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domenica 31 marzo 2013

Il mio articolo su "I Soliti Sospetti" (1995) per Positifcinema


Per il nostro sguardo retrospettivo su Bryan Singer, la mia disamina de "I Soliti Sospetti"

pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/soliti-sospetti-di-bryan-singer







I Soliti Sospetti (The Usual Suspects) (1995)



L’importanza di chiamarsi Söze


“La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stata di convincere il mondo che lui non esiste”
(Charles Baudelaire)

Cinque criminali in fila per un confronto all’americana: è partito tutto da lì, da quella che è diventata l’immagine-simbolo de I Soliti Sospetti (The Usual Suspects), poiché è proprio da quest’idea visiva balenata nella mente dello sceneggiatore Christopher McQuarrie (collaboratore abituale di Singer in gran parte dei suoi lavori) mentre si trovava in coda davanti al botteghino di un cinema, che è nato lo spunto per quello che è considerato un film fondamentale nella cinematografia statunitense degli ultimi anni, un’opera spartiacque che è divenuta modello di un nuovo modo di rileggere (e stravolgere) le convenzioni del noir. Secondo lungometraggio di Singer, dopo il buon risultato dell’esordio con Public Access (1993), I Soliti Sospetti affonda le proprie radici nella tradizione, ossia nel cinema americano classico, in quelle che sono le regole e gli stilemi della sceneggiatura del noir hollywoodiano, per poi rimescolarle e collocarle in maniera diversa, con un risultato che spiazza e sorprende lo spettatore.   

Si vedano, in primis, le unità di tempo e luogo, scandite da didascalie che collocano la narrazione in tre ambiti spazio/temporali diversi: si comincia con “San Pedro, California – la scorsa notte”, dunque da quello che in realtà scopriremo essere l’epilogo della vicenda, ossia l’incendio al porto, cronologicamente vicinissimo, per proseguire con la seconda, la più importante: “New York – sei settimane fa”, segmento fondamentale nel quale ci viene mostrato il momento dell’arresto dei cinque protagonisti, il confronto all’americana che è uno dei perni del narrato e la presentazione dei personaggi tramite la voce narrante di Roger “Verbal” Kint (un Kevin Spacey a dir poco strepitoso, attorno al quale si sviluppa l’intero plot, che per il ruolo portò a casa un Oscar). L’ultima delle tre entità di spazio/tempo ci riporta al qui e ora del racconto :”San Pedro – oggi” , con quindici cadaveri carbonizzati e due superstiti, uno in coma, l’altro “uno zoppo di New York” (inutile dirlo, Verbal Kint). Da questo momento in poi gli snodi avvengono tra flashback e presente, senza bisogno di puntualizzazioni: questa è la prima destrutturazione del meccanismo del classico gangster movie, illudere lo spettatore di trovarsi di fronte a un’esposizione di stampo tradizionale, nella quale i cambiamenti cronologici e di ambientazione sono chiaramente sottolineati, un’ingannevole rassicurazione riguardo all’identità di ciò a cui si sta assistendo. Uno dei punti cardine del cinema di Bryan Singer è che nulla è ciò che sembra, e I Soliti Sospetti ne è l’esempio non solo più lampante ma anche più scopertamente analizzabile: la carte vengono rimescolate di continuo, in un gioco disorientante che può portare all’unica soluzione possibile, il colpo di scena finale, uno dei twist narrativi più riusciti e meno prevedibili che si siano visti sullo schermo da almeno trent’anni a questa parte.

L’altro elemento portante del noir USA anni ‘40/’50 a cui McQuarrie si rifà nella stesura dello script è la caratterizzazione dei personaggi, poichè ognuno di loro incarna quello che potremmo definire un enneatipo filmico, una tipologia psicologica (e fisica) precisa: “il capo” (Dean Keaton, un grande Gabriel Byrne), “il pazzo” (McManus, interpretato da Stephen Baldwin), “il violento” (Todd Hockney ossia Kevin Pollack), “il ribelle/disadattato” (Fred Fenster, il magnifico Benicio Del Toro), e infine “l’outsider”, lo storpio e apparentemente stupido, quel Roger “Verbal” Kint che sommessamente tira le fila di tutta la narrazione. Anche in questo caso, lo sceneggiatore cambia le regole, tornando al discorso Singeriano del “nulla è ciò che sembra”: il capo è solo un’apparenza e chi rimaneva nell’angolo, con la sua camminata claudicante, fingendo paura, stupore, idiozia, diventa l’elemento chiave, colui del quale nessuno avrebbe mai sospettato.  

Kayser Söze è nome profondamente evocativo costruito da McQuarrie con l’ausilio di un dizionario inglese/turco:  il suono germanico rimanda al concetto di sovrano assoluto, imperatore, e quel Söze è di per sé indizio, in quanto l’appellativo del personaggio può essere a grandi linee tradotto come “imperatore chiacchierone”, e Kint si è guadagnato il soprannome di Verbal per la sua tendenza a parlare troppo. Parola come simbolo, significante supremo in una pellicola in cui il linguaggio assume una valenza concreta, che si può definire fisica nella delineazione dei caratteri e delle situazioni (le parole di Fenster, ad esempio, sono quasi incomprensibili nel suo continuo bofonchiare): la figura di Kayser Söze acquista un’aura mitologica nel corso del plot, che si rafforza semplicemente con l’uso dell’espressione verbale, alla stregua delle leggende tramandate oralmente, radicandosi in modo inesorabile nel nostro immaginario. Un appellativo, due semplici sostantivi, che stanno a rappresentare il concetto centrale della poetica del regista, vale a dire il Male, nella sua accezione più profonda e definitiva. Il cinema di Bryan Singer, infatti, è un ampio e approfondito discorso sul coté maligno dell’essere umano, sull’oscurità che permea quelle zone dell’anima che cerchiamo sempre di celare agli sguardi altrui. Un Male già presente in Public Access, che in seguito assumerà le spoglie del diabolico storico per eccellenza, il nazismo, ne L’Allievo (1998) e in Operazione Valchiria (2008), e che in questa pellicola raggiunge la sua apoteosi espressiva, dipingendo Kayser Söze come “il diavolo in persona”, mitizzandone le gesta attraverso un flashback che lo vede guerriero epico, personaggio che è probabilmente solo una leggenda tramandata tra criminali ma che è terrificante sopra ogni altra cosa ("Non credo in Dio ma ne ho paura. Beh, a dire il vero ci credo, ma l’unica cosa che mi spaventa è Kayser Söze”, dice Verbal al detective Kujan, l’ottimo Chazz Palminteri, nel corso dell’interrogatorio che attraversa il film e che è primo, grande indizio di quello che sarà il twist dell’epilogo) .

Emblematica la citazione da Charles Baudelaire, che dona ulteriore vigore alla natura demoniaca e sovrannaturale del personaggio di Söze, ambiguo fin da prima della sua rappresentazione: Singer disse a ognuno degli attori principali che avrebbe interpretato il ruolo cardine, con successivo grande disappunto di Byrne; la mitizzazione ha dunque luogo a partire dall’extradiegetico, dagli albori della lavorazione, generando così il medesimo senso di spiazzamento provato dallo spettatore.

Il celeberrimo finale, la rivelazione che rovescia il modo in cui l’intero film è percepito (le visioni successive alla prima, infatti, saranno inevitabilmente condizionate dalla consapevolezza) è da manuale di cinema, in un gioco di campi e controcampi, parole che tornano alla mente di Kujan, la geniale chiusura di un cerchio costruita anch’essa sull’espressione verbale, su singoli vocaboli apparentementi insignificanti che, improvvisamente, assumono un’importanza assoluta.
Una  pellicola che può essere definita seminale nella concezione del noir moderno, modello visivo e narrativo che ha influenzato molti epigoni successivi, spesso definito “meccanismo a orologeria”, in realtà composto da cerchi concentrici che conducono a quello che è il cuore oscuro dell’opera: l’identità di Kayser Söze.           
  
Chiara Pani
(araknex@email.it)

Titolo originale: The Usual Suspects
USA - 1995
Regia: Bryan Singer
Data di uscita italiana: 30 Novembre 1995
araknex777's soliti sospetti album on Photobucket

giovedì 21 febbraio 2013

La mia recensione di "Promised Land " (2012) di Gus Van Sant per Positifcinema



pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/promised-land-di-gus-van-sant






Promised Land (2012)


Not the Bad Guy




Ripercorrendo la filmografia di Gus Van Sant, dagli esordi nel 1986 col low-budget Mala Noche fino a L’Amore Che Resta (2011), non si può fare a meno di immaginarlo eternamente giovane, immutato ribelle di Hollywood, per quanto abbia indugiato in qualche concessione al box-office (il comunque splendido Will Hunting).  Se si ripensa a quello che è con ogni probabilità il suo capolavoro, Elephant (2003), strozzato urlo di dolore per la strage di Columbine, alla freschezza inventiva delle sue opere migliori, si fatica a credere che il cineasta abbia ormai varcato la soglia dei sessant’anni di età, o meglio, si faticava: Promised Land, distribuito nelle sale italiane in contemporanea alla presentazione nel corso della 63ma Berlinale, ci riporta con i piedi per terra, accompagnati dall’amara constatazione che anche Gus Van Sant è inesorabilmente invecchiato. La pellicola si fonda su premesse allettanti: torna Matt Damon, sia nei conflittuali panni del protagonista Steve Butler che nelle vesti di sceneggiatore, a quattro mani con John Krasinski (suo antagonista nel film, nel ruolo di Dustin Noble) da un soggetto del celebre scrittore Dave Eggers (L’Opera Struggente di un Formidabile Genio). 

La storia di Butler, trentottenne con aspirazioni carrieriste in seguito alla promozione ottenuta presso la Global, multinazionale dal nome-simbolo (tratto ricorrente nel film) che trivella terreni per estrarne gas naturale, mette in gioco una tematica fondamentale ossia  la crisi economica, sfondo dell’intera narrazione, senza però sfruttarne appieno il potenziale e finendo per concentrarsi su aspetti secondari e sostanzialmente retorici. Steve e la collega Sue (magnifica Frances McDormand, per quanto sia ormai quasi inutile sottolinearlo) hanno l’incarico di convincere gli abitanti di una cittadina rurale della Pennsylvania, messa in ginocchio dalla mancanza di risorse, a vendere la propria terra, ricorrendo a false promesse di ricchezza: Steve è cresciuto in una fattoria, in un piccolo centro molto simile a quello in cui devono muoversi e ritiene dunque di conoscere “questa gente”, di potersi agevolemente mescolare a loro nella presunzione della propria superiorità culturale, commettendo l’errore di identificarla con quella intellettuale. Lo sbaglio è palese fin dal suo arrivo, a partire dal cartellino del prezzo dimenticato su una camicia di flanella acquistata per “sembrare uno di loro”, e che proprio uno di loro staccherà al primo sguardo, smascherando subito la goffa intenzione; ciò che non va, ovviamente, si trova più a fondo, nell’animo e nella coscienza del protagonista e, in primis, nella memoria della propria provenienza e delle proprie radici, che entra inevitabilmente in conflitto con un’identità presente tanto posticcia quanto fragile. E’ anche in questo che ritroviamo uno dei passi falsi di Promised Land, nel suo scivolare verso una retorica superficiale e un tantino demagogica, troppo scontata e già vista. 

Per quanto il regista e gli autori dello script si concentrino, legittimamente, sul travaglio interiore di Butler e sulla sua mancanza di autostima (dovuta, in modo fin troppo ovvio, al non credere davvero in ciò che fa), finiscono per arenarsi sui buoni sentimenti e sulla tematica di una ritrovata consapevolezza delle proprie origini, perdendo di vista altri spunti potenzialmente interessanti. Si punta su una rappresentazione che è anche simbolica (caratteristica del cinema di Van Sant), dagli stivali del nonno, elementi chiave in quanto significanti di una figura parentale determinante nella vita di questo “yuppie sbagliato”, fino ai nomi dei personaggi: Butler, ossia maggiordomo, dunque servo di un potere più grande, Dustin Noble, l’ambientalista che darà filo da torcere ai due venditori, dal cognome troppo smaccatamente immacolato per poter convincere e soprattutto la Global, emblema di tutte quelle multinazionali che proprio dalla crisi tentano di trarre il maggior profitto possibile, senza curarsi delle conseguenze. Ingiustamente poco approfondita la figura di Frank Yates (un grande Hal Holbrook), anziano insegnante per passione, in realtà fregiato da prestigiosi titoli accademici: ben lungi dall’essere un bifolco facilmente raggirabile con qualche chiacchiera, uomo la cui profonda dignità rappresenta quella della comunità intera.

Promised Land regala alcuni buoni momenti, tra cui il monologo di Steve sui “Fuck you money”, ossia il denaro come “liberatore definitivo” e alcuni dialoghi arguti, un ottimo cast e il sapiente talento di Van Sant per l’immagine in quanto tale, complice la bellissima fotografia di Linus Sandgren e riprese paesaggistiche di indubbia suggestione. Tuttavia, il film resta irrisolto e complessivamente un po’ monotono nonostante qualche efficace scossone.

La pellicola avrebbe dovuto segnare l’esordio registico di Damon, che rinunciò a causa di tempi troppo stretti e divergenze creative, passando il testimone a Van Sant, il quale probabilmente non è entrato del tutto in sintonia con l’opera: ciò che manca davvero a Promised Land, come del resto al suo protagonista, è proprio una ben definita personalità. Ed è un vuoto che si avverte.  

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Promised Land
USA - 2012
Regia: Gus Van Sant

Data di Uscita in Italia: 14 Febbraio 2013
 

lunedì 28 gennaio 2013

Il mio articolo su "Il Buio Si Avvicina" (1987) per Positifcinema


per lo speciale C(o)unt to Zero Dark Thirty di Positifcinema, dedicato a Kathryn Bigelow, il mio articolo sullo splendido Near Dark  (Il Buio Si Avvicina)

pubblicato su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/count-to-zero-dark-thirty-il-buio-si-avvicina-di-kathryn-bigelow 










Il Buio Si Avvicina (Near Dark) (1987)


La Carne e il Sangue


Il Buio Si Avvicina (Near Dark) è film fondamentale, sia nella carriera di Kathryn Bigelow che nella rappresentazione cinematografica dell’ormai esasperatamente sfruttata figura del Vampiro; la pellicola è, in primis, il primo lungometraggio diretto unicamente dalla regista (il precedente The Loveless, del 1982, l’aveva vista collaborare a quattro mani con Monty Montgomery): fu una vera sfida per la Bigelow, alla quale il produttore Edward S. Feldman diede cinque giorni di tempo per dimostrare di essere in grado di portare avanti il lavoro, altrimenti sarebbe stata sostituita. 

Inutile dire che la scarsa fiducia di Feldman subì un meritato smacco, poiché Near Dark non solo rappresenta una punta altissima nella filmografia della cineasta californiana, bensì ha segnato un punto di svolta all’interno della ciclopica mole di opere riguardanti le creature della notte. Sceneggiato dalla stessa Bigelow insieme ad Eric Red, già regista ed autore dello script di The Hitcher, il quale riporta l’orrore on the road anche in questo contesto, il film era inizialmente nato in quanto western, per poi aggiungervi la tematica vampiresca al fine di renderlo più appetibile per il pubblico; gli anni ’80, infatti, videro un riflusso del cinema dei succhiasangue, a partire da Ragazzi Perduti, di Joel Schumacher, anch’esso del 1987, simile nelle linee guida del plot ma sostanzialmente opposto nel risultato finale: se The Lost Boys conservava una patina modaiola, sfruttando vecchi cliché tra cui quello dei vampiri belli e dannati, il film della Bigelow va ben oltre, slegandosi completamente da strutture pre-esistenti e re-inventando il non-morto, partendo però dalla sua origine primaria, ossia il Dracula di Bram Stoker

E’ proprio da lì, infatti, che proviene l’idea, fino a quel momento assai poco sfruttata, della reversibilità del contagio vampirico (drenare completamente il sangue della vittima per poi eseguire una trasfusione di plasma sano), che qui diventa centrale, determinando così la scelta di Caleb (Adrian Pasdar) nell’ abbandonare la sua nuova condizione per tornare umano, nonostante il sentimento che ormai lo lega a Mae (Jenny Wright), colei che l’ha trasformato, con un bacio che è divenuto un morso. La diversità di “specie” non è un ostacolo, lo stereotipo del vampiro che non può amare poiché privo dell’anima è qui demolito insieme a tutti gli altri residui del vecchio immaginario: l’Amore è pulsante, presente anche e soprattutto in quanto carnalità (per usare le parole della regista, una “sessualizzazione della violenza”), non soltanto in Mae e Caleb ma in ogni componente del clan/famiglia di vampiri-nomadi che dà vita alla storia: il patriarca Jesse (perfetto Lance Henriksen) e la sua compagna Diamondback (Jennette Goldstein), il sensuale e violento Severen (uno dei personaggi più riusciti, insieme a Jesse, interpretato magnificamente da Bill Paxton), che rappresenta il puro istinto senza freni, e Homer (Joshua Miller), adulto intrappolato per sempre nel corpo di un ragazzino, le cui pulsioni premono per esplodere.

Il clan è al tempo stesso famiglia e gang, ostile verso Caleb in quanto non vi è la certezza che sia già diventato uno di loro, e soprattutto pienamente appagato dalla propria condizione: la scena del bar è esemplare in tal senso, nel contrapporre l’autocompiacimento dell’essere vampiri, dell’uccidere, del giocare con le vittime che  caratterizza il resto del gruppo (Severen in particolare) al conflitto interiore di Caleb, il rifiuto verso ciò che sta diventando (tormento simile a quello del Louis di Intervista col Vampiro, che, insieme al Dracula di Stoker, all’epoca delle riprese era l’unico romanzo sul tema letto dalla Bigelow): questo contribuisce a rendere il personaggio del giovane “umano” assai meno attraente, quasi pedante e noioso, mentre non si può non essere irresistibilmente affascinati dai magnetici e seducenti villains proprio in ragione del loro essere tali.

La caduta degli stereotipi: qui i vampiri non hanno canini aguzzi, non si trasformano assumendo fattezze mostruose, non temono aglio o acqua santa e, quel che è più importante, la parola vampiro non viene mai pronunciata per tutta la durata della narrazione. Si parla di malattia, di paura per ciò che si sta diventando, ma per quanto possa essere palese cosa siano i personaggi del film, non si traccia la netta linea di confine verbalizzando ciò che marca la differenza. C’è un perenne senso di indeterminatezza e di incertezza, ma soprattutto si evidenzia la vulnerabilità dei protagonisti: Near Dark, come già si diceva, è fondamentalmente un western, con tutti i tòpoi del genere, dal duello fino alle colt passando per l’ambientazione in un’Arizona bruciata dal sole, dunque il luogo meno adatto per coloro che bruciano non appena vengono avvolti dalla luce. Questo li rende nomadi, perpetuamente in fuga, schermando i vetri dell’auto nel momenti in cui la temuta palla infuocata compare in cielo: proprio in questo senso, assumono l’aspetto di fuorilegge on the run. Lo scorrere dei giorni è visivamente scandito da inquadrature dell’alba, che compaiono sullo schermo come minacciosi moniti. Potentissimi, eppure fragili nel loro unico punto debole.

Il sottofinale è un susseguirsi di esplosioni, che corrispondono alla deflagrazione della carica emotiva del racconto, per poi quietarsi nella parte conclusiva, sostanzialmente positiva ma sempre sottesa da quel senso di incertezza e dubbio che permeano l’intero narrato.

Lo score, firmato dai Tangerine Dream, accompagna le immagini in maniera suggestiva ed empatica, passando dalla pacatezza ipnotica ad un ritmo ossessivo e convulsivo per le scene più cruente. La sequenza nel bar è graziata dalla magnifica cover di Fever, di Elvis Presley, ad opera degli immensi Cramps, scelta quanto mai azzeccata per quello che è uno dei momenti in assoluto più notevoli e incisivi del film. Da ricordare anche la splendida sparatoria tra la gang asserragliata nel motel e i poliziotti all’esterno, nella quale ogni foro di proiettile nel muro ferisce non per il piombo, ma per la luce che fa trapelare: gli echi del Mucchio Selvaggio di Peckinpah sono presenti, memoria storica fulgida, altissima e non sradicabile.

Near Dark è dunque un film-impronta nell’ormai consolidata carriera della Bigelow, regista che si è appropriata di un genere da sempre considerato patrimonio maschile, l’action,  sfaccettandolo con ritratti umani (o non-umani, come in questo caso) difficili da dimenticare, pellicola che, al tempo stesso, ha rivoltato come un calzino i luoghi comuni sui vampiri spogliandoli dalle polverose vesti di dandy gentiluomini, togliendo loro ogni leziosità manieristica, e rendendoli mai come ora così vicini agli umani.
  
Chiara Pani
(araknex@email.it)



Titolo originale: Near Dark
USA - 1987
Regia: Kathryn Bigelow


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