzino la mano coloro che già conoscevano e apprezzavano Quel Maledetto Treno Blindato di Castellari prima che Quentin ne mutuasse il titolo d’esportazione per il suo Inglorious Basterds, o che si scioglievano davanti a Pam Grier nel ruolo di Foxy Brown oltre due decenni prima del magnifico Jackie Brown; opere che gli amanti del cinema di genere conoscono a memoria, ma delle quali  l’audience di massa ignorava l’esistenza. 

Sdoganamento, revisionismo, noi preferiamo parlare di una serie di ottime scelte dettate da una fortissima passione personale. Ecco dunque arrivare finalmente in sala l’attesissimo Django Unchained , che dal film firmato da Sergio Corbucci nel 1966 trae ispirazione per le tematiche di fondo, oltre che per il nome del personaggio che campeggia come insegna-homage a ricordarci che tutto è partito da lì, da quell’atipico e cupo spaghetti western  con un Franco Nero al suo primo ruolo di rilievo che lo rende subito icona: il pistolero solitario, silenzioso, nerovestito che si porta appresso una bara, non può non entrare di diritto nell’immaginario collettivo cinefilo. Ritroviamo le sue tracce in una gothic band come i Fields Of The Nephilim, con i loro cappellacci a metà tra il cowboy ferale e il boogeyman, grandi amanti del cinema bis italiano, o nella figura di Undertaker, wrestler americano che alla fine del proprio show chiude in una cassa da morto i propri avversari sconfitti. La figura di Django ha avuto dunque un impatto più ampio di quanto si sia portati a pensare, creando un modello cinematografico seguito da una serie di epigoni dal valore discutibile. Il film di Corbucci, che vedeva un Ruggero Deodato pre-Cannibal Holocaust come aiuto regista, pur non rappresentando la punta massima del suo cinema, è una pellicola che riesce ad essere potente, con momenti feroci (la scena dell’orecchio mozzato che viene poi fatto mangiare alla vittima, citata in parte da Tarantino ne Le Iene), una buona carica eversiva (il sottotesto antirazzista ripreso in Django Unchained, l’eroe che salva la vita alla prostituta a inizio film, in un genere in cui le figure femminili non erano mai tenute in gran conto) ma soprattutto, una sostanziale disperazione, quella per l’amore perduto, la moglie uccisa dai sudisti e sepolta nel cimitero che farà da sfondo alla sequenza finale. Nella pellicola di Tarantino il Django interpretato da Jamie Foxx è uno schiavo reso libero dal Dottor Schultz (Cristoph Waltz), un dentista divenuto cacciatore di taglie, insieme al quale si mette in cerca dell’amata consorte, tenuta in schiavitù dal temibile Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).

L’amore ancora pulsante del Django tarantiniano e quello ormai cristallizzatosi in un’incapacità di dimenticare del personaggio di Corbucci (“Django, have you never loved again?” recitano le parole cantate da Rocky Roberts nel main theme del film del 1966)  è il filo rosso principale che unisce le due rappresentazioni, e che nella figura interpretata da Franco Nero diventa azzeramento di ciò che si era fino ad arrivare ad una morte simbolica: alla domanda “c’è qualcuno in quella bara?” la risposta è  “uno che si chiama Django”. Nella cassa da morto, in realtà, c’è l’arma del pistolero, ossia una mitragliatrice, altro elemento nuovo nel cinema western, sorta di oggetto magico che gli conferisce poteri quasi sovrannaturali rendendolo simile ad un supereroe dunque, figura non realistica nell’essere in grado di sterminare, da solo, orde di nemici. 

Elemento ricorrente nei western di Corbucci è il personaggio dell’eroe menomato, sordo oppure cieco: a fine film i messicani traditi si vendicano maciullando le mani al protagonista, privandolo dunque del suo potere principale, l’abilità di sparare. Nonostante ciò, nel memorabile finale, Django riesce a regolare il conto in sospeso con i sudisti, celandosi dietro la lapide della moglie, e scandendo una preghiera che sul “così sia” vede la morte del suo nemico giurato, il Maggiore Jackson. Leggenda vuole che il protagonista faccia fuoco con sette colpi di pistola, mentre un caricatore ne può contenere al massimo sei: l’ultima pallottola dunque, rappresenterebbe la vendetta da parte della donna defunta. 

Il film fu seguito da una serie di titoli dedicati al personaggio ma che poco o nulla avevano a che fare con l’originale: da Django il Bastardo (1969), di Sergio Garrone, fino a Django Sfida Sartana (1970), di William Redford, pseudonimo dietro il quale si celava Pasquale Squitieri. Bisogna attendere fino al 1987 per l’unico vero sequel, Django 2 – Il Grande Ritorno, firmato da Nello Rossati, col nome fittizio di Ted Archer. Co-prodotto da Reteitalia, mostra una matrice televisiva fin dai titoli di testa e si rivela assai deludente sotto ogni punto di vista, nonostante la presenza di Franco Nero, Christopher Connelly e del grande Donald Pleasence: Django si è ritirato in un monastero, assumendo il nome di Padre Ignazio e chiudendo definitivamente con il proprio passato. Marisol, una bambina che probabilmente è sua figlia, è stata rapita da un trafficante di schiavi, Orlowsky detto “Il Diavolo” (Connelly), destinata ad un  giro di prostituzione infantile; Django torna quindi in azione, per salvare Marisol e far trionfare la giustizia. Un polpettone che sa di soap-opera, con Nero ormai imbolsito e poco convincente, ed un intreccio inverosimile e noioso per un sequel assolutamente inutile.

Tra i due film italiani e la pellicola di Tarantino troviamo una quarta opera, che rivede e rielabora il Django originario attraverso la lente della cultura giapponese e, soprattutto, dal punto di vista di una mente geniale: Takashi Miike, che nel 2007 firma Sukiyaki Western Django, splendido melting-pot che chiude il cerchio, riportando lo spaghetti western alle sue radici, ossia il Giappone dei samurai. E’ quasi inutile ricordare che gli italici padri del genere, da Sergio Leone allo stesso Corbucci, presero ispirazione proprio dai film del Maestro Kurosawa, che hanno, d’altro canto, influenzato il western in generale nella sua struttura narrativa. Ritroviamo chiari echi di Per Un Pugno di Dollari  che a sua volta prese spunto da La Sfida dei Samurai di Kurosawa, ma  Sukiyaki Western Django è crossover totalizzante, che lega l’epopea del pistolero con la bara anche all’Enrico VI di Shakespeare e alla Guerra delle Due Rose, quella dei York e dei Lancaster, riflessa nella secolare faida tra le fazioni/gang (simili a guerrieri urbani) dei “rossi”, gli Heike, e dei “bianchi”, i Genji, che tengono sotto scacco un piccolo villaggio, in cui si celerebbe un favoloso tesoro ma sul quale grava una sinistra maledizione.
Il film è una sorta di prequel del Django del 1966, poiché ne narra in un certo qual modo la genesi, seppur sia presente anche qui la figura cardine del misterioso pistolero, il cui arrivo scatena una contesa tra le due bande per ottenerne i servigi.

La presenza nel cast di Quentin Tarantino, in un ruolo ridotto dal punto di vista dell’effettiva comparsa sullo schermo ma fondamentale nel plot, sugella ulteriormente la continuità tematica tra le pellicole in oggetto, apparendo profetica alla luce di Django Unchained, e sottolinea la mutua influenza tra i due registi, un palesare su pellicola la stima reciproca che intercorre tra loro. Come in Kill Bill si erano visti elementi del cinema di Miike, allo stesso modo in quest’opera ritroviamo alcune sequenze tarantiniane che si mescolano fluidamente alle innumerevoli altre influenze visive che contemplano il cartoon classico così come il manga, in una stilizzazione assoluta con scenografie palesemente finte, virate sul verde e sul giallo, in special modo nel prologo e nei flashback, colori violenti con la predominanza del rosso e del bianco, soluzioni visive e narrative del tutto spiazzanti, in un’accellerazione del ritmo che diventa puramente delirante. Omaggio fatto di molteplici citazioni, ma di fondo resta Miike allo stato puro, con un’ironia macabra e dissacrante, mutilazioni in inquadratura ravvicinata (qui maggiormente fumettistiche che in altre sue opere), il tutto alternato a momenti drammatici, lirici oppure brutali.    

L’anello di congiunzione perfetto, dunque, tra il film di Corbucci e Django Unchained, una pellicola simbolica nel saper legare tradizioni diversissime in un’ottica che diventa a tutti gli effetti lisergica, quindi rivoluzionaria nel suo rielaborare.
La rilettura innovativa, il destrutturare senza distruggere è la chiave di volta del cinema di Tarantino: con Django Unchained si va ancora oltre, prendendo la pellicola italica come semplice spunto di partenza, per imboccare una direzione assolutamente anarchica e multiforme. Dopo Inglorious Basterds, il regista affronta nuovamente un lato feroce della Storia, lo schiavismo, conservando dunque il sottotesto antirazzista del Django originario ed approfondendolo in maniera estrema, mutando il protagonista da eroe dallo sparo infallibile in schiavo affrancato alle prese con una quest lunga e travagliata, non a caso sovrapposta alla leggenda teutonica di Sigfrido e Brunilde. Tarantino ancora una volta gioca con i generi, con una maestria tale da rendere Django Unchained difficilmente classificabile, magnifico ibrido davanti al quale non resta che abbandonarsi alla potenza della visione.


Chiara Pani
(araknex@email.it)





 

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domenica 13 gennaio 2013

La mia recensione di "Arrivederci Amore, Ciao" (2006) per CiaoCinema






Sono felice di annunciare la mia nuova collaborazione con CiaoCinema , che inauguro scrivendo di un film che ho amato molto: Arrivederci Amore, Ciao (2006), di Michele Soavi. 

Buona lettura :)




Arrivederci Amore, Ciao (2006)



La saga dell’Alligatore è una serie di romanzi di Massimo Carlotto (al centro di un celebre caso giudiziario negli anni ’70), dal soprannome dal detective che ne è protagonista. E’ proprio con la soggettiva della carcassa di un alligatore che si apre Arrivederci Amore Ciao, tratto da uno dei lavori più belli e spietati dello scrittore padovano, diretto da Michele Soavi, di nuovo all’opera per il grande schermo a ben dodici anni di distanza da Dellamorte Dellamore, in seguito ad una lunga parentesi televisiva. E’ un ritorno sorprendente, con un noir cupo e plumbeo come gli anni di cui parla: Soavi traccia il ritratto di Giorgio Pellegrini, ex terrorista fuggito all’estero col capestro di un ergastolo, e gli dà il volto di Alessio Boni, preso di peso dalle fiction televisive, plasmandolo a interprete assolutamente adatto di un uomo ignobile, una “carogna”, individuo freddo e imperturbabile, che fonda la propria esistenza unicamente sull’autoconservazione, nel cui mondo gli altri sono soltanto strumenti, oggetti da usare per poi gettare via.

La narrazione copre un lungo arco temporale, dagli anni del terrorismo fino ai giorni nostri, seguendo il progressivo svanire di una coscienza che ogni tanto si risveglia nei lampi dei flashback della notte dell’attentato, memoria che prende forma nel corso del racconto, ma che è al tempo stesso sempre più lontana poiché la sfera emozionale, in Giorgio, si è inesorabilmente congelata.
L’uomo si illude di controllare la propria vita, in realtà è burattino in mani di volta in volta diverse: prima, quelle degli ideologi della lotta armata, che teorizzavano di rivoluzione “con la pancia piena di Pernod”, poi in quelle, ancor più sporche, di Ferruccio Anedda (interpretato da un Michele Placido come sempre sopra le righe), ispettore della Digos corrotto fino al midollo.
 

Anedda diventa l’ombra ricattatoria di Pellegrini, l’ossessivo promemoria di un passato che non può lasciarsi alle spalle, figura viscida a tutto tondo che manda avanti Giorgio nella manovalanza criminale della quale egli tira le fila.
Flora (Isabella Ferrari), donna che gli dirà addio dopo una serie di incontri sessuali iniziati con l’unico scopo di coprire parte di un debito del marito ma che “gli entra nel sangue come la malaria”, e Roberta (Alina Nedelea), giovane e trasparente, la ragazza perbene che tanto gioverebbe, in immagine, alla riabilitazione di cui si sta occupando l’assessore Brianese (il grande Carlo Cecchi), sono le figure femminili che ruotano attorno alla sua aridità, l’una diametralmente opposta all’altra. 

Roberta lo ama in modo ingenuo e totalizzante, mentre per Giorgio lei è solo un'altra tessera del mosaico che deve andare al posto giusto, a ricostruire una parvenza di normalità, al pari del lussuoso ristorante che ha aperto col bottino di una rapina. Ma le apparenze non possono mutare l’essenza di una persona: nello splendido, impietoso finale (da notare la citazione da Schock, di Mario Bava), Soavi ci dimostra che Giorgio è rimasto l’impassibile e gelido individuo di sempre.

Fondamentale l’uso delle musiche, dalla leggendaria Aqualung dei Jethro Tull fino al tormentone il cui ritornello dà il titolo al film, “Insieme a Te Non Ci Sto Più”, di Caterina Caselli, ricorrente nei lampi di memoria dell’attentato, perfetta e straziante nella lunga sequenza finale. Dopo aver visto il film, la canzone non sarà più la stessa di prima.

Soavi ci dona un piccolo gioiello sia dal punto di vista tecnico, con riprese fluide e ottime trovate registiche, che narrativo, forte di una sceneggiatura di ferro e di una messa in scena che non si dimentica facilmente.    

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Arrivederci Amore, Ciao
Italia - 2006
Regia: Michele Soavi














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