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sabato 8 dicembre 2012

La mia recensione di "Maniac" (2012) di Franck Khalfoun per CineClandestino - Torino Film Festival XXX edizione



pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/maniac.html





Maniac (2012)


Timid Man




Aveva tutta l’aria di una scommessa persa in partenza questo remake del cult movie di William Lustig, Maniac, pellicola di per sé non riproducibile per l’unicità delle atmosfere malsane e di un protagonista/simbolo, l’indimenticabile Joe Spinell (anche co-sceneggiatore e co-produttore del film) nel ruolo di Frank Zito, personaggio che si era cucito addosso alla perfezione e al quale aveva donato sfumature e caratteristiche divenute perno centrale dell’opera. La pachidermica fisicità dell’attore italo-americano (il cui vero nome era Joseph J. Spagnuolo, morto nel 1989 a soli a 52 anni) entrava in netto contrasto con la debolezza interiore di Frank, oppresso dall’immaginaria voce della madre defunta in schizofrenici e conflittuali dialoghi/monologhi che erano la spinta primaria delle sue pulsioni omicide.

Maniac rappresenta tuttora, per Lustig (che è tra i produttori del remake), il lavoro più riuscito in una carriera mediocre, frutto dell’alchimia di una serie di fattori felici che diedero vita a un vero e proprio oggetto di culto per schiere di appassionati. Rifare una pellicola del genere era dunque impresa non facile, assai diversa dalla produzione seriale di brutti film fotocopia dei classici horror e slasher ad uso e consumo di un pubblico di adolescenti troppo occupati a masticare popcorn: il remake di Maniac era atteso al varco con una buona dose di pregiudizi negativi, che lo vedevano già sconfitto in partenza, anche per la scelta del nuovo protagonista, un Elijah Wood troppo vicino al cinema mainstream e lontano anni luce da ciò che Joe Spinell ha rappresentato per il personaggio.


Contro ogni aspettativa, invece, il film riesce a soprendere, rivelandosi rilettura intelligente e riuscita. Diretta da Franck Khalfoun (suo il non eccelso -2 Livello del Terrore) e prodotta dall’ex-enfant prodige Alexandre Aja, anche autore dello script insieme al fidato Grégory Levasseur e a C.A. Rosenberg, l’opera evita abilmente le trappole più insidiose, accantonando la pretesa di essere replica dell’originale bensì imboccando una strada diversa, che si rivela azzeccata.
Maniac versione 2012, presentato con successo alla 30° edizione del Torino Film Festival all’interno della sezione Rapporto Confidenziale, quest’anno densa di horror, non possiede la carica malsana del film di Lustig poiché l’atmosfera è qualcosa di non ripetibile: l’intelligenza dell’operazione si ritrova nel creare dei differenti punti di forza, dando vita ad una pellicola che omaggia l’originale rendendosi al tempo stesso autonoma. La scelta di Wood per il ruolo di Frank Zito si rivela ottima, in quanto il suo aspetto fragile ed indifeso esteriorizza ciò che il massiccio corpo di Spinell teneva nella sfera interiore: entrambi, infatti, sono visti come “anime gentili” dal personaggio di Anna (qui interpretata da Nora Arnezeder), e in questo film tale caratteristica è accentuata; l’aspetto del nuovo Frank, inoltre, ispira fiducia nelle sue vittime, che non lo temono, creando così un contrasto maggiore tra apparenza e reale personalità del killer.


La narrazione viene attualizzata in modo non posticcio, senza mai scadere nell’imitazione fine a se stessa, citando la pellicola-genitrice con trovate efficaci e talvolta sorpredenti, calando la vicenda ai nostri giorni e rendendola del tutto credibile.
La vera innovazione del Maniac di Khalfoun si denota nella tecnica di ripresa: il film è girato per gran parte in soggettiva, dunque dal punto di vista di Zito, mostrato raramente  in terza persona e il più delle volte riflesso da specchi, a rappresentare la pallida proiezione di una personalità disgregata. Il P.O.V. del killer, a differenza di quanto accade nella maggioranza delle pellicole orrorifiche, crea in questo caso un intervallo di distacco emotivo tra spettatore e personaggio, poiché mostra l’efferatezza dei crimini commessi dissociandoli dalla sua figura: la fisicità fanciullesca di Elijah Wood infatti, unita alla parte di narrato sulla sua infanzia, provoca empatia da parte di chi guarda, una sorta di pietà indulgente verso un individuo che è criminale, ma al tempo stesso dilaniato da sensi di colpa e schiacciato da una vita orribile.


L’elemento dei manichini ricopre un ruolo ancora più centrale rispetto al film di Lustig, rendendoli compagni di vita quasi umanizzati, e assai importanti nel legame che si instaura tra Frank e Anna. La relazione tra i due è rappresentata in modo non superficiale e senza lesinare cinismo, attraverso la lente deformante del punto di vista di Zito, dunque col filtro della sua mente disturbata.


Maniac ha un ritmo lento, poco accattivante, con alcuni tempi morti che contribuiscono tuttavia a renderlo ancora più disturbante e paranoico; il gore è offerto a giuste dosi, sempre funzionale alla narrazione e mai gratuito, in un film che unisce un plot robusto a un visivo affascinante e non patinato, grazie alla fotografia volutamente sporca ad opera di Maxime Alexandre, anche lui presenza fissa nello staff di Aja. Una nota a parte merita il magnifico score, composto da Rob, pseudonimo del francese Robin Coudert, il quale dà vita ad un tappeto sonoro elettronico perfetto per le immagini, ulteriore valore aggiunto in una pellicola assolutamente notevole.


Una prova ampiamente superata a dispetto delle scarse aspettative, la dimostrazione di come dovrebbe essere realizzato un remake, rendendolo oggetto a sé stante senza sganciarlo dalle proprie origini ed evitando, soprattutto, di cadere nella facile trappola della ridicola imitazione.  

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Maniac
Francia/USA - 2012
Regia: Franck Khalfoun

lunedì 14 maggio 2012

La mia recensione di "Dark Shadows" (2012) di Tim Burton su Nocturno.it


pubblicata su Nocturno.it:

http://www.nocturno.it/recensioni/dark-shadows







Dark Shadows (2012)


“Si dice che il sangue sia più denso dell’acqua: è quello che ci lega, che ci definisce, che ci unisce”

Con questa frase, pronunciata dalla voce narrante di Barnabas Collins, si apre e si conclude Dark Shadows,  l’ ultima attesa opera di Tim Burton. Un progetto che stava molto a cuore al regista di Burbank, cresciuto con l’ omonima soap-opera gotica prodotta da Dan Curtis. La differenza principale rispetto al prodotto tv sta nel registro comedy, volutamente parodistico: in questo film Barnabas (l’ immancabile Johnny Depp) si risveglia nel 1972, con un salto temporale di 200 anni, dando il via a una serie di gag più o meno riuscite.

Qui si manifesta il punto debole della pellicola: Burton ha dimostrato di saper lavorare con l’ ironia, con un gioiellino come Beetlejuice, tagliente e senza concessioni; in Dark Shadows il registro è spesso incerto, alcune sequenze sono realmente divertenti, altre risultano scontate. La performance di Depp è quasi ingessata in un ruolo gigionesco non del tutto congeniale.

Dal punto di vista visivo, il film è burtonianamente magnifico: dalla fotografia alle scenografie mozzafiato, fino all’ atmosfera cupo-fiabesca che si mescola ad un’ estetica pop-sixties. Lo score di Danny Elfman accompagna a dovere l’ apparato, seppur in modo più convenzionale rispetto ad altri lavori.

La pellicola è evidente omaggio alla filmografia vampirica, a partire dal Nosferatu di Murnau, ma non solo: nel volto di Barnabas sono chiari gli echi dal Cesare del Gabinetto Del Dr Caligari, dunque si spazia dalle memorie espressioniste fino agli Hammer movies anni ’70.

Il cast è quello delle grandi occasioni: Michelle Pfeiffer, Elena Bonham-Carter, e i camei di Christopher Lee e Alice Cooper, non del tutto riusciti: Cooper interpreta se stesso senza fantasia, in una trascurabile parentesi rock’n’roll.

La vera forza del film è Eva Green, la strega Angelique Bouchard: innamorata perdutamente di Barnabas due secoli prima, al suo rifiuto si vendica come solo una strega può fare: con una maledizione. Angelique rappresenta l’ ossessione, la brama di possesso che si fonde e confonde con l’ Amore. La strega si frantuma, come una bambola di porcellana, e così il suo cuore di vetro, che porge a Barnabas in una delle sequenze più belle del film. In lei sta la chiave di lettura più affascinante di una pellicola non del tutto riuscita.

Un’ opera che ha il difetto di lasciare tutto troppo in superficie, restando sempre fedele ai propri topoi registici ma che manca, al tempo stesso, di quel “tocco” che sarebbe stato fondamentale per poterla considerare pienamente riuscita.


Chiara Pani
(araknex@email.it) 

Dark Shadows
Usa -2012
Regia: Tim Burton





domenica 22 aprile 2012

La mia analisi de "L' Alba Dei Morti Viventi" (2004) di Zack Snyder per Horror.it



pubblicata su Horror.it:

http://www.horror.it/a/2012/04/l-alba-dei-morti-viventi-2004/





L’ Alba Dei Morti Viventi (2004)


“And I heard a voice in the midst of the four beasts
 And I looked and behold, a pale horse
 And his name that sat on him was Death
 And Hell followed with him”

(“The  Man Comes Around” – Johnny Cash)


Sulle note del magnifico pezzo di Johnny Cash, scelta inconsueta ma quanto mai azzeccata, scorrono i titoli di testa de “L’ Alba Dei Morti Viventi”, a film già iniziato, dopo un prologo che ci mostra un primo sviluppo di narrazione.
Realizzata nel 2004, con un budget di 28 milioni di dollari e distribuita dalla Universal, la pellicola segna l’ esordio su grande schermo del regista Zack Snyder, che in seguito dirigerà titoli come “300” (2006) e “Sucker Punch” (2011).

Teoricamente, il film è remake del capolavoro di George A. Romero, “Zombi” (1978): impresa non solo ambiziosa ma quantomeno titanica, considerando che si sta parlando di un esordiente. Quello dei rifacimenti è terreno ormai sfruttato all’ esasperazione in campo horror: negli Stati Uniti, negli ultimi dieci anni, è stato rifatto quasi ogni classico del genere, con esiti a volte disastrosi, altre risibili ma in ogni caso noiosi e standardizzati, lasciando sempre lo spettatore con l’ interrogativo “ Ce n’ era davvero bisogno? ”. No, se non per ingrassare i botteghini e, cercando di essere ottimisti, far conoscere alle giovani generazioni i film originali da cui questi cloni malriusciti sono stati tratti.
Cimentarsi con remake di capolavori è compito ovviamente assai rischioso, e riservato solitamente a registi blasonati e coraggiosi: solo un Gus Van Sant poteva essere in grado di replicare “Psycho” di Hitchcock, rifacendolo inquadratura per inquadratura e dandogli una chiave visiva pop; non ha preteso di imitare un modello inarrivabile ma ne ha fatto una copia esatta, rendendolo al tempo stesso completamente personale dal punto di vista stilistico. Vette ancora più alte sono state toccate da Werner Herzog con il suo “Nosferatu” (1979), rilettura del classico di Murnau nella magnificenza della Visione del regista tedesco contemporaneo.
Si sono citate punte elevatissime in tema di rifacimenti filmici, giusto per esemplificare il fatto che, per rifare ad arte una grande pellicola, è necessario reinventarla, col tocco di un vero Maestro.
Dunque, un’ operazione potenzialmente suicida questo “Dawn Of The Dead”, basato sulla sceneggiatura di Romero ma con uno script ex-novo ad opera di James Gunn (già writer per la Troma), e con la regia affidata ad un giovane entusiasta ma comunque un debuttante. Si resta, invece, piacevolmente sorpresi dal risultato, a patto di accettare il film per quello che è in realtà: non un remake bensì una rilettura del classico Romeriano. 

Sebbene siano inevitabili i paragoni tra le due opere, è necessario sganciare questa Alba dalla precedente, considerandola film a sè stante, con i suoi pregi, difetti e le differenze che essa introduce. Affiancarla in modo strettamente comparativo al “Dawn Of The Dead” del 1978 significherebbe non solo tagliarle le gambe in partenza, ma soprattutto osservarla da un punto di vista in parte errato. Il film si ispira, fortemente, al suo illustre predecessore ma al tempo stesso riesce a prendere una strada “altra” ed indipendente. Qui troviamo l’ astuzia e l’ abilità del regista e dello sceneggiatore: l’ imitazione sarebbe stata una sconfitta cocente, un misero scimmiottamento; si è partiti dal film di Romero, per poi reinventare (almeno in parte), decorando il tutto di (doverosi) omaggi, citazioni e camei.
Ciò non significa che questo film sia perfetto, tutt’ altro: ma riesce comunque a convincere e non lascia con l’ amaro in bocca. Lo stesso Romero, per quanto non soddisfatto di alcuni punti, si è detto piacevolmente sorpreso dal risultato, il che deve aver fatto tirare un bel sospiro di sollievo agli autori.
Nel dvd è presente la versione uncut, introdotta dallo stesso Snyder, che spiega le motivazioni dei tagli per le sale, dovuti a ovvi e risaputi motivi di censura.

Il film inizia in sordina, da una situazione di calma, in cui il caos si insinua dapprima lentamente fino ad esplodere di colpo: vediamo l’ infermiera Ana (la convincente Sarah Polley) tornare a casa in quella che sembra una giornata qualsiasi, accolta dal marito Luis; durante la notte, l’ uomo viene aggredito e morso dalla bambina dei vicini ormai “trasformata” (chiaro riferimento a “Night Of The Living Dead”, una delle numerose citazioni sparse nel corso del racconto): anch’ egli diventa in breve un “infetto” (al pari del film in bianco e nero di Romero, non si utilizza mai la parola “zombie”) e tenta di aggredire Ana, che riesce a fuggire in strada, sgomenta e terrorizzata. Ecco che davanti a lei esplode il Caos, di fronte al quale non può far altro che salire in auto, e fuggire. Qui si nota la prima, fondamentale differenza rispetto all’ opera ispiratrice: in “Zombi”, ci si ritrovava scaraventati nel Disordine Assoluto fin dai primissimi minuti, partendo dalla tragedia collettiva per poi arrivare a quelle individuali; in questo caso, il percorso è inverso, affrontando dapprima il dramma di Ana e, in un secondo tempo, quello che coinvolge il mondo intero.
La donna incontra Kenneth (il sempre efficace Ving Rhames), un poliziotto che vuole raggiungere il campo di Fort Pastor per ritrovare il fratello; a loro si uniscono altri tre personaggi: la giovane coppia formata da Luda (Inna Korobkina), incinta, e Andre (Mekhi Phifer), nonché Michael (Jake Weber).
Il gruppo si avvia verso il centro commerciale del luogo, il “Crossroads Shopping Mall”, in cerca di rifugio: si scontra immediatamente con l’ ostilità delle tre guardie giurate, capeggiate da CJ (Michael Kelly), il quale mostra la medesima “territorialità” verso gli intrusi già vista nel personaggio di Stephen nella pellicola del 1978: “questo è il nostro posto”. Uno scambio di posizione , nel quale i protagonisti (per dirla schematicamente, i “buoni”) sono gli “invasori” mentre gli “ostili” sono i padroni del territorio.
Tuttavia, si riesce a stabilire una coabitazione all’ interno dello shopping mall, nel quale arriveranno altri personaggi, a bordo di un camion: ci si trova dunque di fronte a un film di stampo decisamente più corale e meno claustrofobico.

Anche qui abbiamo i momenti ludici, gli scontri, le inevitabili perdite; la delineazione dei personaggi è quasi sempre attenta , sebbene alcuni di loro siano eccessivamente a tutto tondo oppure, non completamente sviluppati, poiché, come si diceva, sono numerosi dunque sarebbe stato difficile presentare ognuno di loro in modo completo. In ogni caso, ogni individuo è riconoscibile per una caratteristica peculiare e le sfumature vengono rese in modo abbastanza efficace, così come le tensioni ed i rapporti di forza all’ interno del microcosmo che si è venuto a creare.

Il film si conclude in modo originale e con una certa dose di potenza visiva: in alternanza ai titoli di coda, scorrono i fotogrammi finali, sull’ isola che dovrebbe rappresentare la salvezza dei sopravvissuti; una sorta di gioco metacinematografico, poiché il tutto ci viene mostrato attraverso le riprese effettuate con una videocamera dagli stessi protagonisti. Anche in questo caso la musica gioca un ruolo importante: esplode il nu-rock di “Down With The Sickness” dei Disturbed, anch’ essa scelta assai azzeccata nel contesto. E’ curioso notare che sia questo pezzo, quanto la sua versione swing, nonchè quello iniziale di Johnny Cash, sono stati inseriti per assoluto volere di Snyder, nonostante  l’ iniziale rifiuto dei produttori.

In questa pellicola, si diceva, i morti viventi vengono denominati “infetti”, sebbene l’ origine del contagio non venga mai spiegata; nei plot summaries riportati sui dvd box, si parla di un virus, mentre lo sceneggiatore James Gunn, durante un’ intervista, dà una spiegazione di natura sovrannaturale al fenomeno, paragonandolo al “morso di un vampiro”. In ogni caso, non vi è traccia alcuna di tradizioni voodoo, che nel film originale erano comunque appena accennate;  la celebre frase “Quando non vi sarà  più posto all’ Inferno i morti cammineranno sulla Terra” è qui inserita in un contesto completamente diverso: è pronunciata dallo stesso attore del film di Romero, Ken Foree, che vediamo nel ruolo di un predicatore televisivo, col conservatore CJ che ascolta attento le sue parole attraverso lo schermo. “L’ Inferno è straripato e Satana ci sta mandando i suoi morti. Perché?”  e parte l’ elenco dei “peccati mortali” quali omosessualità, aborto, sesso al di fuori del matrimonio, e via discorrendo. Secondo quest’ ottica integralista, gli  zombies sarebbero una punizione divina verso noi disgustosi peccatori. Un sovvertimento piuttosto coraggioso da parte della narrazione, che sposta il personaggio originale “dalla sponda opposta”, dai racconti sul voodoo al fondamentalismo cattolico. Una chiara stilettata al bigottismo americano, forse un po’ ruffiana, ma comunque ben piazzata.

Troviamo, come in molte produzioni recenti, i morti viventi veloci, dunque non più lenti e catatonici come quelli Romeriani bensì adrenalici, furibondi, ansiogeni, molto vicini agli infetti (in senso stretto) di “28 Giorni Dopo” (2002); Snyder giustificò la scelta dicendo che si è in questo modo evitata la comicità involontaria dovuta alle tradizionali movenze rallentate e ciondolanti. Affermazione assai discutibile, poiché c’è ben poco di comico nei passi pesanti ed inesorabili dei living dead che ben conosciamo. E’ più corretto dire che, come nel resto del film, si sono attualizzati parecchi elementi, aggiungendo anche una maggiore spettacolarizzazione ed azione, per renderlo più appetibile al pubblico odierno. Potrebbero esserci anche altre chiavi di lettura riguardo a questo “cambio di marcia zombie”, ormai diffuso: volendo spingersi oltre in sentieri interpretativi, può essere vista come metafora di una società che corre a ritmi sempre più sincopati oppure, tornando a termini più prosaici, si vuole semplicemente creare un maggiore impatto a livello di azione e di ritmica visivo/narrativa.

In un preciso momento della narrazione, relativo all’ eliminazione di ciò che un tempo era Ben Cozine, anche lui guardia giurata nello shopping mall, ad opera dei suoi stessi ex-compagni, troviamo la curiosa definizione di “tarantolato”, relativa al morto vivente. E’ stata una buona scelta del doppiaggio italiano (il termine inglese è “twitcher”, da “twitch”, spasmo), con i suoi rimandi antropologici (forse involontari) al tarantismo (ossia le conseguenze del morso di una tarantola) e ai relativi esorcismi, rituali assai affascinanti, che mescolano tradizione cattolica e paganesimo. Accostamento magari puramente casuale ma per certi versi calzante, a maggior ragione con questa tipologia di zombie, che presenta caratteristiche simili a quelle di un posseduto. Nell’ uccisione di Cozine, notiamo un altro particolare , che ritroveremo in Luda: poco prima di “morire” definitivamente, nel suo sguardo compare un’ ombra di paura. Ciò è in stridente contrasto con la natura stessa dell’ essere, che è cadavere, dunque non senziente: in questo film, si lascia qualche labile traccia di umanità allo zombie, seppur attraverso un dettaglio quasi impercettibile che può essere notato ascoltando il commento audio del regista. Ciò che è interessante non è tanto la caratteristica in sé quanto la modalità quasi subliminale con cui viene resa, che è comunque recepita dal pubblico, pur se in modo inconsapevole.

Anche  qui troviamo il dilemma dell’ uccidere coloro ai quali si è legati ma che non sono più ciò che erano: questo è particolarmente evidente nella vicenda della giovane Nicole (Lindy Booth) e di suo padre Frank (Matt Frewer): fanno parte del secondo gruppo giunto al centro commerciale, e l’ uomo è stato morso. Michael e Kenneth sostengono la necessità di ucciderlo, mentre Ana difende la posizione “emotiva”, rifiutando l’ idea di eliminare qualcuno che è ancora, a tutti gli effetti, un essere umano. E’ importante notare che in questo film la “trasformazione” non è lenta bensì quasi istantanea: ai primi sintomi, segue subito la morte ed immediatamente il “risveglio”. 
Nicole reagisce alla notizia in modo straziante, poiché suo padre è l’ unica persona che le è rimasta al mondo, e i due si salutano con un lungo abbraccio: qui i legami umani sono maggiormente accentuati, scadendo talvolta in sentimentalismi un po’ scontati.
Sarà Kenneth a prendersi carico del compito, attendendo il risveglio di Frank: la scena viene tenuta fuori campo, e lasciata nel solo ambito sonoro.
Entra immediatamente in gioco il contrasto di registri, così come accadeva nel film originario: la sequenza successiva, parte con l’ allegro swing di “Down With The Sickness” rifatta da Richard Cheese, che fa da sfondo a momenti di intrattenimento del gruppo. Se in Romero si trovava l’ accostamento musiche comiche/scene cruente, qui abbiamo il montaggio che accosta scene drammatiche ad altre in cui il tono emotivo si alza di colpo, disorientando lo spettatore.

Una delle variazioni più interessanti e riuscite del film può essere trovata nell’ introduzione del personaggio di Andy (Bruce Bohne): i sopravvissuti infatti, passano molto del loro tempo sul tetto (anche in questo, abbiamo una diminuizione dell’ impatto claustrofobico), dove hanno piazzato scritte di S.O.S, ed è così che, sulla sommità di un palazzo vicino, vedono quest’ uomo, proprietario di un negozio di armi; la comunicazione tra  loro avviene unicamente a distanza, scrivendo su cartelloni e leggendo tramite cannocchiale. Kenneth, in particolare, stabilisce un’ amicizia con Andy, intrattenendosi in lunghe partite a scacchi o in divertimenti più puerili, come tiri al bersaglio sugli zombies che vagano al di sotto degli edifici.
E’ elemento particolare, non banale e che sottolinea il valore dei legami umani in condizioni estreme, relazioni che si stringono sebbene non ci si rivolga mai una parola.
La coabitazione forzata dei componenti del gruppo provoca, inevitabilmente, l’ esplosione di conflitti e tensioni, alcuni di loro si sopportano a malapena. CJ rappresenta il principale elemento di disturbo, “l’ ostile” per eccellenza il quale, insieme all’ altra guardia giurata (il terzo, Terry, si è invece amalgamato con gli altri poiché diverso dai suoi colleghi), finirà per essere messo sotto chiave per poter essere arginato. La scoperta di un altro sopravvissuto, rappresenta, in particolar modo per Kenneth,  uno spiraglio al di fuori di un’ aggregazione forzata e a lui non congeniale.

Il tipo di rapporto interpersonale che si stabilisce con Andy può essere letto in modo ambivalente, seguendo la strada della "libera interpretazione": da un lato, è possibile inserirlo nel contesto della comunicazione nell' epoca di internet, tramite messaggistica testuale, con quella “distanza di sicurezza” che in un certo qual modo protegge da un reale interscambio. Dall' altro, in modo diametralmente opposto, rimanda alle forme non-verbali primitive, antecedenti all' esistenza della parola e basate su simboli e gesti. In entrambi i casi, si tratta di un modo di comunicare che va a formare un legame amichevole che nasce in condizioni estreme, tra sopravvissuti, Kenneth e Andy. In un momento cruciale, nel quale Kenneth si trova davanti all' uomo, si rivolge a lui chiamandolo “fratello”: un legame "d' emergenza" ma non per questo meno reale, cresciuto attraverso l' unirsi di due solitudini in un’ ideale fratellanza, che in condizioni normali non si sarebbe  mai creata. 

Dunque, non vi sono solo i lati negativi della lotta per sopravvivere, come la territorialità o il conflitto, ma anche un polo positivo, quello di una solidarietà altrimenti impensabile che nasce dal bisogno di aggrapparsi alla propria umanità.  

I personaggi hanno dunque una grossa importanza in questo “Dawn Of The Dead”, così come l’ avevano in Romero: qui si mette più carne al fuoco, e, come già si accennava, non tutti i protagonisti sono presentati in modo sfaccettato: CJ, ad esempio, nonostante il “riscatto” finale, è il classico conservatore, patriottico, ignorante e maschilista, quasi del tutto privo di sfumature. La scena della cena, che vede il gruppo riunito, è occasione per presentare meglio le varie individualità, ma finisce per diventare un monologo di Michael (il quale peraltro, nel corso del film, sviluppa una reciproca “simpatia” per Ana) sulla propria inutilità come marito e l’ ennesima occasione per Steve (Ty Burrell) di guadagnarsi il marchio di “antipatico” della situazione.
Durante la cena, notiamo l’ assenza di due personaggi, Andre e Luda: la ragazza è stata morsa, cosa che il resto del gruppo ignora, ed il marito sembra non voler accettare la realtà che ha davanti; dettaglio non trascurabile, visto che si è ormai arrivati al momento del parto. Nella cornice di una cameretta da esposizione , con la fotografia virata lievemente in verde a dare un tono allucinato alla scena, troviamo la giovane legata al letto, e un Andre ormai prossimo alla follia. Luda muore ed il pancione inizia a muoversi: la puerpera zombie si risveglia inferocita, quando nella stanza entra Norma (Jayne Eastwood), solida donna di mezza età. Ciò che le si para davanti è una sorta di incubo, con Andre che tiene in mano un fagottino in fasce grondante sangue e Luda zombie legata al letto.
La sequenza successiva è efficace e assai ben montata (ottimo il lavoro di Niven Howie): Norma spara alla ragazza, e Andre spara alla donna. Un duello in puro stile western, lento, a più riprese, nel quale non si muore subito.  
Il resto del gruppo interviene ed ecco la macabra scoperta: il neonato zombie. Questo elemento è in realtà piuttosto controverso: se, ad un primo impatto, può risultare anche impressionante, finisce per essere piuttosto ridicolo, visto nel complesso.La sceneggiatura, assai più coraggiosamente, prevedeva che il bambino uccidesse la madre, ma la scelta fu scartata poiché considerata troppo estrema.
Sarà Ana a sparare al piccolo, ovviamente sempre in fuori campo, il tutto seguito da silenzio, una sorta di pausa di riflessione su quel che abbiamo immaginato che sia appena accaduto.
Non è la prima volta che compare un neonato mostruoso sullo schermo, basti pensare al cult  “Baby Killer” (1974) di Larry Cohen, nel quale, nonostante gli effetti assolutamente low budget, ci veniva mostrato (assai poco, in realtà, e lì stava la sua forza) un baby-mostro magari improbabile, ma ferocemente inquietante. L’ obbiettivo non è stato centrato in “Dawn Of The Dead”, sprecando un’ idea potenzialmente buona e di impatto notevole.

Il finale, come si diceva, è sufficientemente robusto e amaro. Si è scampati ai facili “happy ending” hollywoodiani, senza chiuse comodamente consolatorie.
Oltre al cameo di Ken Foree, troviamo anche quello di Scott H. Reiniger, il Roger del film originale: anch’ egli compare in televisione, nel ruolo di un capo dell’ esercito che invita la cittadinanza a rifugiarsi a Fort Pastor (il quale si scoprirà, in seguito, essere popolato solo più da zombies). Un negozio dello shopping mall è intitolato a Gaylen Ross, in omaggio all’ attrice che interpretava Fran, dunque un tributo solo nominale poiché l’ interprete è stata impossibilitata a partecipare al film. David Emge, l’ attore che ricopriva il ruolo di Stephen, è invece risultato irrintracciabile.

Anche qui, come nella pellicola “madre”, la presenza del mezzo televisivo è massiccia, ma in questo caso lo è proprio in senso fisico: infatti, le guardie giurate tengono perennemente accesi più maxi-schermi contemporaneamente e di continuo, in modo ossessivo ed incessante. I notiziari scorrono uno dietro l’ altro, col sottofondo delle proteste di CJ: “sempre le stesse cose, ditemi qualcosa che non so!”. Una ridondanza di informazioni sempre uguali, reiterate, esasperanti, ua potenza mediatica che, negli anni, si è ingigantita fino a diventare più spaventosa dei mostri stessi.

Tecnicamente, la pellicola è di ottima fattura, sebbene eccessivamente patinata: il montaggio è ottimo, sebbene talvolta troppo serrato, prediligendo l’ azione a scapito di tempi più lenti; interessante il lavoro sul colore, con tonalità fredde e livide che rendono bene l’ atmosfera all’ interno del complesso di negozi diventato rifugio/prigione.
Buoni gli effetti speciali a cura di David LeRoy Anderson, che per la realizzazione del trucco dei cadaveri si è basato su fotografie e documentazione di carattere scientifico, in modo da ottenere un maggior realismo ed efficacia.
Il film è ambientato a Milwaukee e girato in Canada, in parte in un centro commerciale in fase di chiusura, che venne demolito subito dopo il termine delle riprese.
Un bilancio dunque complessivamente positivo per questa rilettura, ed è giusto sottolineare il termine, del cult di Romero, che ha fatto comunque storcere il naso a molti, e non sempre a torto: ci sono molte strizzate d’ occhio al botteghino, nelle numerose scene d’ azione, l’ apparato patinato, i facili sentimentalismi e soluzioni troppo accattivanti. Si è attualizzato il punto di partenza tradizionale, col quale è impossibile fare confronti diretti. Quindi, come già detto, se preso isolatamente e solo come interpretazione del grande classico, il film di Snyder resta davvero un buon prodotto, intrattenimento non banale e con spunti realmente interessanti.  Affiancarlo per paragoni ad una “madre” tanto ingombrante, significherebbe non solo stroncarlo sul nascere ma anche snaturarlo delle proprie idee. Da vedere a mente sgombra dunque, e possibilmente lontano da “pasti Romeriani”.

Chiara Pani
(araknex@email.it) 

L' Alba Dei Morti Viventi
Titolo Originale: Dawn Of The Dead
Usa/Canada/Giappone/Francia -2004
Regia: Zack Snyder

 

lunedì 13 febbraio 2012

La mia recensione di "Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne" (2011) di David Fincher per Horror.it

pubblicata su Horror.it:





 

Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne (2011)

“Se una donna si accosta a una bestia per accoppiarsi con essa, ucciderai la donna e la bestia e il loro sangue ricadrà su di loro”
                                                                       (Levitico , 20:16)

In questo ed altri versetti del Levitico, non a caso il più fondamentalista fra i libri della Bibbia , è contenuta la chiave di volta per la risoluzione del caso sul quale indagano i due protagonisti di Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne  (“The Girl With The Dragon Tattoo”), l’ ultima e complessa opera di David Fincher. Etichettato in modo sbrigativo come remake dell’ omonima pellicola del 2009, firmata dal danese Niels Arden Oplev e, com’è ormai arcinoto, basata sul primo dei tre romanzi dello scrittore svedese Stieg Larsson, il film di Fincher è assai più di un semplice rifacimento. Innanzitutto, per la stratificazione del narrato: si mette in scena ciò che il cinema ha già mostrato e che, a sua volta, era trasposizione della parola scritta. Fincher, seguendo come sempre la sua visione, si appropria del testo di Larsson, lo reinterpreta, senza snaturarlo, mantenendone inalterati gli equilibri ma, al tempo stesso, offrendone un’ interpretazione completamente altra, inedita, diversa. Una sceneggiatura solida e dal meccanismo perfetto, firmata da Steven Zaillian (“Gangs Of New York”, “Schindler’ s List”) è fondamento indispensabile al lavoro del regista, accompagnandolo ad arte e regalando un risultato al di sopra di ogni aspettativa. E dire che è stato un film su commissione, a detta dello stesso Fincher, dunque non fortemente voluto; ma anche in questo tipo di operazione, il regista non riesce a non essere se stesso, a non infondere gocce della propria poetica tra le righe di un pensiero altrui.

“The Girl With The Dragon Tattoo”, a differenza della maggioranza delle rivisitazioni yankee di film stranieri, è girato nelle locations originali, nell’ algida Svezia, tra Stoccolma ed Hedestad, il luogo immaginario creato da Larsson dove sorge l’ isola di proprietà dei Vanger: dunque, non vi è stato lo sradicamento dalle origini culturali del testo, e ciò ha contribuito non poco al valore del film.
Il cinema di Fincher è da sempre fatto di dettagli, del  piccolo che diventa fondamentale, dei tanti tasselli sparsi che si uniscono a formare un’ incastro inevitabilmente perfetto.  Di tutto questo si compone l’ indagine condotta da Mikael Blomkvist (un efficace Daniel Craig), giornalista della rivista indipendente Millennium, caduto in disgrazia dopo aver tentato di smascherare gli affari sporchi di un miliardario: viene incaricato dal ricchissimo ed anziano industriale Henrik Vanger (Christopher Plummer) di indagare sulla scomparsa della nipote Harriett, avvenuta molti anni prima; l’ uomo è certo che il responsabile della probabile morte della ragazza, sia proprio un Vanger: “ si troverà ad indagare su ladri, avari, prepotenti, la più detestabile collezione di individui che lei abbia mai conosciuto: la mia famiglia”.

Non ha tutti i torti, Henrik Vanger: due nazisti in famiglia non sono esattamente motivo di vanto. Proprio su questo tasto, la sceneggiatura di Zaillian, memore di “Schindler’s List”, spinge particolarmente, mostrando così il marcio dei potenti dietro la patina di perbenismo, un feroce ritratto famigliare nel quale emergono scheletri tenuti nascosti troppo a lungo. Ma non è solo il fine che conta in questo film, è soprattutto il mezzo: è il modo in cui l’ indagine sviene svolta, e qui si torna all’ importanza del particolare, del mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle apparentemente irrisolvibile. La ricerca di Mikael è ossessivamente meticolosa, ricostruisce il giorno della scomparsa di Harriett mediante delle immagini, un susseguirsi di fotografie gelidamente immobili, ma che sono le sole ad essere in grado di dirgli qualcosa (“dove sei finita, Harriett?”, chiede Mikael guardandola stampata su carta).

Ed ecco che subentra lei. Lisbeth Salander. Personaggio già noto al pubblico sia per la trilogia letteraria, sia per il film precedente , grazie all’ ottima interpretazione di Noomi Rapace, a detta di molti ineguagliabile; invece, la scelta di Rooney Mara, già vista in “The Social Network”, si è rivelata assai più che vincente: lei è Lisbeth, in tutto e per tutto. Il personaggio Fincheriano è fisicamente più infantile e fragile, in apparenza indifeso, diafano e dal volto quasi alieno. Recita con gli occhi, con i gesti, resta stampata nella memoria fin dalla sua prima apparizione: convocata per incontrare Frode (Steven Berkoff), l’ avvocato di Vanger, al fine di affidarle il compito di indagare su Blomkvist a titolo cautelativo, prima di investirlo dell’ incarico riguardante Harriett (dunque le ricerche si fanno molteplici, si avvolgono l’ una attorno all’ altra), si siede di profilo, quasi senza guardarli, le sue risposte sono brusche, brevi, sfuggenti. Lisbeth indaga sulle persone senza avere contatti con a loro, a distanza, intrufolandosi nei loro computer, spiandole; è il suo modo di conoscere gli altri, senza che loro debbano vederla. Non permette a nessuno di avvicinarsi troppo a lei: il suo abbigliamento, i tatuaggi, i piercing, fanno parte della sua corazza.
Lisbeth viene ferita, anche davanti a noi, la scena dello stupro da parte del suo nuovo tutore non si dimentica facilmente. Ma la sua vendetta è catarsi pura , una sequenza di malata bellezza, nella quale da vittima diventa carnefice per riprendersi semplicemente ciò che le spetta, poiché quell’ uomo aveva congelato i suoi guadagni, costringendola a rivolgersi a lui per ogni esigenza economica, in cambio di favori sessuali. Il favore diventa aggressione e la risposta di Lisbeth è un occhio per occhio che consacra, definitivamente, la nostra completa empatia verso di lei.
Fincher è comunque attento a fare in modo che il personaggio non fagociti completamente il film: infatti, l’attenzione si focalizza sul rapporto con Mikael, e sul suo graduale scongelarsi di fronte a quest’ uomo. Al loro primo incontro, la Salander è come sempre sulla difensiva, ha con sé l’ inseparabile taser, l’ immobilizzatore: “se mi tocchi, ti ritrovi più che allarmato”; nel condurre le indagini fianco a fianco la ragazza accorcia le distanze, dapprima sessualmente, poi a livello umano, fino ad accennare a Blomkvist del proprio passato, di cui non è difficile intuire la tragicità.
Le ricerche si snodano attraverso quel covo di serpenti qual è la famiglia Vanger, passando per la folle solitudine di un criminale nazista passando per Martin (Stellan Skarsgård), erede dell’ impero industriale e fratello di Harriett.

Il finale, è la vera sorpresa: slegato sia dal libro che dal film precedente, è puro cinema di emozioni senza essere patetico o dai facili sentimentalismi. Una chiusa perfetta, sulle note della cover di “Is Your Love Strong Enough?” di Bryan Ferry riveduta dai How To Destroy Angels, progetto di Trent Reznor e Atticus Ross, autori dell’ intera colonna sonora del film; si inizia col lungo urlo digitalizzato dei titoli di testa e si conclude nel silenzio e in un interminabile sguardo ad occhi sgranati.

Eccellente il cast, la già citata Rooney Mara su tutti, il buon Daniel Craig a tenerle testa, i magnifici Christopher Plummer e Steven Berkoff, Robin Wright, nel ruolo un po’ sommesso di Erika Berger, socia di Blomkvist nella rivista Millennium e sua amante, ed il superbo Stellan Skarsgård.

I luoghi, gli spazi, sono anch’ essi protagonisti del film: l’ isola, la casa di Martin, interamente fatta di vetrate, dunque (in apparenza) del tutto visibile allo sguardo, la dimora di Henrik Vanger, triste dimensione di una solitaria memoria ed il cottage dove vive Mikael, in seguito raggiunto da Lisbeth: le pareti tappezzate da fotografie, appunti, vero spazio-testimonianza di ciò che sta venendo a galla.

Il montaggio è affidato ancora una volta ad Angus Wall (insieme a Kirk Baxter), già premio Oscar per “The Social Network”, e la fotografia è opera di Jeff Cronenweth, alla sua terza collaborazione con Fincher (“Fight Club”, “The Social Network”), capace di dare all’ immagine una qualità empatica, in linea con i differenti toni emotivi della pellicola.
Ottimo lo score, del già citato duo Reznor/Ross, ma su questo punto il film precedente era nettamente superiore, con le superbe partiture orchestrali scritte da Jacob Groth.
Un’ opera importante questo “Girl With The Dragon Tattoo”, da vedere a mente libera, cercando di mettere da parte sia il libro che l’ altro film, per considerarla ciò che è in realtà, un’ opera a sé stante: rilettura di qualcosa di già scritto ma filtrata attraverso l’ occhio di un talento non comune.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne
Titolo Originale: The Girl With The Dragon Tattoo
Usa/Svezia/Uk/Germania - 2011
Regia: David Fincher