Visualizzazione post con etichetta cinema inglese. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cinema inglese. Mostra tutti i post

lunedì 11 febbraio 2013

Il mio articolo su "Hellraiser" (1987), di Clive Barker, per Horror.it


pubblicato su Horror.it:

http://www.horror.it/a/2013/02/hellraiser-1987/







Hellraiser (1987)


“No, niente lacrime! Non si deve sprecare così la sofferenza”
(Pinhead)



Hellraiser, primo lungometraggio diretto dallo scrittore Clive Barker dopo i corti Salome (1973) e The Forbidden (1978), tratto dal suo racconto The Hellbound Heart (Schiavi dell’Inferno, 1986), rappresenta un elemento atipico nel panorama horror anni ’80: se il personaggio di Pinhead è ormai annoverato tra i “nuovi mostri” del cinema di genere, in special modo in Gran Bretagna (paese d’origine di Barker e patria del film) e negli Stati Uniti, comparendo su magliette e gadgets di ogni tipo, vero è, d’altro canto, che la reale potenza e complessità di questa pellicola, per molti versi superiore allo scritto, non è mai stata compresa appieno dal grande pubblico, in special modo nel nostro Paese.

Troppo adulto per un’audience teenageriale, che è quella a cui, erroneamente, la distribuzione mira quando si parla di genere orrorifico, Hellraiser è stato apprezzato per il suo lato gore e splatter, peraltro non eccessivo, ma è rimasto nel limbo dei film non completamente metabolizzati, poiché la sua stratificazione di significati e riferimenti andava ben oltre il semplice effetto visivo ed è stata accolta soltanto da una nicchia di pubblico, che già conosceva le opere e le tematiche dell’autore o che era comunque più aperta ad una tipologia filmica completamente diversa dai vecchi schemi.

Clive Barker (nato a Liverpool nel 1952, dunque trentaquattrenne all’epoca della pubblicazione della novella che darà vita a Hellraiser) esordisce come scrittore nel 1984 col primo dei celeberrimi Libri di Sangue, antologie di racconti agghiaccianti, che hanno il dono di restare ancorati all’inconscio del lettore, caratteristica che diventerà palese nel successivo romanzo, The Damnation Game (Gioco Dannato, 1984), personalissima rilettura del mito di Faust. Fin da queste prime opere la cifra stilistica che ora definiamo Barkeriana è già intuibile, gettando dunque le solidissime basi di quella che diverrà la sua poetica nella letteratura horror (da non dimenticare, infatti, le incursioni dell’autore in altri generi, il fantasy in primis).

Schiavi dell’Inferno è una narrazione breve (164 pagine) e asciutta che tuttavia sortisce l’effetto di essere efficacemente descrittiva, delineando alla perfezione personaggi e contesti; Barker la rielabora in forma di sceneggiatura per la preparazione delle riprese del film, apportando cambiamenti sia per volere della produzione (ad esempio, nella parte finale: nello scritto, i Cenobiti si comportano in modo equo, mantenendo la promessa e lasciando andare Kirsty, mentre nel film continuano a volerla portare con loro), sia per renderla più funzionale alla forma filmica. Nella pellicola vediamo dei caratteri maggiormente a tutto tondo, privi delle sfumature presenti nel racconto, eccezion fatta per Julia (Clare Higgins), che, contrariamente alla donna bella e vagamente  bamboleggiante di Prigionieri Dell’Inferno, dà al ruolo una qualità austera, crudele, una vera femme fatale schiava di una passione che la renderà mostruosa. La stessa Kirsty (Ashley Laurence) in Hellraiser riveste le tipiche caratteristiche dell’eroina positiva, in contrapposizione a Julia, venendo dunque privata delle ambiguità che la contraddistinguevano nello scritto Barkeriano.

Hellraiser è, come già detto in precedenza, opera complessa e non così immediata come potrebbe apparire. I Cenobiti (dal latino cenòbium, vita in comune) sono, nella realtà, monaci cristiani ortodossi le cui prime comunità risalgono al IV secolo, che vivono secondo una rigida disciplina; per Barker non fu dunque necessario spiegare, almeno in questo primo film, le origini di queste creature, poiché il loro nome disvela già molto: non è azzardata l’ipotesi che l’autore abbia voluto donare ai suoi personaggi una caratteristica sacrale, considerandoli un vero e proprio ordine religioso, in questo caso di natura infera, nel quale l’esplorazione delle sensazioni più estreme viene compiuta al fine di raggiungere uno stato di estasi suprema, che il Cristianesimo definirebbe beatitudine.  Lo stesso personaggio di Pinhead (il memorabile Doug Bradley) , sia nel libro che nel film non è indicato con questo nome: nel racconto, non è nominato, e non è figura di spicco rispetto agli altri Cenobiti, mentre nei titoli di coda di Hellraiser compare come lead cenobite. La denominazione di Pinhead nacque da un soprannome, che fu poi utilizzato nei sequel; Barker lo definì “indegno” e per i fumetti tratti dalle pellicole, pubblicati negli Stati Uniti dalla BOOM! nel 2011, utilizzò l’appellativo che aveva scelto nella prima fase di sceneggiatura: “Priest”, Prete, a sottolineare ulteriormente il carattere ieratico del personaggio.

L’entrata in scena dei Cenobiti, che ha luogo solo nell’ultima mezz’ora di narrato (nonostante compaiano, brevemente, già nell’incipit), è infatti meravigliosamente solenne, sottolineata da cupissimi rintocchi di campane, e appare realmente come qualcosa di sacro e temibile. Qui si ritrova, probabilmente, la differenza più notevole tra libro e opera visiva, ciò che rende la seconda superiore al primo: nel film, li vediamo, in tutta la loro terrificante bellezza. Le poche parole pronunciate da Pinhead sono sufficienti a svelarci la loro natura ambivalente (“demoni per alcuni, angeli per altri”), a raccontarci il loro Mondo, nel quale Piacere e Dolore si fondono fino a diventare una cosa sola.

La sofferenza come estasi suprema è tematica centrale, palese richiamo al sadomasochismo: non a caso, dopo il rifiuto da parte della produzione dell’utilizzo del medesimo titolo del libro, The Hellbound Heart, poiché giudicato un po’ troppo romantico, Barker propose la dicitura, decisamente più forte, di “Sadomasochists from Beyond the Grave” (“I Sadomasochisti dall’Oltretomba”), rifiutata anch’essa per il contenuto sessuale eccessivamente esplicito. Dagli abiti in pelle e pvc dei Supplizianti/Cenobiti fino alle torture con ganci e catene, ogni cosa ha un sapore di sesso e dolore, piacere e patimento, tipica delle pratiche bdsm. Il rapporto tra Julia e Frank (Sean Chapman, viscidamente fascinoso) è proprio di tale natura, che vede lui in quanto elemento dominante e la donna dipendente in tutto e per tutto dalla sua volontà; è relazione ambigua, basata sull’attrazione sessuale e nata proprio alla vigilia delle nozze fra lei e Larry (Andrew Robinson), padre di Kirsty e vedovo della prima moglie; è una passione feroce e divorante per Julia, che non vede Frank da anni ma non ha mai smesso di pensarlo.

Un passo indietro, a questo punto, è d’obbligo per arrivare alle origini di ciò che rappresenta il cuore di Hellraiser: la scatola di Lemarchand o Configurazione del Lamento, oggetto-puzzle tramite il quale, una volta trovata l’esatta combinazione, si spalancano le porte della dimensione parallela (definita Inferno nel primo film, Labirinto nel secondo) abitata dai Cenobiti. La riuscita nella risoluzione dell’enigma è legata all’intensità del desiderio di venirne a capo, particolare che nella trasposizione filmica viene tradito poiché anche Kirsty, quasi casualmente, la schiude.

Hellraiser inizia in un luogo non precisato del Nord Africa, in cui vediamo Frank acquistare l’oggetto da un mercante asiatico; nell’inquadratura successiva, è nel solaio di una casa disabitata (che si rivelerà poi essere la dimora di Larry e Julia): nel momento in cui la puzzle box si muove, dei ganci affondano nella sua carne. Frank, dunque, resta sempre in quel luogo, seppur in una realtà altra: farà ritorno, completamente divorato dalle torture dei Supplizianti, grazie a qualche goccia di sangue di Larry, feritosi accidentalmente. Per tornare in forze necessita di altro plasma, e Julia inizia ad uccidere: dalla passione si passa quindi ad una forma di Amore deviato da parte della donna, nel quale lei è soltanto un tramite, usato da Frank per ottenere uno scopo ben preciso.
Ciò che il film non svela, a differenza del libro, è la motivazione che spinge Frank ad impossessarsi della Configurazione del Lamento: l’uomo ha sperimentato ogni lussuria terrena al punto di esserne saturo, e non può resistere a ciò che la scatola promette, ossia piaceri inimmaginabili. E’ questo dunque, che lo muove verso la dimensione Cenobita, che lo trascina al cospetto dell’idea di massimo godimento come tutt’uno con la più atroce delle sofferenze fisiche; essi stessi sono a loro volta perennemente suppliziati: i loro volti e corpi sfigurati (Chatterer, Butterball), oppure flagellati da spilli o altri strumenti di deliziosa tortura (Pinhead, la Cenobita Femminile).

Il concetto di sadomasochismo non è per tutti i palati, soprattutto se inserito nel contesto di un horror che la produzione e la distribuzione avrebbero voluto indirizzare ad un pubblico giovane: Hellraiser è, per contro, un film profondamente adulto, non a caso scritto da una persona che aveva superato i trent’anni, e che da lì a poco, all’inizio degli anni ’90, avrebbe dichiarato pubblicamente la propria omosessualità, in un’epoca in cui l’ ”outing” non era ancora una moda bensì un atto coraggioso in una società moralista e bigotta. I preconcetti superficiali e pruriginosi si sono sprecati, ad esempio nell’affiancare la sua “diversità” (?) sessuale con la filosofia sadomaso presente nel film. Il significato , con tutta probabilità e come già accennato, è di natura più complessa e vicino a terreni teologico-religiosi:il concetto di sofferenza come strada verso l’estasi mistica è infatti presente non solo in culti (primitivi e non) di ogni parte del mondo, ma è palese nel Cristianesimo stesso, nelle figure dei martiri, e nelle auto-flagellazioni ancora oggi praticate da alcuni fedeli in cruente cerimonie di devozione estrema.  

Il tema della diversità, che sarà preponderante in Cabal (Nightbreed)  (1990) è comunque presente, non soltanto nelle figure dei Supplizianti, sommi sacerdoti del Dolore, dunque eletti, differenti poiché superiori, ma è evidente in Frank, individuo corrotto e lascivo, nauseato da ciò che la vita gli offre, desideroso di superare gli stretti confini di ciò che gli sta attorno. E’ ingordigia edonistica ciò che lo spinge a risolvere l’enigma della Configurazione del Lamento, brama che vedrà una punizione nelle torture che dovrà subire: c’è dunque qualcosa di un novello Prometeo in Frank, uomo che ha voluto spingersi troppo oltre per poi ritrovarsi a patire i supplizi inferti dai Cenobiti, qui strani e sinistri Dei.

La pellicola è stata realizzata con un budget relativamente ridotto (un milione di dollari), fattore che non ha influito sulla qualità degli effetti speciali (ad opera di Cliff Wallace e, non accreditati, Dave Chagouri e lo stesso Barker in veste di animatori) se non nelle scene finali, nel punto della lavorazione in cui i fondi erano esauriti e il regista e Chagouri hanno dovuto improvvisarsi nell’animazione, nel giro di un weekend e con abbondante alcool in circolo.
La regia è abile, tenendo conto che Hellraiser è stato girato quasi interamente all’interno della casa, il che ha spinto Barker a dover essere creativo con le scarse risorse a sua disposizione: spesso c’era spazio per una sola macchina da presa, e questo spiega perché molte inquadrature siano riprese da un’unica angolazione; inoltre, il movimento in verticale era sovente l’unico possibile, ecco dunque le zoomate ed il punto di vista dall’alto rispetto ai personaggi.  

Com’è noto, lo score del film fu originariamente composto dalla band industrial dei Coil, e Barker era entusiasta del risultato. La produzione purtroppo lo rifiutò, optando per una musica più tradizionale composta da Christopher Young. Il lavoro dei Coil fu pubblicato come The Unreleased Themes For Hellraiser e a tutt’oggi è una rarità; le tracce create dalla band sono incredibilmente suggestive, rarefatte, dal sapore esoterico, in poche parole perfette per l’opera. Ascoltandole, chiudendo gli occhi, non si può far altro che immaginare il lento incedere dei Cenobiti ed essere percorsi da un brivido. Tuttavia, lo score di Young, per quanto non all’altezza dei magnifici suoni dei Coil, riesce ad essere efficace: orchestrale, parte in sordina per poi esplodere in un magniloquente e sinistro crescendo, donando alle apparizioni delle creature una qualità magica ulteriormente accentuata.     

Un aneddoto curioso riguarda la frase finale del film, pronunciata da un Frank (che “indossa” la pelle di Larry) dilaniato dai Supplizianti, mentre si lecca le labbra lascivo, davanti agli occhi di Kirsty: l’attore Andrew Robinson (Larry), convinse  Barker a cambiarla rispetto alla sceneggiatura, che prevedeva un secco “Fuck You”, sostituendola con il più evocativo “Jesus wept” (“Gesù versò delle lacrime”). Nel doppiaggio italiano l’affermazione viene completamente stravolta, tramutandosi in “Sei riuscita a liberarti di me” : non è difficile immaginare i motivi dietro a quest’ennesimo obbrobrio dell’italico doppiare, sicuramente il nome di Gesù non era gradito in quel contesto, ed è inutile dire che risulta invece assolutamente coerente con uno dei sottotesti principali del narrato.

Hellraiser è, al pari della scatola di Lemarchand, oggetto che si schiude solo a chi vuole comprenderlo davvero, film enigmatico ed incompreso così come lo sarà Cabal: d’altronde, anche il mondo di squisiti piaceri e tormenti mostrato dai Cenobiti è privilegio di pochi, dunque ad essi ci abbandoniamo, paralizzati in una smorfia di sofferente godimento.    

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Hellraiser
Uk - 1987
Regia: Clive Barker


mercoledì 12 dicembre 2012

La mia recensione di "The Angels' Share" (La Parte degli Angeli) (2012), di Ken Loach, per Positifcinema


pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/la-parte-degli-angeli-the-angels-share-di-ken-loach









The Angels’ Share (La Parte degli Angeli) (2012)



Anche gli angeli bevono whisky




The Angels’ Share, per gli scozzesi, è la quantità annua (il 2%) di alcool che evapora nell’aria all’apertura delle botti di whisky, andando quindi perduta, e diventando poeticamente “la razione degli angeli” (ancora una volta, la titolazione italiana ha fallito l’obbiettivo di risultare efficace). Una neonata passione per la degustazione del liquore biondo e la scoperta di possedere un olfatto non comune sono le armi del riscatto sociale di Robbie (ottima prova di Paul Brannigan, che gli è valsa una nomination ai Bafta Awards), tematica che è leit-motif di molto cinema britannico degli ultimi anni (dallo strip tease di Full Monty alla danza classica di Billy Elliott): il coltivare un proprio talento, reinventarsi per cambiare vita ed uscire da situazioni opprimenti. Una classica trama favolistica, dunque, che è ormai diventata cliché troppo abusato, anche nelle mani esperte di Ken Loach.

E’ un retrogusto non piacevole, per rimanere in metafora alcoolica, quello che resta in bocca alla fine della visione di questa pellicola già presentata a Cannes, e depennata all’ultimo minuto dal Torino Film Festival a causa del (più che condivisibile e assolutamente coerente) rifiuto del Premio alla Carriera da parte del regista, per solidarietà con i lavoratori del Museo del Cinema: ci si trova di fronte ad una commedia a sfondo sociale, ben realizzata e recitata, fatta “per divertire e far pensare”, ma da Loach è lecito aspettarsi molto di più, se si ripensa a titoli come Ladybird, Ladybird, che erano veri e propri pugni nei pasciuti stomaci degli spettatori. Già da un po’ di tempo a questa parte il grande regista britannico aveva smesso di azzannare come in passato, realizzando alcune opere appannate e deludenti; ma come sempre avviene durante il declino dei Maestri, non ci si rassegna, e si attende l’opera che dia di nuovo l’impennata, che torni a colpire nel profondo e a far esclamare “ecco, è tornato”

The Angels’ Share, co-produzione in cui figura anche il nostro Paese, non riesce ad affondare il colpo, restando ad un livello superficiale, con qualche ottimo e graffiante momento, ma nulla di più.
Si narra la storia di Robbie, giovane che porta sulle spalle una vita fatta di precedenti penali dalla quale cerca una via di fuga, ora che ha una compagna, Leonie (Siobhan Reilly) ed è diventato padre. Il passato lo perseguita, gli errori che ha commesso sembrano non volerlo abbandonare, e la famiglia della ragazza lo rifiuta, intimandogli in continuazione (e non con le buone maniere) di stare lontano sia da lei che dal bambino. Condannato ai lavori socialmente utili per aver pestato a sangue un ragazzo, viene affidato, insieme ad altri colpevoli di reati minori, alla supervisione di Harry (un intenso John Henshaw in un ruolo ricorrente nel cinema di Loach): l’uomo prende a cuore il ragazzo, e lo inizia alla passione per la degustazione del whisky, che si rivelerà contagiosa anche per il resto del gruppo. La figura di di Harry è una delle più riuscite, ma non riesce a slegarsi dall’aria di risaputo che impregna l’intero film: l’atteggiamento protettivo e bonario verso Robbie, dettato da una solitudine che non vuole si impossessi anche del giovane, è schema troppo rigido e scontato e non dona sufficiente profondità alla delineazione del ruolo. 

Alcuni personaggi sono eccessivamente macchiettistici (Albert, il ragazzo non troppo sveglio, su tutti), e si pecca di eccessivo buonismo. Le zampate di critica sociale restano, ma sono ormai troppo stereotipate per convincere e non lasciano una traccia profonda; si sorride, ma non si può fare a meno di pensare che ciò che si sta guardando è un’ombra pallida delle grandi opere di Loach. Delude anche Paul Laverty, suo fedele sceneggiatore, che ha imbastito un narrato scialbo e privo di mordente, destinato a scorrere via in un batter d’occhio.

Di buono, rimane l’azzeccatissima sequenza iniziale, che vede Albert ubriaco sulle rotaie del treno prima dell’arresto, e la trascinante I’m Gonna Be (500 miles) dei Proclaimers. La regia è come sempre impeccabile e la fotografia nitida e realistica di Robbie Ryan è un piacere per gli occhi ma sfortunatamente non sono sufficienti a salvare il tutto.   
Un film, purtroppo, non riuscito, riscattato, nella realtà, dal gesto forte e significativo che Loach ha compiuto in occasione del Festival torinese: segno che è ancora capace di graffiare, se solo lo volesse.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

The Angels' Share

Uk/Francia/Belgio/Italia - 2012
Regia: Ken Loach
Data di uscita italiana: Giovedì 13 Dicembre 2012

domenica 2 dicembre 2012

La mia recensione di "Shell" (2012), vincitore del Torino Film Festival, per CineClandestino


Pubblicata nella giornata di ieri su CineClandestino, ecco la recensione di Shell, film che si è rivelato il trionfatore di questa edizione del Torino Film Festival. Vittoria secondo me meritatissima.

pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/shell.html





Shell (2012)

Le sperdute lande dell’Anima


Shell è il nome della protagonista di questo piccolo e al tempo stesso immenso film in concorso alla 30 ° edizione del Torino Film Festival, Shell come conchiglia, scrigno chiuso che racchiude in sè qualcosa di assai prezioso, per usare le stesse parole della ragazza, in risposta all’ottusa battuta di un cliente di passaggio che cita, banalmente, una nota marca di carburante; c’è davvero una perla di grande valore nascosta nel guscio di quest’opera prima, firmata dal britannico Scott Graham, che si schiude poco per volta in tutta la sua limpida bellezza. Così come limpido e ancora infantile è il volto di Chloe Pirrie, interprete straordinaria che recita con lo sguardo, le espressioni spesso attonite, i gesti ed i lunghi silenzi intervallati da poche ma essenziali parole.
Graham realizza un’opera con pochissimi elementi, sia dal punto di vista attoriale che da quello dell’ambientazione: i protagonisti principali sono soltanto due, la giovane e suo padre Pete, interpretato da Joseph Mawle (“1921 – Il Mistero di Rockford”, “La Fredda Luce del Giorno”), anch’egli eccelso nel delineare una figura paterna giovane ma dal volto già segnato, e vittima di improvvisi attacchi di epilessia. Shell e Pete gestiscono una stazione di servizio sperduta nelle highlands scozzesi, in cui le giornate scorrono lente, divise tra i rari automobilisti di passaggio e l’abitazione del piccolo nucleo famigliare, spazio cardine della messa in scena, luogo chiuso, claustrofobico, contrapposto al paesaggio che lo circonda, sconfinato e quasi impressionante nella sua totale bellezza. Il mondo esterno contro il microcosmo al quale Shell è ancorata, sia dall’affetto verso che il genitore che dall’obbligo, poiché lo stato di salute del padre la  costringe a restare lì, senza poter fuggire.

Guardare il mondo o meglio immaginarlo, ponendo domande incuriosite ai propri sporadici clienti, chiedendo loro da dove arrivino, dove siano diretti, cercando così di portare via scampoli di vita al di fuori del suo isolamento. La giovane occulta la propria fisicità con maglioni larghissimi ed un giaccone che ha sempre addosso, schermandosi così dietro ulteriori corazze entro le quali si sente al sicuro. 
Il rapporto col genitore si delinea lentamente, nel corso del narrato, prendendo una forma ambigua, fino a toccare da vicino il legame incestuoso: i ripetuti “I love you” che Shell dice a Pete restano nell’ambivalenza del significato, che in inglese corrisponde sia al voler bene che all’amore, ed è attraverso le immagini e le situazioni che la frase assume sfumature diverse, fino a risultare tagliente nella sequenza dell’amorevole e morboso abbraccio con cui la figlia stringe il padre, dopo essersi rifugiata nel letto di lui per ripararsi dal freddo, nel desiderio di una vicinanza fisica che l’uomo tenta, seppur con fatica, di respingere.

Graham riesce a trattare un argomento delicato con una sensibilità eccezionale, lasciando scorrere sotto la pelle del racconto questo tumulto di sentimenti e sensazioni, rappresentati mediante dialoghi ridotti all’osso, sguardi colmi di significati, piccoli ma importantissimi gesti che valgono più di tanti inutili discorsi.
Il silenzio, infatti, domina una narrazione in cui lo score è totalmente assente, sostituito dal suono del vento, sottofondo ideale che simboleggia l’onnipresenza della Natura desolata e selvaggia in cui si colloca la trama del racconto; unica eccezione musicale è la splendida The Walk Of Life dei Dire Straits, sulle cui note Shell si scatena in una danza solitaria, catartica, liberatoria di un’energia vitale tenuta, volutamente, sottochiave per il resto della pellicola.

La solitudine dei due protagonisti, motore primario del loro legame simbiotico insieme alla malattia dell’uomo, è isolamento al tempo stesso volontario e riluttante, accettato con una rassegnazione nelle cui pieghe l’impulso di fuggire scalcia silenziosamente.
I pochi clienti della stazione di servizio sono galleria umana con cui la ragazza si confronta, in modo spesso conflittuale: il giovane Adam (Iain De Caestecker), operaio in una segheria della zona, rappresenta un possibile corridoio di fuga verso il mondo esterno, nel suo interesse verso Shell, nel chiederle più volte di trascorrere una serata al pub, inviti a cui la ragazza risponde con un “I don’t know”, parole che sono eco non soltanto di una perpetua incertezza nell’accettare un rapporto umano altro da quello che la lega al padre, in un timore di “tradire” il genitore, ma che rappresentano il sostanziale conflitto tra il desiderio di fuga e la paura di assecondare questo impulso, dettata anche dalla necessità di dover restare per non abbandonare colui che non può restare solo.  

Altro personaggio che ruota attorno a questo piccolo mondo è Hugh (un’ottimo Michael Smiley, il Gal di “Kill List”), uomo rattristato dal non riuscire mai a trascorrere del tempo con i propri bambini, che vede in Shell una sorta di ancora di salvezza in una vita mesta, ma dalla quale è anche colpevolmente attratto.

Scott Graham ed i suoi straordinari interpreti ci donano dunque un kammerspiel circondato da terre sconfinate che rappresentano, per la protagonista, il mondo esterno, l’ignoto, affascinante e spaventoso al tempo stesso, con riprese paesaggistiche che tolgono letteralmente il fiato per la loro assoluta ed imponente bellezza.
Un film che si disserra come un dono prezioso, in uno svolgersi lento, con una calma apparente che cela i tumulti di un’anima che si offre poco per volta, mettendo a nudo le proprie paure, conflitti e sentimenti che non si possono confessare, in 90 minuti di incanto filmico che permangono, avvolgendo come un guscio il cuore dello spettatore.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Shell
Uk - 2012
Regia: Scott Graham


giovedì 29 novembre 2012

La mia recensione di "The Liability" (2012) di Craig Viveiros per Point Blank - Torino Film Festival XXX edizione


Con molto ritardo rispetto al suo inizio, che ha avuto luogo ad Halloween con la mia recensione di [REC]³ Génesis, colgo l'occasione per annunciare, con orgoglio, la mia nuova collaborazione con Point Blank


Per Point Blank dico la mia su The Liability, debole pellicola di Craig Viveiros, in concorso al TFF XXX edizione.



http://www.pointblank.it/?p=27246 









The Liability (2012)


The Liability, pellicola targata Uk e firmata da Craig Viveiros, già presente al Torino Film Festival lo scorso anno col deludente Ghosted, è il terzo lungometraggio del regista britannico. Film che, sulla carta, pareva promettere bene: in primis, per la presenza nel cast di due giganti come Peter Mullan e Tim Roth, e per un canovaccio narrativo apparentemente intrigante.
Il diciannovenne Adam (un convincente Jack O’Connell), ha una madre bella e procace e un ricco patrigno, Peter (Peter Mullan) invischiato (a dir poco) con la malavita. Dopo aver distrutto l’auto dell’uomo, si vede assegnare come punizione l’incarico di autista per conto di Roy (Tim Roth), un killer in procinto di uscire dal giro. Non tutto fila liscio come dovrebbe per il maldestro Adam, che non ha la stoffa del malavitoso, e l’incontro con una ragazza che ha dei conti in sospeso con i loschi traffici di Peter (una Talulah Riley troppo bamboleggiante per risultare credibile) complicherà ulteriormente la situazione.

L' opera si rivela deludente su più fronti: Mullan (la cui presenza sullo schermo è dosata col contagocce) e Roth recitano senza troppa convinzione, interpretando uno stereotipo di loro stessi, per quanto il personaggio di Mullan, nel finale, riesca a regalare uno dei momenti migliori del film, e la presenza di Roth sia sempre un cinefilo piacere. Due giganti usati come specchietto per le allodole, che non bastano a salvare un prodotto sostanzialmente inconsistente e senz’anima, l’ennesima pellicola di cui si poteva tranquillamente fare a meno.

Viveiros è ambizioso nel tentativo di mescolare generi diversi (gangster movie, dramma e commedia), ma il risultato è soltanto un’incertezza di registri scarsamente convincenti. Il lato comedy si regge su gag risapute e situazioni trite, i momenti drammatici scadono in un buonismo nauseante ed il coté noir, l’unico su cui sarebbe stato lecito puntare qualcosa, non è altro che l’ennesima, scialba fotocopia degli innumerevoli gangster movie britannici alla moda passati sugli schermi nell’ultimo decennio. Si assiste così a una fiera del già visto, un insieme fragile e fatuo, che parte da uno spunto potenzialmente efficace, sprecato nell’imboccare la strada più facile e superficiale.

L’incipit è buono, con una scena di omicidio sulle note di Una Rotonda Sul Mare di Fred Bongusto, indubbiamente derivativo ma convincente; la premessa/promessa viene ben presto smentita da una sfilata di luoghi comuni e situazioni improbabili, in un film privo di nerbo e di una cifra stilistica caratterizzante.

The Liability  è risultato, tuttavia, assai gradito a una fetta di pubblico del Torino Film Festival, in una prima proiezione astutamente collocata di sabato sera: ciò è sintomatico della natura esclusivamente commerciale della pellicola, adatta ad una distribuzione in sala ad uso e consumo di palati non troppo fini, ma  che risulta fuori luogo in un Festival le cui selezioni non necessitano di strizzare l’occhio al botteghino.

L’opera di Viveiros, dunque, si preannuncia come un potenziale successo al box office, ma non possiede la robustezza necessaria per poter essere considerata pregevole: un film vuoto, che non lascia assolutamente nulla e che si dimentica con la facilità propria dei tipici prodotti mordi e fuggi.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

The Liability
Uk - 2012
Regia: Craig Viveiros