Blog di critica cinematografica, partendo dall'horror per andare oltre, molto oltre

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mercoledì 26 giugno 2013
Killer In Viaggio
Killer In Viaggio per Orizzonti di Gloria:
http://www.orizzontidigloria.com/12/post/2013/06/killer-in-viaggio-turisti-senza-ritorno.html
Little Deaths
Little Deaths, per Orizzonti di Gloria:
http://www.orizzontidigloria.com/15/post/2013/05/begotten-recensione-la-creazione-oscura.html
http://www.orizzontidigloria.com/15/post/2013/05/begotten-recensione-la-creazione-oscura.html
lunedì 11 febbraio 2013
Il mio articolo su "Hellraiser" (1987), di Clive Barker, per Horror.it
pubblicato su Horror.it:
http://www.horror.it/a/2013/02/hellraiser-1987/
Hellraiser
(1987)
“No, niente lacrime! Non si deve
sprecare così la sofferenza”
(Pinhead)
Hellraiser,
primo lungometraggio diretto dallo scrittore Clive Barker dopo i corti Salome
(1973) e The Forbidden (1978), tratto dal suo racconto The Hellbound Heart (Schiavi
dell’Inferno, 1986), rappresenta un elemento atipico nel panorama horror anni
’80: se il personaggio di Pinhead è ormai annoverato tra i “nuovi mostri” del
cinema di genere, in special modo in Gran Bretagna (paese d’origine di Barker e
patria del film) e negli Stati Uniti, comparendo su magliette e gadgets di ogni
tipo, vero è, d’altro canto, che la reale potenza e complessità di questa
pellicola, per molti versi superiore allo scritto, non è mai stata compresa
appieno dal grande pubblico, in special modo nel nostro Paese.
Troppo
adulto per un’audience teenageriale, che è quella a cui, erroneamente, la
distribuzione mira quando si parla di genere orrorifico, Hellraiser è stato
apprezzato per il suo lato gore e splatter, peraltro non eccessivo, ma è
rimasto nel limbo dei film non completamente metabolizzati, poiché la sua
stratificazione di significati e riferimenti andava ben oltre il semplice
effetto visivo ed è stata accolta soltanto da una nicchia di pubblico, che già
conosceva le opere e le tematiche dell’autore o che era comunque più aperta ad
una tipologia filmica completamente diversa dai vecchi schemi.
Clive
Barker (nato a Liverpool nel 1952, dunque trentaquattrenne all’epoca della
pubblicazione della novella che darà vita a Hellraiser) esordisce come
scrittore nel 1984 col primo dei celeberrimi Libri di Sangue, antologie di
racconti agghiaccianti, che hanno il dono di restare ancorati all’inconscio del
lettore, caratteristica che diventerà palese nel successivo romanzo, The
Damnation Game (Gioco Dannato, 1984), personalissima rilettura del mito di
Faust. Fin da queste prime opere la cifra stilistica che ora definiamo Barkeriana
è già intuibile, gettando dunque le solidissime basi di quella che diverrà la
sua poetica nella letteratura horror (da non dimenticare, infatti, le
incursioni dell’autore in altri generi, il fantasy in primis).
Schiavi
dell’Inferno è una narrazione breve (164 pagine) e asciutta che tuttavia
sortisce l’effetto di essere efficacemente descrittiva, delineando alla
perfezione personaggi e contesti; Barker la rielabora in forma di sceneggiatura
per la preparazione delle riprese del film, apportando cambiamenti sia per
volere della produzione (ad esempio, nella parte finale: nello scritto, i
Cenobiti si comportano in modo equo, mantenendo la promessa e lasciando andare
Kirsty, mentre nel film continuano a volerla portare con loro), sia per
renderla più funzionale alla forma filmica. Nella pellicola vediamo dei
caratteri maggiormente a tutto tondo, privi delle sfumature presenti nel
racconto, eccezion fatta per Julia (Clare Higgins), che, contrariamente alla
donna bella e vagamente bamboleggiante
di Prigionieri Dell’Inferno, dà al ruolo una qualità austera, crudele, una vera
femme fatale schiava di una passione
che la renderà mostruosa. La stessa Kirsty (Ashley Laurence) in Hellraiser
riveste le tipiche caratteristiche dell’eroina positiva, in contrapposizione a
Julia, venendo dunque privata delle ambiguità che la contraddistinguevano nello
scritto Barkeriano.
Hellraiser
è, come già detto in precedenza, opera complessa e non così immediata come
potrebbe apparire. I Cenobiti (dal latino cenòbium, vita in
comune) sono,
nella realtà, monaci cristiani ortodossi le cui prime comunità risalgono al IV
secolo, che vivono secondo una rigida disciplina; per Barker non fu dunque
necessario spiegare, almeno in questo primo film, le origini di queste
creature, poiché il loro nome disvela già molto: non è azzardata l’ipotesi che
l’autore abbia voluto donare ai suoi personaggi una caratteristica sacrale,
considerandoli un vero e proprio ordine religioso, in questo caso di natura
infera, nel quale l’esplorazione delle sensazioni più estreme viene compiuta al
fine di raggiungere uno stato di estasi suprema, che il Cristianesimo
definirebbe beatitudine. Lo stesso
personaggio di Pinhead (il memorabile Doug Bradley) , sia nel libro che nel
film non è indicato con questo nome: nel racconto, non è nominato, e non è
figura di spicco rispetto agli altri Cenobiti, mentre nei titoli di coda di
Hellraiser compare come lead cenobite. La denominazione di Pinhead nacque da
un soprannome, che fu poi utilizzato nei sequel; Barker lo definì “indegno” e
per i fumetti tratti dalle pellicole, pubblicati negli Stati Uniti dalla BOOM!
nel 2011, utilizzò l’appellativo che aveva scelto nella prima fase di
sceneggiatura: “Priest”, Prete, a sottolineare ulteriormente il carattere ieratico
del personaggio.
L’entrata
in scena dei Cenobiti, che ha luogo solo nell’ultima mezz’ora di narrato
(nonostante compaiano, brevemente, già nell’incipit), è infatti
meravigliosamente solenne, sottolineata da cupissimi rintocchi di campane, e
appare realmente come qualcosa di sacro e temibile. Qui si ritrova,
probabilmente, la differenza più notevole tra libro e opera visiva, ciò che
rende la seconda superiore al primo: nel film, li vediamo, in tutta la loro terrificante bellezza. Le poche parole
pronunciate da Pinhead sono sufficienti a svelarci la loro natura ambivalente (“demoni per alcuni, angeli per altri”), a raccontarci il loro Mondo, nel quale
Piacere e Dolore si fondono fino a diventare una cosa sola.
La
sofferenza come estasi suprema è tematica centrale, palese richiamo al
sadomasochismo: non a caso, dopo il rifiuto da parte della produzione
dell’utilizzo del medesimo titolo del libro, The Hellbound Heart, poiché giudicato un po’ troppo romantico, Barker propose la dicitura, decisamente più
forte, di “Sadomasochists from Beyond the Grave” (“I Sadomasochisti
dall’Oltretomba”), rifiutata anch’essa per il contenuto sessuale eccessivamente
esplicito. Dagli abiti in pelle e pvc dei Supplizianti/Cenobiti fino alle
torture con ganci e catene, ogni cosa ha un sapore di sesso e dolore, piacere e
patimento, tipica delle pratiche bdsm. Il rapporto tra Julia e Frank (Sean
Chapman, viscidamente fascinoso) è proprio di tale natura, che vede lui in
quanto elemento dominante e la donna dipendente in tutto e per tutto dalla sua
volontà; è relazione ambigua, basata sull’attrazione sessuale e nata proprio
alla vigilia delle nozze fra lei e Larry (Andrew Robinson), padre di Kirsty e
vedovo della prima moglie; è una passione feroce e divorante per Julia, che non
vede Frank da anni ma non ha mai smesso di pensarlo.
Un passo
indietro, a questo punto, è d’obbligo per arrivare alle origini di ciò che
rappresenta il cuore di Hellraiser: la scatola di Lemarchand o Configurazione
del Lamento, oggetto-puzzle tramite il quale, una volta trovata l’esatta
combinazione, si spalancano le porte della dimensione parallela (definita
Inferno nel primo film, Labirinto nel secondo) abitata dai Cenobiti. La
riuscita nella risoluzione dell’enigma è legata all’intensità del desiderio di
venirne a capo, particolare che nella trasposizione filmica viene tradito
poiché anche Kirsty, quasi casualmente, la schiude.
Hellraiser
inizia in un luogo non precisato del Nord Africa, in cui vediamo Frank
acquistare l’oggetto da un mercante asiatico; nell’inquadratura successiva, è
nel solaio di una casa disabitata (che si rivelerà poi essere la dimora di
Larry e Julia): nel momento in cui la puzzle box si muove, dei ganci affondano
nella sua carne. Frank, dunque, resta sempre in quel luogo, seppur in una
realtà altra: farà ritorno, completamente divorato dalle torture dei
Supplizianti, grazie a qualche goccia di sangue di Larry, feritosi
accidentalmente. Per tornare in forze necessita di altro plasma, e Julia inizia
ad uccidere: dalla passione si passa quindi ad una forma di Amore deviato da
parte della donna, nel quale lei è soltanto un tramite, usato da Frank per
ottenere uno scopo ben preciso.
Ciò che il
film non svela, a differenza del libro, è la motivazione che spinge Frank ad
impossessarsi della Configurazione del Lamento: l’uomo ha sperimentato ogni lussuria terrena al punto di esserne saturo, e non può resistere a ciò che la
scatola promette, ossia piaceri inimmaginabili. E’ questo dunque, che lo muove
verso la dimensione Cenobita, che lo trascina al cospetto dell’idea di massimo
godimento come tutt’uno con la più atroce delle sofferenze fisiche; essi stessi
sono a loro volta perennemente suppliziati: i loro volti e corpi sfigurati
(Chatterer, Butterball), oppure flagellati da spilli o altri strumenti di deliziosa tortura (Pinhead, la Cenobita Femminile).
Il concetto
di sadomasochismo non è per tutti i palati, soprattutto se inserito nel
contesto di un horror che la produzione e la distribuzione avrebbero voluto
indirizzare ad un pubblico giovane: Hellraiser è, per contro, un film
profondamente adulto, non a caso scritto da una persona che aveva superato i
trent’anni, e che da lì a poco, all’inizio degli anni ’90, avrebbe dichiarato
pubblicamente la propria omosessualità, in un’epoca in cui l’ ”outing” non era
ancora una moda bensì un atto coraggioso in una società moralista e bigotta. I
preconcetti superficiali e pruriginosi si sono sprecati, ad esempio nell’affiancare
la sua “diversità” (?) sessuale con la filosofia sadomaso presente nel film. Il
significato , con tutta probabilità e come già accennato, è di natura più
complessa e vicino a terreni teologico-religiosi:il concetto di sofferenza come
strada verso l’estasi mistica è infatti presente non solo in culti (primitivi e
non) di ogni parte del mondo, ma è palese nel Cristianesimo stesso, nelle
figure dei martiri, e nelle auto-flagellazioni ancora oggi praticate da alcuni
fedeli in cruente cerimonie di devozione estrema.
Il tema
della diversità, che sarà preponderante in Cabal (Nightbreed) (1990) è comunque presente, non soltanto
nelle figure dei Supplizianti, sommi sacerdoti del Dolore, dunque eletti,
differenti poiché superiori, ma è evidente in Frank, individuo corrotto e
lascivo, nauseato da ciò che la vita gli offre, desideroso di superare gli
stretti confini di ciò che gli sta attorno. E’ ingordigia edonistica ciò che lo
spinge a risolvere l’enigma della Configurazione del Lamento, brama che vedrà
una punizione nelle torture che dovrà subire: c’è dunque qualcosa di un novello
Prometeo in Frank, uomo che ha voluto spingersi troppo oltre per poi ritrovarsi
a patire i supplizi inferti dai Cenobiti, qui strani e sinistri Dei.
La
pellicola è stata realizzata con un budget relativamente ridotto (un milione di
dollari), fattore che non ha influito sulla qualità degli effetti speciali (ad
opera di Cliff Wallace e, non accreditati, Dave Chagouri e lo stesso Barker in
veste di animatori) se non nelle scene finali, nel punto della lavorazione in
cui i fondi erano esauriti e il regista e Chagouri hanno dovuto improvvisarsi
nell’animazione, nel giro di un weekend e con abbondante alcool in circolo.
La regia è abile, tenendo conto che
Hellraiser è stato girato quasi interamente all’interno della casa, il che ha
spinto Barker a dover essere creativo con le scarse risorse a sua disposizione:
spesso c’era spazio per una sola macchina da presa, e questo spiega perché
molte inquadrature siano riprese da un’unica angolazione; inoltre, il movimento
in verticale era sovente l’unico possibile, ecco dunque le zoomate ed il punto
di vista dall’alto rispetto ai personaggi.
Com’è noto,
lo score del film fu originariamente composto dalla band industrial dei Coil, e
Barker era entusiasta del risultato. La produzione purtroppo lo rifiutò,
optando per una musica più tradizionale composta da Christopher Young. Il
lavoro dei Coil fu pubblicato come The Unreleased Themes For Hellraiser e a
tutt’oggi è una rarità; le tracce create dalla band sono incredibilmente
suggestive, rarefatte, dal sapore esoterico, in poche parole perfette per
l’opera. Ascoltandole, chiudendo gli occhi, non si può far altro che immaginare
il lento incedere dei Cenobiti ed essere percorsi da un brivido. Tuttavia, lo
score di Young, per quanto non all’altezza dei magnifici suoni dei Coil, riesce
ad essere efficace: orchestrale, parte in sordina per poi esplodere in un
magniloquente e sinistro crescendo, donando alle apparizioni delle creature una
qualità magica ulteriormente accentuata.
Un aneddoto
curioso riguarda la frase finale del film, pronunciata da un Frank (che
“indossa” la pelle di Larry) dilaniato dai Supplizianti, mentre si lecca le
labbra lascivo, davanti agli occhi di Kirsty: l’attore Andrew Robinson (Larry),
convinse Barker a cambiarla rispetto
alla sceneggiatura, che prevedeva un secco “Fuck
You”, sostituendola con il più evocativo “Jesus wept” (“Gesù versò
delle lacrime”). Nel doppiaggio italiano l’affermazione viene completamente
stravolta, tramutandosi in “Sei riuscita
a liberarti di me” : non è difficile immaginare i motivi dietro a
quest’ennesimo obbrobrio dell’italico doppiare, sicuramente il nome di Gesù non
era gradito in quel contesto, ed è inutile dire che risulta invece assolutamente
coerente con uno dei sottotesti principali del narrato.
Hellraiser
è, al pari della scatola di Lemarchand, oggetto che si schiude solo a chi vuole
comprenderlo davvero, film enigmatico ed incompreso così come lo sarà Cabal:
d’altronde, anche il mondo di squisiti piaceri e tormenti mostrato dai Cenobiti
è privilegio di pochi, dunque ad essi ci abbandoniamo, paralizzati in una
smorfia di sofferente godimento.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Hellraiser
Uk - 1987
Regia: Clive Barker
Etichette:
cinema inglese,
Clive Barker,
cult movies,
Hellraiser,
Horror.it
mercoledì 12 dicembre 2012
La mia recensione di "The Angels' Share" (La Parte degli Angeli) (2012), di Ken Loach, per Positifcinema
pubblicata su Positifcinema:
http://www.positifcinema.it/la-parte-degli-angeli-the-angels-share-di-ken-loach
The Angels’
Share (La Parte degli Angeli) (2012)
Anche gli
angeli bevono whisky
The
Angels’ Share, per gli scozzesi, è la quantità annua (il 2%) di alcool che
evapora nell’aria all’apertura delle botti di whisky, andando quindi perduta, e
diventando poeticamente “la razione degli angeli” (ancora una volta, la
titolazione italiana ha fallito l’obbiettivo di risultare efficace). Una
neonata passione per la degustazione del liquore biondo e la scoperta di
possedere un olfatto non comune sono le armi del riscatto sociale di Robbie
(ottima prova di Paul Brannigan, che gli è valsa una nomination ai Bafta
Awards), tematica che è leit-motif di molto cinema britannico degli ultimi anni
(dallo strip tease di Full Monty alla danza classica di Billy Elliott): il
coltivare un proprio talento, reinventarsi per cambiare vita ed uscire da
situazioni opprimenti. Una classica trama favolistica, dunque, che è ormai
diventata cliché troppo abusato, anche nelle mani esperte di Ken Loach.
E’
un retrogusto non piacevole, per rimanere in metafora alcoolica, quello che
resta in bocca alla fine della visione di questa pellicola già presentata a
Cannes, e depennata all’ultimo minuto dal Torino Film Festival a causa del (più
che condivisibile e assolutamente coerente) rifiuto del Premio alla Carriera da
parte del regista, per solidarietà con i lavoratori del Museo del Cinema: ci si
trova di fronte ad una commedia a sfondo sociale, ben realizzata e recitata,
fatta “per divertire e far pensare”, ma da Loach è lecito aspettarsi molto di
più, se si ripensa a titoli come Ladybird, Ladybird, che erano veri e propri
pugni nei pasciuti stomaci degli spettatori. Già da un po’ di tempo a questa
parte il grande regista britannico aveva smesso di azzannare come in passato,
realizzando alcune opere appannate e deludenti; ma come sempre avviene durante
il declino dei Maestri, non ci si rassegna, e si attende l’opera che dia di
nuovo l’impennata, che torni a colpire nel profondo e a far esclamare “ecco, è
tornato”.
The Angels’ Share, co-produzione in cui figura anche il nostro Paese,
non riesce ad affondare il colpo, restando ad un livello superficiale, con qualche
ottimo e graffiante momento, ma nulla di più.
Si
narra la storia di Robbie, giovane che porta sulle spalle una vita fatta di
precedenti penali dalla quale cerca una via di fuga, ora che ha una compagna,
Leonie (Siobhan Reilly) ed è diventato padre. Il passato lo perseguita, gli
errori che ha commesso sembrano non volerlo abbandonare, e la famiglia della
ragazza lo rifiuta, intimandogli in continuazione (e non con le buone maniere)
di stare lontano sia da lei che dal bambino. Condannato ai lavori socialmente
utili per aver pestato a sangue un ragazzo, viene affidato, insieme ad altri
colpevoli di reati minori, alla supervisione di Harry (un intenso John Henshaw
in un ruolo ricorrente nel cinema di Loach): l’uomo prende a cuore il ragazzo,
e lo inizia alla passione per la degustazione del whisky, che si rivelerà
contagiosa anche per il resto del gruppo. La figura di di Harry è una delle più
riuscite, ma non riesce a slegarsi dall’aria di risaputo che impregna l’intero
film: l’atteggiamento protettivo e bonario verso Robbie, dettato da una
solitudine che non vuole si impossessi anche del giovane, è schema troppo
rigido e scontato e non dona sufficiente profondità alla delineazione del
ruolo.
Alcuni
personaggi sono eccessivamente macchiettistici (Albert, il ragazzo non troppo
sveglio, su tutti), e si pecca di eccessivo buonismo. Le zampate di critica
sociale restano, ma sono ormai troppo stereotipate per convincere e non
lasciano una traccia profonda; si sorride, ma non si può fare a meno di pensare
che ciò che si sta guardando è un’ombra pallida delle grandi opere di Loach. Delude
anche Paul Laverty, suo fedele sceneggiatore, che ha imbastito un narrato
scialbo e privo di mordente, destinato a scorrere via in un batter d’occhio.
Di
buono, rimane l’azzeccatissima sequenza iniziale, che vede Albert ubriaco sulle
rotaie del treno prima dell’arresto, e la trascinante I’m Gonna Be (500 miles)
dei Proclaimers. La regia è come sempre impeccabile e la fotografia nitida e
realistica di Robbie Ryan è un piacere per gli occhi ma sfortunatamente non
sono sufficienti a salvare il tutto.
Un
film, purtroppo, non riuscito, riscattato, nella realtà, dal gesto forte e
significativo che Loach ha compiuto in occasione del Festival torinese: segno
che è ancora capace di graffiare, se solo lo volesse.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
The Angels' Share
Uk/Francia/Belgio/Italia - 2012
Regia: Ken Loach
Data di uscita italiana: Giovedì 13 Dicembre 2012
domenica 2 dicembre 2012
La mia recensione di "Shell" (2012), vincitore del Torino Film Festival, per CineClandestino
Pubblicata nella giornata di ieri su CineClandestino, ecco la recensione di Shell, film che si è rivelato il trionfatore di questa edizione del Torino Film Festival. Vittoria secondo me meritatissima.
pubblicata su CineClandestino:
http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/shell.html
Shell
(2012)
Le
sperdute lande dell’Anima
Shell è il
nome della protagonista di questo piccolo e al tempo stesso immenso film in
concorso alla 30 ° edizione del Torino Film Festival, Shell come conchiglia, scrigno
chiuso che racchiude in sè qualcosa di assai prezioso, per usare le stesse parole
della ragazza, in risposta all’ottusa battuta di un cliente di passaggio che
cita, banalmente, una nota marca di carburante; c’è davvero una perla di grande
valore nascosta nel guscio di quest’opera prima, firmata dal britannico Scott
Graham, che si schiude poco per volta in tutta la sua limpida bellezza. Così
come limpido e ancora infantile è il volto di Chloe Pirrie, interprete
straordinaria che recita con lo sguardo, le espressioni spesso attonite, i
gesti ed i lunghi silenzi intervallati da poche ma essenziali parole.
Graham
realizza un’opera con pochissimi elementi, sia dal punto di vista attoriale che
da quello dell’ambientazione: i protagonisti principali sono soltanto due, la
giovane e suo padre Pete, interpretato da Joseph Mawle (“1921 – Il Mistero di
Rockford”, “La Fredda Luce del Giorno”), anch’egli eccelso nel delineare una
figura paterna giovane ma dal volto già segnato, e vittima di improvvisi
attacchi di epilessia. Shell e Pete gestiscono una stazione di servizio
sperduta nelle highlands scozzesi, in cui le giornate scorrono lente, divise
tra i rari automobilisti di passaggio e l’abitazione del piccolo nucleo
famigliare, spazio cardine della messa in scena, luogo chiuso, claustrofobico,
contrapposto al paesaggio che lo circonda, sconfinato e quasi impressionante
nella sua totale bellezza. Il mondo esterno contro il microcosmo al quale Shell
è ancorata, sia dall’affetto verso che il genitore che dall’obbligo, poiché lo
stato di salute del padre la costringe a
restare lì, senza poter fuggire.
Guardare il
mondo o meglio immaginarlo, ponendo domande incuriosite ai propri sporadici
clienti, chiedendo loro da dove arrivino, dove siano diretti, cercando così di
portare via scampoli di vita al di fuori del suo isolamento. La giovane occulta
la propria fisicità con maglioni larghissimi ed un giaccone che ha sempre
addosso, schermandosi così dietro ulteriori corazze entro le quali si sente al
sicuro.
Il rapporto
col genitore si delinea lentamente, nel corso del narrato, prendendo una forma
ambigua, fino a toccare da vicino il legame incestuoso: i ripetuti “I love you”
che Shell dice a Pete restano nell’ambivalenza del significato, che in inglese
corrisponde sia al voler bene che all’amore, ed è attraverso le immagini e le
situazioni che la frase assume sfumature diverse, fino a risultare tagliente
nella sequenza dell’amorevole e morboso abbraccio con cui la figlia stringe il
padre, dopo essersi rifugiata nel letto di lui per ripararsi dal freddo, nel
desiderio di una vicinanza fisica che l’uomo tenta, seppur con fatica, di respingere.
Graham
riesce a trattare un argomento delicato con una sensibilità eccezionale,
lasciando scorrere sotto la pelle del racconto questo tumulto di sentimenti e
sensazioni, rappresentati mediante dialoghi ridotti all’osso, sguardi colmi di
significati, piccoli ma importantissimi gesti che valgono più di tanti inutili
discorsi.
Il
silenzio, infatti, domina una narrazione in cui lo score è totalmente assente,
sostituito dal suono del vento, sottofondo ideale che simboleggia l’onnipresenza
della Natura desolata e selvaggia in cui si colloca la trama del racconto;
unica eccezione musicale è la splendida The Walk Of Life dei Dire Straits,
sulle cui note Shell si scatena in una danza solitaria, catartica, liberatoria
di un’energia vitale tenuta, volutamente, sottochiave per il resto della
pellicola.
La
solitudine dei due protagonisti, motore primario del loro legame simbiotico
insieme alla malattia dell’uomo, è isolamento al tempo stesso volontario e
riluttante, accettato con una rassegnazione nelle cui pieghe l’impulso di
fuggire scalcia silenziosamente.
I pochi
clienti della stazione di servizio sono galleria umana con cui la ragazza si
confronta, in modo spesso conflittuale: il giovane Adam (Iain De Caestecker),
operaio in una segheria della zona, rappresenta un possibile corridoio di fuga
verso il mondo esterno, nel suo interesse verso Shell, nel chiederle più volte
di trascorrere una serata al pub, inviti a cui la ragazza risponde con un “I
don’t know”, parole che sono eco non soltanto di una perpetua incertezza
nell’accettare un rapporto umano altro da quello che la lega al padre, in un
timore di “tradire” il genitore, ma che rappresentano il sostanziale conflitto
tra il desiderio di fuga e la paura di assecondare questo impulso, dettata
anche dalla necessità di dover restare per non abbandonare colui che non può
restare solo.
Altro
personaggio che ruota attorno a questo piccolo mondo è Hugh (un’ottimo Michael
Smiley, il Gal di “Kill List”), uomo rattristato dal non riuscire mai a
trascorrere del tempo con i propri bambini, che vede in Shell una sorta di
ancora di salvezza in una vita mesta, ma dalla quale è anche colpevolmente
attratto.
Scott
Graham ed i suoi straordinari interpreti ci donano dunque un kammerspiel circondato da terre
sconfinate che rappresentano, per la protagonista, il mondo esterno, l’ignoto,
affascinante e spaventoso al tempo stesso, con riprese paesaggistiche che
tolgono letteralmente il fiato per la loro assoluta ed imponente bellezza.
Un film che
si disserra come un dono prezioso, in uno svolgersi lento, con una calma
apparente che cela i tumulti di un’anima che si offre poco per volta, mettendo
a nudo le proprie paure, conflitti e sentimenti che non si possono confessare,
in 90 minuti di incanto filmico che permangono, avvolgendo come un guscio il
cuore dello spettatore.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Shell
Uk - 2012
Regia: Scott Graham
Etichette:
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Shell,
Torino Film Festival XXX edizione
giovedì 29 novembre 2012
La mia recensione di "The Liability" (2012) di Craig Viveiros per Point Blank - Torino Film Festival XXX edizione
Con molto ritardo rispetto al suo inizio, che ha avuto luogo ad Halloween con la mia recensione di [REC]³ Génesis, colgo l'occasione per annunciare, con orgoglio, la mia nuova collaborazione con Point Blank
Per Point Blank dico la mia su The Liability, debole pellicola di Craig Viveiros, in concorso al TFF XXX edizione.
http://www.pointblank.it/?p=27246
The Liability (2012)
The
Liability, pellicola targata Uk e firmata da Craig Viveiros,
già presente al Torino Film Festival lo scorso anno col deludente Ghosted, è il terzo lungometraggio del
regista britannico. Film che, sulla carta, pareva promettere bene: in primis,
per la presenza nel cast di due giganti come Peter Mullan e Tim Roth, e per un
canovaccio narrativo apparentemente intrigante.
Il diciannovenne Adam
(un convincente Jack O’Connell), ha una madre bella e procace e un ricco
patrigno, Peter (Peter Mullan) invischiato (a dir poco) con la malavita. Dopo
aver distrutto l’auto dell’uomo, si vede assegnare come punizione l’incarico di
autista per conto di Roy (Tim Roth), un killer in procinto di uscire dal giro.
Non tutto fila liscio come dovrebbe per il maldestro Adam, che non ha la stoffa
del malavitoso, e l’incontro con una ragazza che ha dei conti in sospeso con i
loschi traffici di Peter (una Talulah Riley troppo bamboleggiante per risultare
credibile) complicherà ulteriormente la situazione.
L' opera si rivela
deludente su più fronti: Mullan (la cui presenza sullo schermo è dosata col
contagocce) e Roth recitano senza troppa convinzione, interpretando uno
stereotipo di loro stessi, per quanto il personaggio di Mullan, nel finale,
riesca a regalare uno dei momenti migliori del film, e la presenza di Roth sia
sempre un cinefilo piacere. Due giganti usati come specchietto per le allodole,
che non bastano a salvare un prodotto sostanzialmente inconsistente e
senz’anima, l’ennesima pellicola di cui si poteva tranquillamente fare a meno.
Viveiros è ambizioso
nel tentativo di mescolare generi diversi (gangster movie, dramma e commedia), ma
il risultato è soltanto un’incertezza di registri scarsamente convincenti. Il
lato comedy si regge su gag risapute e situazioni trite, i momenti drammatici
scadono in un buonismo nauseante ed il coté noir, l’unico su cui sarebbe stato
lecito puntare qualcosa, non è altro che l’ennesima, scialba fotocopia degli
innumerevoli gangster movie britannici alla moda passati sugli schermi
nell’ultimo decennio. Si assiste così a una fiera del già visto, un insieme fragile
e fatuo, che parte da uno spunto potenzialmente efficace, sprecato
nell’imboccare la strada più facile e superficiale.
L’incipit è buono, con
una scena di omicidio sulle note di Una Rotonda Sul Mare di Fred Bongusto,
indubbiamente derivativo ma convincente; la premessa/promessa viene ben presto
smentita da una sfilata di luoghi comuni e situazioni improbabili, in un film
privo di nerbo e di una cifra stilistica caratterizzante.
The
Liability è
risultato, tuttavia, assai gradito a una fetta di pubblico del Torino Film
Festival, in una prima proiezione astutamente collocata di sabato sera: ciò è
sintomatico della natura esclusivamente commerciale della pellicola, adatta ad
una distribuzione in sala ad uso e consumo di palati non troppo fini, ma che risulta fuori luogo in un Festival le cui
selezioni non necessitano di strizzare l’occhio al botteghino.
L’opera di Viveiros,
dunque, si preannuncia come un potenziale successo al box office, ma non
possiede la robustezza necessaria per poter essere considerata pregevole: un
film vuoto, che non lascia assolutamente nulla e che si dimentica con la
facilità propria dei tipici prodotti mordi e fuggi.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
The Liability
Uk - 2012
Regia: Craig Viveiros
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