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sabato 22 settembre 2012

Il mio articolo su "La Casa" (The Evil Dead) (1981) e "Within The Woods" (1978) per Horror.it



pubblicato su Horror.it:





La Casa (1981)

Within The Woods (corto) (1978)

Quando Sam Raimi e la sua troupe iniziarono le riprese di “The Evil Dead” (La Casa), nel 1979, non potevano immaginare cosa sarebbe diventato questo piccolo film, un low budget realizzato tra innumerevoli difficoltà nell’arco di tre mesi (e un anno e mezzo di post-produzione). La pellicola, originariamente in 16mm e successivamente stampata in 35mm per poter essere proiettata nelle sale, ha assunto lo status di cult assoluto e indiscutibile; il seme iniziale del suo successo può essere ritrovato nella penna di Stephen King, che ne scrisse un’entusiastica recensione per la rivista “The Twilight Zone”, dando così il via a un passaparola irrefrenabile che convinse la New Line Cinema a distribuirlo. King lo definì  “l’horror più ferocemente originale dell’anno” : contando che era il 1982, nel corso del quale uscirono titoli come “La Cosa” e “Poltergeist”, l’affermazione non poteva di certo essere presa alla leggera.

“La Casa” era il lungometraggio d’esordio per Raimi, che aveva già al suo attivo un buon numero di cortometraggi girati in Super 8, commercializzati a livello locale con buoni rientri economici. Tra questi, particolare attenzione merita “Within The Woods” (1978) (da alcuni ribattezzato “Evil Dead 0”) che contiene, in embrione, il canovaccio di trama e le idee che saranno alla base della pellicola successiva.
La squadra è sempre la medesima: anche qui troviamo Robert G. Tapert tra i produttori (insieme a Raimi e Campbell) e Bruce Campbell come protagonista (oltre a Ellen Sandweiss, che in “The Evil Dead” interpreterà Cheryl); il sodalizio Raimi/Tapert/Campbell, oltre ad essere il frutto di una grande amicizia, proseguirà negli anni, fino a oggi. E’ una componente fondamentale del successo delle opere di Raimi, una piccola “factory” affiatata che non si è disgregata col tempo.

Il talento del regista è già ampiamente individuabile, nelle tecniche di ripresa, e nelle trovate originali. Il cortometraggio, seppur condito dell’ironia di cui sarà pregno anche “The Evil Dead” (e capitoli successivi) riesce genuinamente a spaventare, usando il suono come componente principale dell’elemento-terrore. Il plot narra di un gruppo di amici che decide di trascorrere il weekend in una casa sperduta e uno di loro (inutile dirlo, Bruce Campbell), accidentalmente, sconsacra un cimitero indiano, trasformandosi in zombie e uccidendo i suoi compagni.

Il tormentone “Join Us” è già presente e le linee narrative sono la preparazione a ciò che si vedrà nel lungometraggio; il cimitero indiano è stato sostituito dal Necronomicon, in qualità di “fattore scatenante”, e il ruolo di Campbell è rovesciato: qui mostro, in “The Evil Dead” resta l’unico sopravvissuto umano. In questo piccolo video, si può già notare come il talento e le idee riescano a supplire all’assoluta mancanza di mezzi: il corto ha, ovviamente, i suoi limiti, ma resta un’ottima prova dell’abilità tecnica di Raimi.

Intercorre un anno, tra quest’opera e l’inizio delle riprese de “La Casa”: il budget di partenza era di 375.000 dollari, e la troupe era composta da 37 persone; con l’arrivo del freddo le condizioni di lavoro diventarono sempre più disagevoli, poiché lo chalet abbandonato nel quale venne girato il film (nella location di Mornstown, nel Tennessee) non aveva riscaldamento né acqua corrente, e i soldi terminarono. La maggioranza del cast artistico e tecnico abbandonò la lavorazione verso il periodo natalizio, a sei settimane dal primo ciak; Campbell ipotecò una proprietà di famiglia per permettere a Raimi di terminare il lavoro e di riversarlo in 35mm. Vennero utilizzati alcuni “doubles”, ossia sostituti degli attori (in particolar modo nelle scene di possessione demoniaca, nelle quali i volti erano celati dal trucco), definiti “fake shemps”, tra cui vi era anche l’allora quindicenne Ted Raimi, che in una sequenza vestì i panni di Cheryl demone nella botola.
Grazie al primo direttore della fotografia, che in seguito lasciò il set, ottennero a noleggio dall’Università, a prezzo scontato, due telecamere professionali, che altrimenti non si sarebbero mai potuti permettere. I make up fx, a opera di Tom Sullivan, considerata la povertà di mezzi, sono ottimi: la scena finale che vede i demoni disgregarsi richiese tre mesi di lavoro, con l’impiego di tecniche miste, tra cui l’animazione a passo uno.
Un film quindi pioneristico in senso stretto, girato in condizioni estreme, da un gruppo di amici mossi da una fortissima passione: ecco cos’è, in sintesi, “The Evil Dead”.

Il canovaccio narrativo è assai semplice, classico, ormai universalmente conosciuto: il tranquillo weekend di una combriccola di ragazzi si trasforma in incubo, in seguito al ritrovamento del Necronomicon, ossia “Il Libro Dei Morti”, contenente le formule in grado di evocare i demoni. La registrazione su nastro della voce di uno studioso, in cui egli recita le misteriose parole, scatena l’orrore: i demoni iniziano a impossessarsi dei personaggi e Ash/Campbell dovrà lottare contro di loro.

Bruce Campbell in quanto icona horror prende vita proprio in questo film, diventando successivamente mattatore incontrastato nei due, magnifici, sequel: “La Casa 2” (1987) e “L’Armata Delle Tenebre” (Army Of Darkness) (1992), che lo consacrano come interprete carismatico e fortemente ironico.
L’ironia, infatti, è parte integrante della pellicola, che unisce abilmente terrore e momenti di divertimento, battute e spaventi; una miscela non facile, ma qui perfettamente riuscita. Ash è l’anti-eroe per eccellenza, di certo non impavido, a tratti goffo ma comunque in grado di sconfiggere le forze maligne che si scatenano nella casa. E, soprattutto, nel bosco. Il titolo italiano ha spostato l’attenzione soltanto sul luogo abitativo: in realtà, ciò che lo circonda è determinante tanto nella narrazione quanto nella messa in scena.

Le sequenze in soggettiva, che rappresentano il punto di vista dell’entità maligna nel suo spostarsi velocemente tra gli alberi, senza venire mai mostrata, sono diventate  marchio di fabbrica della tecnica registica di Raimi: con il termine “Shaky POV Cam” (coniato dallo stesso Raimi, dove “POV” sta per “point of view”, punto di vista), si intende proprio questo uso particolare della macchina da presa. L’effetto si ottenne montando l’apparecchio sopra un’asse sorretta da due persone da ambo i lati, che si muovevano correndo. Un’idea semplice ma geniale, che rende l’idea della presenza in modo inquietante, innovativo e straordinariamente efficace: non solo non la si  manifesta agli occhi dello spettatore ma si fa in modo che egli acquisisca il suo punto di vista.
La scena finale è emblematica: Ash è rimasto solo, è l’alba, l’incubo pare finito; vediamo, nuovamente, lo sguardo demoniaco in soggettiva entrare rapidissimo nella casa, uscirne, e arrivargli alle spalle. Una prova di maestria registica, realizzata con una mdp montata su un’asse di legno, due persone che corrono, e altre ad aprire le porte. Una bella lezione, per i blockbuster a budget altissimi e tasso zero di creatività.

Raimi reinventa l’uso della ripresa in prima persona non solo con la “Shaky POV Cam”, ma anche donandoci i punti di vista dei demoni, con inquadrature inconsuete, bizzarre, spesso geniali.
Nel bosco ha luogo un altro momento assai significativo del film, ossia l’aggressione sessuale da parte di un albero ai danni di Cheryl (Ellen Sandweiss); l’idea iniziale non comprendeva l’aspetto carnale, che fu aggiunto nel corso delle riprese (la scena fu girata in piccoli segmenti nell’arco di molti mesi). Tecnicamente è assolutamente ben riuscita, credibile e realistica; risulta disturbante, senza dubbio inaspettata ma suscitò critiche talvolta feroci: Raimi venne accusato di misoginia e in seguito si dichiarò pentito di aver scelto di inserire questa sequenza, che venne censurata in molti Paesi.    

Tornando sull’argomento make up ed effetti, come si è già detto il lavoro può essere considerato ottimo, sebbene dai risultati discontinui: in alcuni momenti, ad esempio, l’uso di manichini è evidente, in altri il trucco è impressionante. La scena della prima possessione, quella di Cheryl, nella quale ella è alla finestra e si volta di colpo, mostrando il volto deturpato, provoca un sobbalzo. Le lenti utilizzate all’epoca per rendere l’occhio monocolore erano assai diverse da quelle odierne: fastidiose da indossare, potevano essere tenute per soli 15 minuti, durante i quali si tentava di girare il più possibile.
Eccellente l’idea alla base della trasformazione di Linda (Betsy Baker), la ragazza di Ash: ella diviene un essere diabolico bamboleggiante, che ride in continuazione, scostandosi così dagli altri personaggi e creando l’ennesimo tormentone uditivo.

Il suono, infatti, è componente centrale del film, così come lo era in “Within The Woods”; a partire dal magnifico score, composto da Joe Lo Duca, minimale, assolutamente inquietante, percussionistico, che dona al film gran parte della sua aura disturbante. Ogni elemento sonoro in “The Evil Dead” è fondamentale e studiato nei dettagli: dai tormentoni vocali (“Join Us”, la risata di linda, la nenia che canticchia “we’re gonna get you” ), all’ossessivo sbattere del dondolo contro la parete della casa, a inizio film, passando per il continuo percuotere di Cheryl/demone contro il coperchio della botola, fino ad arrivare alle sinistre voci demoniache, poco più che borbottii indistinti, eppure da pelle d’oca. Impossibile non citare la registrazione su nastro ritrovata nella casa, con la voce dello studioso che prima illustra il potere del Necronomicon, recitando poi le sinistre formule: la paura si insinua sia nello spettatore che nei protagonisti, in contemporanea, facendo così scattare il meccanismo d’immedesimazione che incrementa il quoziente di terrore.
La componente audio, più di ogni altra, possiede l’abilità di evocare paure inconsce, di annunciare l’orrore senza mostrarlo, rendendolo così assai più minaccioso.

Il film ha un alto livello di tensione, la suspense è dosata in modo egregio, anche grazie a un buon montaggio, altro punto forte del film; gli spaventi sono spesso improvvisi e imprevisti, i momenti di fiato sospeso riescono a essere incisivi ed efficaci.
“The Evil Dead” si conclude, come si diceva, con la memorabile sequenza in soggettiva e con l’urlo di Ash:a seguire, sui titoli di coda, una musica charleston di gusto comico, a simboleggiare la doppia faccia della pellicola, il coté horror e quello comedy.
Alla sua uscita, il film ebbe non pochi problemi con la censura: nel Regno Unito, fu uno dei primi titoli a essere inserito nella famigerata lista dei “Video Nasties”, un lungo elenco di pellicole ritirate dal mercato per mano della commissione censoria inglese nei primi anni ’80: è stato ridistribuito senza tagli soltanto nel 2001.

Il Paese che maggiormente si accanì contro “La Casa” fu la Germania: venne infatti bloccato per oltre 10 anni, sia nei circuiti delle sale che in quelli home-video, diventando così oggetto di culto nel mercato nero, nel quale proliferavano le copie pirata. Nel 1992 fu rilasciata una prima versione del film, pesantemente tagliata, e soltanto nel 2001, dunque come nel Regno Unito, si potè finalmente godere di un dvd uncut.

L’Italia, invece, decise di approfittare del successo di “The Evil Dead”, producendone dei sequel “apocrifi”, che, ovviamente, nulla avevano a che fare con l’opera originaria ma ne mantennero il titolo nostrano: “La Casa 3”(1988) di Umberto Lenzi, “La Casa 4” (1988) di Fabrizio Laurenti, e “La Casa 5” (1990) di Claudio Fragasso.

Nato per passione, sopravvissuto a mille ostacoli realizzativi, “The Evil Dead” è diventato culto oltre ogni aspettativa, portando così alla luce l’incredibile talento di Raimi e consacrando Bruce Campbell come nuova icona del cinema horror. Il tutto con due macchine da presa a nolo in una baita senza acqua corrente. Potere al low budget. 

Chiara Pani
(araknex@email.it)


La Casa (The Evil Dead)
USA - 1981
Regia: Sam Raimi




mercoledì 18 aprile 2012

La mia analisi di "Zombi" ("Dawn Of The Dead") (1978) di George A. Romero per Horror.it

pubblicata su Horror.it:

http://www.horror.it/a/2012/04/zombi-1978/



Zombi (1978)

Scrivere di un film come questo, il cult assoluto “Dawn Of The Dead”, capolavoro di George A. Romero targato 1978, significa addentrarsi nei corridoi spesso insidiosi del già detto e ripetuto decine di volte, talvolta attribuendo al film significati pindarici che non erano nelle intenzioni del regista.
Ci si trova di fronte ad una pellicola che è un vero caposaldo del genere nonché pilastro e riferimento primario per tutti quei film che sono venuti dopo, gli innumerevoli zombie-movies che a essa si sono in qualche modo ispirati, guardandola, inevitabilmente, dal basso verso l’ alto.
“Dawn Of The Dead” è il secondo capitolo della fondamentale trilogia Romeriana sui morti viventi, nonché il primo film nel quale ci si riferisce ad essi col termine “zombies”, per mezzo delle parole del personaggio di Peter, in quanto il termine non era mai stato usato nel precedente “Night Of The Living Dead “ (1968); la prima pellicola, low budget  girata in bianco e nero, aveva già segnato un fortissimo punto di rottura nella scena orrorifica dell’ epoca, con un forte sottotesto politico (interpretato, da critica e pubblico, in maniera ancor più incisiva di quanto lo stesso Romero in realtà intendesse), i cruenti effetti speciali di Tom Savini che diventeranno un marchio di fabbrica, e l’ introduzione di una caratteristica fondamentale dei morti viventi, fino a quel momento inedita nei classici del genere: l’ antropofagia. Infatti, gli zombies che si erano già visti sullo schermo, ad opera di nomi illustri quali Jacques Tourneur (“Ho Camminato Con Uno Zombie”, 1943) o in pellicole cult come “White Zombie”, del 1932, firmata da Victor Halperin e interpretata da Bela Lugosi, erano per lo più legati alla tradizione ritualistica voodoo, minacciosi ma non affamati di carne umana; in Romero, assistiamo al contagio, chi è morso si trasforma, diventa a sua volta living dead, sbrana, divora. E’ differenza fondamentale, che resterà saldamente radicata nell’ immaginario collettivo e sarà presente in ogni successiva rappresentazione filmica, per mezzo della quale le inquietanti idee di morbo e contaminazione si mescolano a due paure ataviche: quella dei morti che tornano in vita e il terrore dell’ istinto cannibalico.

Il trittico Romeriano, nei titoli, simboleggia l’ espandersi dell’ invasione, aprendosi nel 1968 con la Notte, in un film cupo dal finale che non lascia spiragli di speranza, per proseguire con quest’ Alba, ancora più agghiacciante ma che porta in sé un seme di sopravvivenza per poi chiudersi, nel 1985, con “Day Of The Dead”, l’ avvento del Giorno degli Zombie. In realtà, il ciclo è andato oltre, col pregevole “Land Of The Dead”, del 2005, il bellissimo e sottovalutato “Diary Of The Dead” (2007) ed il più recente e finora meno riuscito “Survival Of The Dead”, uscito nel 2009. Dunque, uno spremere all’ osso la figura del Morto da parte di Romero, scelta da un lato quasi obbligata, in quanto i suoi film slegati dalla tematica (e spesso di valore assai alto), hanno sovente riscontrato uno scarso successo di pubblico; un vero marchio a fuoco, dal quale il regista non è riuscito ad affrancarsi.
E’ importante notare che in Italia “Dawn Of The Dead”  è uscito col fuorviante titolo di “Zombi”, che snatura la concatenazione agli altri due film e crea confusione con alcune pellicole coeve (una su tutte: “Zombi 2” di Fulci, del 1979).

E’ ormai noto che esistono più versioni dell’ opera, il che ha creato anche un certo caos; i cofanetti (ricordiamo le pregevoli edizioni dell’ italiana Alan Young e dell’ americana Anchor Bay) sono intervenuti a mettere un po’ d’ ordine, offrendoci quattro diversi montaggi: la “George A. Romero’ s Extended Version”, integrale così come era intesa dal regista, della durata di 156 minuti; la “Director’s Cut”, da 139 minuti; la “U.S. Theatrical Version”, ridotta a 128 minuti per le sale statunitensi ed, infine, quella conosciuta e distribuita in Italia, Giappone ed Europa (ad eccezione della Gran Bretagna), la “Argento’s Cut”, montata da Dario Argento, la più breve con i suoi 117 minuti.

Inutile dire che le versioni “ridotte” sono più snelle ma sottraggono al film una parte del suo valore originario: i tempi dilatatissimi dell’ extended, infatti, esasperano il senso di tensione e di claustrofobia nelle sequenze all’ interno del centro commerciale, vi sono più dialoghi dunque i personaggi sono ancor meglio delineati e vi sono alcune scene importanti che verranno poi tagliate negli altri montaggi (ad esempio, quella in cui un gruppo di poliziotti vuole appropriarsi dell’ elicottero dei protagonisti, e nella quale le forze dell’ ordine risultano ridicolizzate); tuttavia, non tolgono forza al film, sebbene l’ extended version resti ovviamente quella che rende maggiormente giustizia alla narrazione. Una delle differenze più accentuate è rintracciabile nell’ incipit dell’ “Argento’s Cut”: il film si apre sul magnifico score dei Goblin, di colpo, mentre nella versione extended, ad esempio, a inizio film sono conservate le assai meno efficaci musiche originali.
Le motivazioni di tali sforbiciate sono state molteplici e diverse a seconda dei Paesi: in Francia, la censura giocò un grosso ruolo, e qui in Italia, dopo il 1990 numerose scene vennero eliminate o comunque ridotte (ad esempio l’ uccisione degli zombies bambini), rendendo talvolta meno chiare le sequanze successive; causa principale delle decurtazioni fu comunque la necessità di ridurre la durata al di sotto delle due ore, per i soliti motivi di incastro di un maggior numero di proiezioni nelle sale.
Il film segna l’ inizio della collaborazione tra Romero e Dario Argento: i due registi si incontrarono nel 1976, e da lì nacque un sodalizio che, dopo questo film, proseguì tra alti e bassi, rivedendoli insieme per “Due Occhi Diabolici” (1990) , pellicola della quale curarono un episodio a testa, entrambi tratti da Edgar Allan Poe.
“Dawn Of The Dead”  è prodotto, tra gli altri, da Claudio Argento, ed è stato scritto da Romero con la collaborazione del regista nostrano, accreditato come “script consultant”; dunque, il ruolo di Argento fu forte e determinante nella genesi di questo film.

Un discorso a parte meritano le magnifiche musiche composte dai Goblin (che nei credits compaiono come: “Goblin in collaboration with Dario Argento”): il film era già stato distribuito in alcune sale statunitensi quando Romero ascoltò ciò che i musicisti avevano composto, e ne rimase stregato. Fece ritirare le copie già diffuse, e sostituì immeditamente lo score originario (piatto e banale), con quello che a tutt’ oggi resta una delle punte massime delle soundtrack  Gobliniane: ipnotico, inesorabile come il lento incedere dei morti viventi, epico, è complementare al film, donandogli quel “valore aggiunto” di potenza non inferiore al celeberrimo tema di “Profondo Rosso”,  per quanto il “Dawn Of The Dead theme” sia rimasto assai meno nell’ immaginario collettivo poiché più rarefatto e meno ossessivo. Le sequenze delle orde di zombies al di fuori dello shopping mall, riprese dall’ alto, se viste con l’ accompagnamento delle musiche originali, perdono molto del loro potere evocativo, per diventare invece veri e propri incubi surreali da pelle d’ oca sulle note agonizzanti dei musicisti argentiani.
Dunque, l’ esatto contrario di quanto accadde per “Martin”, opera di Romero del 1976, che venne successivamente ri-montata da Argento per il mercato italiano aggiungendovi le musiche dei Goblin: si rivelò un errore, poiché la pellicola ne risultò  in parte stravolta, con un taglio di 10 minuti abbondanti e la colonna sonora che pareva posticcia e fuori luogo. Caldamente consigliato, in questo caso, il Director’ s Cut.

“Dawn Of Dead” può essere considerato, innanzitutto, un film sul Caos: lo stravolgimento assoluto dell’ ordine delle cose causato dall’ infrangersi della prima Legge Universale, ossia la Morte.  “Quando i morti camminano, signori, bisogna smettere di uccidere. Altrimenti si perde la guerra.”, queste le parole di un anziano prete che Roger e Peter, due dei protagonisti, incontrano durante l’ irruzione in un edificio invaso dai living dead, in cui essi sono tenuti in uno scantinato invece che consegnati alla Guardia Nazionale (così come imporrebbe la Legge Marziale entrata in vigore), in segno di un ostinato rispetto per la morte.
Non è un caso che la narrazione si apra all’ interno di una stazione televisiva, nella più totale confusione, nel corso di una trasmissione d’ emergenza; ci si focalizza dunque, e da subito, sull’ importanza dei media, sul loro potere che, in questo caso, è non solo impotenza ma anche cinica ricerca dell’ audience ad ogni costo: è grottesco e risibile il direttore di rete che  si ostina a voler trasmettere i dati sui campi di rifugio, sebbene non aggiornati, purchè gli spettatori “non cambino canale”. C’ è un’ apocalisse in atto ma l’ importante è che non si cambi canale.  Romero riesce ad essere feroce con un dettaglio, un accenno, sussurrando senza dover urlare, poiché non ne ha bisogno. Nel corso del film, il mezzo televisivo continua ad essere presente, sebbene le trasmissioni siano ovviamente sempre più diradate, ma rappresenta, per i quattro protagonisti rinchiusi all’ interno del centro commerciale, l’ unica voce dal mondo esterno; ed è voce che spreca il suo fiato prezioso in dibattiti inutili nel corso di risse in diretta, con “esperti” che dichiarano la necessità di sterminare gli zombies mettendo da parte i propri sentimenti umani, poiché pur se ci si trova di fronte al cadavere deambulante della propria madre o del proprio fratello ovviamente “non sono più ciò che sembrano”. Tali teorie vengono attaccate con violenza e questi personaggi rischiano il linciaggio: l’ umanità rifiuta di accettare ciò che sta accadendo, lo considera assurdo, si aggrappa disperatamente al ricordo della propria normalità.
Emblematica, in questo senso, è la sequenza dell’ aggressione di Peter da parte di due bambini zombies: egli spara, con sofferenza evidente, per istinto di sopravvivenza; i suoi occhi vedono ancora dei bambini, anche se in realtà non sono più tali, bensì “mostri”, ma ciò sottolinea la difficoltà nello sganciarsi dal proprio essere individui senzienti, anche a costo della propria auto-conservazione.
L’ emotività diventa follia ma ciò è pienamente condivisibile, così come, d’ altro canto, è comprensibile il raziocinio di chi asserisce la necessità di salvaguardarsi. Romero non prende una vera e propria posizione, guarda il tutto con un certo distacco ed una perenne ironia: fuori il mondo sta finendo e tutto ciò che l’ uomo riesce a fare è aggredirsi a vicenda in uno studio televisivo.
Il lavoro sui personaggi è assai importante, e non comune nel genere horror; ciò è più evidente nel montaggio extended, dove maggiore è lo spazio dedicato ai dialoghi e dunque all’ interazione tra i quattro protagonisti principali, che possiamo suddividere in due coppie: Fran (Gaylen Ross), impiegata nella stazione televisiva che abbiamo visto a inizio film, e Stephen (David Emge), il suo compagno che organizza la fuga in elicottero. Egli coinvolge l’ amico Roger (Scott H. Reiniger), membro del corpo speciale SWAT che porta con sé l’ amico e compagno d’arma Peter (Ken Foree). Ovviamente, due tipologie relazionali diverse ma ugualmente forti: da un lato, il legame sentimentale, dall’ altro, l’ amicizia fraterna ed il cameratismo. Si sarebbe quasi tentati di leggere un sottotesto omosessuale nel rapporto Roger/Peter ma si eviterà di farlo, poiché sarebbero voli pindarici eccessivi e soprattutto fuori luogo, anche se tale istinto potrebbe nascere dalla ben conosciuta scarsa simpatia di Romero per il militarismo, dunque una stilettata ironica di questo tipo, vista l’ omofobia  imperante nell’ esercito, non stupirebbe.

Il centro commerciale è il cuore pulsante del film, la location primaria, il luogo-rifugio dei protagonisti in una città, Philadelphia, ormai quasi del tutto popolata da morti viventi e dalla Morte. Il complesso di negozi nel quale hanno avuto luogo le riprese si trova in realtà a Monroeville, in Pennsylvania e all’ epoca era il più grande shopping mall degli Stati Uniti; gli shootings durarono circa quattro mesi, nell’ inverno tra il 1977 e il 1978, durante gli orari di chiusura del Monroe Mall dunque nel corso della notte.
L’ extended version, come già si diceva, meglio di ogni altra rende l’ idea dell’ esasperato senso di assedio, della tensione interminabile che viene accentuata, e non diminuita come si sarebbe portati a pensare, dai tempi dilatati all’ estremo. Questa stasi temporale crea nello spettatore un' identificazione completa con i protagonisti, un senso di logorante attesa, di claustrofobia schiacciante che non lascia scampo.
Lo spazio a disposizione dei quattro personaggi è enorme ma al tempo stesso minuscolo poiché è tutto il loro mondo, nel quale non sono mai al sicuro, in quanto i living dead entrano a più riprese e sono innumerevoli: davanti alle porte del grande magazzino, perenni orde di morti viventi percuotono incessantemente le vetrate, nel disperato tentativo di sfondarle. La minaccia è dunque onnipresente e ossessiva.
Arriviamo qui ad un punto cruciale del film, sul quale si è lungamente (forse anche troppo), dibattuto: la feroce ed impietosa critica al consumismo americano. La chiave sta in un dialogo tra i quattro personaggi, che dall’ alto di una balconata osservano ciò che accade al di sotto di loro; Stephen afferma che gli zombies sono lì per dare la caccia a loro ma Peter interviene dicendo che non sono loro ciò che che cercano, bensì quel posto. Non ne conoscono il motivo, ma in qualche modo ricordano, ricordano che vogliono stare lì.
Era il 1978 e Romero aveva già profetizzato gli anni a venire; negli U.S.A, i centri commerciali ed il relativo consumismo sfrenato ad essi legato erano già una realtà, da noi lo sarebbero diventati in un futuro non troppo prossimo. E’ inevitabile dunque non provare un brivido davanti a parole come quelle, e non ripensare a questo film ogni volta che ci si reca in uno di questi “templi dello shopping” , davanti a persone che passano di fronte alle vetrine attraversandole con lo sguardo, camminando lente, quasi fossero lievemente lobotomizzate, divorando cibo e acquistando oggetti inutili spinti da un automatismo e non da una ricerca di piacere. Zombies, contagiati dal consumismo.
C’è una forte ed amara ironia nel contrasto tra l’ inutile opulenza che circonda i personaggi, e la morte che li attornia in ogni dove. Tutto è inutile (tranne il cibo e le armi), anche il denaro (per quanto lo prendano ugualmente, con uno scaramantico “non si sa mai”), in un mondo che si sta estiguendo, che è letteralmente divorato da cadaveri.

I quattro cercano di adattarsi alla loro prigionia, con momenti ludici nei quali, in particolare nel personaggio di Roger, emergono dei lati infantili, scorrazzando in modo sfrenato per i reparti, giocando (anche in modo macabro, sparando sugli zombies come in un videogame) , concedendosi cene “di lusso” oppure restando per ore in un salone di bellezza. Tutto ciò appare tristemente inutile ma rappresenta un voler ritrovare una normalità che non c’è più, ed è anche occasione, per Romero, di presentarci in modo completo i protagonisti.
Fran è l’ unica donna, e soffre dell’ atteggiamento protettivo dei tre uomini: anche lei vuole essere parte attiva, ed entrare in campo a combattere. Insiste nel voler imparare a pilotare l’ elicottero poiché è realista, Stephen potrebbe non esserci più, da un giorno all’ altro. Quando scopre di essere incinta, non vuole essere trattata come se fosse un ‘invalida; la sua gravidanza è ovviamente significativa, non solo nell’ essere speranza di una nuova vita in un mondo allo sfascio ma anche nel rischio che essa comporta in una situazione simile.
Fu proprio l’ attrice Gaylen Ross a voler dare un’ impronta forte al proprio ruolo; quando Romero le chiese di urlare durante una scena, lei rifiutò fermamente, in quanto avrebbe indebolito il personaggio, e il regista non osò più avanzare tale richiesta.

Stephen è il più chiuso, quello che più lentamente si amalgama nel gruppo. Anche lui, come vedremo, riserverà delle sorprese.

Roger è la testa calda, colui che incautamente sfida gli zombies, il tipico uomo che si sente indistruttibile: pagherà caro il prezzo dei suoi atteggiamenti da supereroe.

Peter può essere considerato, insieme a Fran, il personaggio principale: intelligente e riflessivo, non a caso le frasi più importanti pronunciate nel film vengono riservate a lui. La celeberrima “Quando non ci sarà più posto all’ Inferno, i morti cammineranno sulla Terra” è detta proprio da Peter, parlando del nonno, prete a Trinidad, che durante la sua infanzia gli raccontava delle pratiche voodoo. Dunque, si fa solo un brevissimo accenno a uno dei leit motifs delle pellicole di prima generazione (i già citati film di Halperin e Tourneur), che legavano il morto vivente alla tradizione in particolar modo Haitiana, spesso ambientando le storie proprio in quei luoghi, in modo da creare una sorta di rassicurante distanza tra il “nostro” mondo e civiltà a noi non vicine.
“Dawn Of The Dead” è sotteso da una notevole vena ironica, riscontrabile in diversi punti: si gioca molto per contrasti, ad esempio nell’ accompagnare scene cruente con le risibili musichette da centro commerciale, trovata che accentua la ferocia di ciò che abbiamo di fronte piuttosto che stemperarla ma comunque riuscendo, al tempo stesso, a sdrammatizzarla ad arte. Era chiaro intento di Romero dare un tono più fumettistico a questo film rispetto al precedente “Night Of The Living Dead”, ben più realistico e terrificante; l’ uso di sangue finto dalle tonalità fluorescenti, cosa di cui Tom Savini era assai insoddisfatto, fu invece ben visto dal regista, poiché accentuava  l’ aspetto visivo da comic book che era esattamento ciò che voleva conferire all’ opera.
L’ isolamento dei quattro protagonisti viene interrotto dall’ irruzione di una gang di bikers razziatori, tra i quali troviamo proprio Savini, che indossano elmetti da nazisti e si comportano in modo assolutamente idiota nonché a dir poco anti-strategico verso i morti viventi: le sequenze sono inizialmente sottolineate da musiche fortemente ironiche (“Arrivano I Nostri”), e si sconfina nel grottesco quando i teppisti lanciano delle torte in faccia agli zombies (immancabile lo score delle comiche anni ’20); grottesco, ma mai ridicolo, poiché Romero riesce sempre a tenere perfettamente in equilibrio i registri.
Interessante la reazione di Stephen, fortemente “territoriale”: “questo posto è nostro, l’ abbiamo preso noi, è nostro”, e la sua rabbia è tale da superare la cautela e spingerlo ad uscire allo scoperto. Ora gli invasori più pericolosi, i veri nemici da cui guardarsi non sono i morti viventi, bensì altri umani; la lotta per la sopravvivenza fa emergere gli istinti primordiali dell’ uomo, che in situazioni ordinarie resterebbero sepolti. Si ritorna dunque ad una sorta di primitiva guerra tribale per il possesso di un luogo, e non è un caso che questo tipo di pulsione arrivi dal personaggio fino a quel momento più razionale e meno incline a comportamenti irruenti: è la dimostrazione di come il raziocinio crolli in situazioni estreme.

Il film si conclude  lasciandoci in un primo tempo spiazzati , per poi tenere acceso un barlume di speranza, ma con un senso di indeterminatezza; dunque, è ben lungi dall’ essere consolatorio. E’ sopravvivenza che potrebbe durare lo spazio di pochi minuti così come di lunghi mesi, o anni, non ci è dato saperlo: anche in questo sta la sua forza, nel dubbio in cui lascia lo spettatore, che si trova di fronte ad una conclusione non negativa ma sempre vista nell’ ottica di un mondo in cui gli umani si contano sulle dita di una mano e dove la minaccia incombe senza possibilità di tregua.
In quest’ Apocalisse, la Morte non è la fine dunque non dà pace: il semplice morso da parte di uno zombie porta inesorabilmente al contagio, alla trasformazione, che avviene nell’ arco di alcune ore ed è preceduta da un’ agonia, durante la quale si è consapevoli di ciò che si diventerà: cadaveri che camminano incessantemente, in cerca di carne umana, spinti solo dall’ istinto, e non dalla ragione, esseri che di umano non hanno più nulla. L’ Uomo non vuole diventare così, rifiuta quella condizione, preferendo una morte immediata ed indolore.
Esiste un finale alternativo della pellicola, una chiusa assai più cupa e pessimistica, sebbene vi siano state parecchie controversie in merito nel corso degli anni: alcuni componenti della crew, tra cui Tom Savini, hanno sempre sostenuto che tali scene fossero effettivamente state girate, mentre Romero ha spesso asserito il contrario. Nel documentario “Document Of The Dead”, realizzato durante le riprese del film ed edito su alcune versioni del dvd, il regista ammette di aver effettuato lo shooting della sequenza alternativa ma di non averlo mai completato; dunque, questo finale non è visibile in nessun formato.

Il budget di “Dawn Of The Dead” fu, ufficialmente, di un milione e mezzo di dollari. In realtà, la cifra si è rivelata essere assai più bassa, ossia 500.000 dollari, e venne “gonfiata” per i compratori stranieri, questo per ammissione del produttore Richard P. Rubinstein nel commento audio contenuto in uno dei dischi della “Ultimate Edition” edita dalla Anchor Bay.
La necessità di risparmiare portò a coinvolgere amici e parenti come comparse, e a non poter ingaggiare stuntman professionisti oltre a quelli impiegati nelle scene automobilistiche: dunque, il  “jolly” Tom Savini ed il suo assistente Taso N. Stavrakis si improvvisarono stunts, con risultati non sempre impeccabili.
Inoltre, nelle scene in esterni in cui vediamo soldati, cacciatori e squadre di emergenza sparare contro gli zombies, furono impiegati membri della Guardia Nazionale, delle forze dell’ ordine e cacciatori del luogo che si prestarono volontariamente e senza compenso.

Dal punto di vista tecnico, fondamentale è il ruolo degli special fx del grande make up artist: effetti spesso improvvisati sul momento, viste le difficoltà economiche appena menzionate. I volti degli zombies risultano bluastri poiché l’ artista scelse il grigio, ossia la medesima tonalità impiegata per “Night Of The Living Dead” (che essendo in bianco e nero ovviamente non presentava problemi di colore), e Savini in seguito riconobbe di aver commesso un grosso errore. Tuttavia, il lavoro non si concentrò tanto sulla zona facciale bensì su quelle corporee e sugli effetti splatter e gruesome: le scene di morsi, dettagliate e riprese da vicino, sono estremamente realistiche e raccapriccianti. Il divorare, da parte degli zombies, è un macabro banchettare cannibalico che spinge lo spettatore a coprirsi gli occhi per non guardare. Dunque, ciò entra in conflitto con l’ aspetto ironico e fumettistico dell’ opera, poiché le scene splatter provocano una reale repulsione e sono magnificamente efficaci. Poco importa se il sangue è palesemente finto: vedere un essere antropomorfo che stacca brandelli di carne dal corpo di un umano provoca in noi un senso di vero orrore, così come proviamo disgusto nel vedere gli zombies banchettare con budella, nonostante la consapevolezza che non siano umane bensì prese dal macellaio dietro l’ angolo. In quel momento però, il film ci assorbe completamente, la magia dello schermo ci tira dentro e la maestria di Savini completa perfettamente il compito.
Ecco perché ora ci si indigna per il CGI: artisti come questi non stanno più avendo lo spazio che meritano, messi in un angolo da effetti asettici elaborati al computer e finti come i Rolex delle bancarelle. Nostalgia retorica? Può darsi, ma questo era il cinema horror che aveva un valore.
Ovviamente, c’è anche l’ altro lato della medaglia: il trucco richiedeva circa tre ore di lavoro, e molte comparse si sentirono male per via delle sostanze utilizzate. Furono impiegati dei veri mutilati per interpretare alcuni zombies, uno è particolarmente visibile in una delle scene nel condominio.

Inutile dire che la censura non tacque davanti ad un film come questo: l’ MPAA tentò di imporre il rating “X” alla pellicola in caso non fossero stati effettuati dei tagli, limite censorio usualmente riservato ai film pornografici e che corrisponde al nostro “vietato ai minori di 18 anni”: Romero si oppose categoricamente sia alle sforbiciate che all “X rating”, questo a causa della sua personale avversione verso il genere a luci rosse. Riuscì a convincere i distributori a non attribuire divieti al film, inserendo tuttavia nei trailers e nelle comunicazioni pubblicitarie dei disclaimers che preannunciavano la non ammissione in sala per gli spettatori al di sotto dei 17 anni di età, a causa dei contenuti particolamente violenti.

“Dawn Of The Dead” è considerato, a pieno merito, uno dei capolavori horror della storia del cinema, e forse il più bello tra gli horror contemporanei: dopo lo stupefacente esordio con “Night Of The Living Dead”, vero spartiacque nella scena orrorifica, Romero realizzò un film ancora più potente, esaltante, dai sottotesti forti e variegati ma soprattutto, capostipite di un genere, lo zombie-movie (seppur già nato col film precedente), che ha visto negli anni innumerevoli imitazioni, nessuna delle quali è mai ovviamente riuscita ad arrivare ai vertici non solo di questa pellicola, ma dell’ intera trilogia. George A. Romero ha legato il suo nome ai morti viventi, sia in positivo che, talvolta, in negativo, poiché non si affrancherà mai dai suoi cadaveri antropofagi: ma i suoi zombies, sono quelli veri, che resteranno per sempre nel nostro immaginario col loro passo lento e la loro fame insaziabile. Lunga vita al Maestro dunque, e ai suoi Morti divoratori di vita.

Chiara Pani 
(araknex@email.it)


Zombi
Titolo Originale: Dawn Of The Dead
Italia/Usa - 1978
Regia: George A. Romero











giovedì 5 gennaio 2012

Per le "Grandi Saghe" di Horror.it : Venerdì 13 (1980)


pubblicata su Horror.it:

http://www.horror.it/a/2012/01/venerdi-13-1980/



Venerdì 13  (1980)

Film a suo modo atipico, nel filone degli slasher movies, questo primo capitolo della lunga saga di Venerdì 13, firmato da Sean S. Cunningham, già produttore del cult “L’ Ultima Casa a Sinistra” (1972), di Wes Craven. Atipico, poiché segna la nascita di un “nuovo mostro”, senza mai mostrarlo. L’ icona Jason Voorhees, infatti, si manifesterà, così come noi la conosciamo, monolitica nella sua maschera da hockey, solo dal secondo film, il sequel  “Venerdì 13: L’ Assassino Ti Siede Accanto” (1981), per la regia di Steve Miner (qui nelle vesti di produttore associato) . Il primo capitolo narra la storia, l’antefatto, getta le basi per quella che diventerà una delle saghe più lunghe, e discontinue, della cinematografia orrorifica odierna. Pellicola dunque, assai più complessa di quel che possa sembrare a primo acchito, che acquista fascino se rivista dopo anni, e dopo gli innumerevoli e spesso inutili sequel; in realtà, la lunga serie non era nei progetti dei produttori della pellicola: Jason doveva solo essere una sorta di elemento accessorio nella trama, la motivazione a monte degli omicidi compiuti dalla madre, la folle Mrs. Voorhees.
Come molte pellicole dell’ epoca, venne girato in tempi brevissimi, 28 giorni, e con un budget basso, 550.000 dollari, registrando poi vertiginosi incassi al botteghino.
Il film segue dichiaratamente la scia del successo di “Halloween” di John Carpenter, per ammissione dello sceneggiatore Victor Miller: oltre che proseguire nell’ ottica slasher inaugurata dal capolavoro Carpenteriano, anche qui ritroviamo la soggettiva dell’ assassino, dunque la messa in moto del processo di identificazione da parte dello spettatore, in maniera meno raffinata rispetto al suo predecessore, ma in ogni caso efficace.
Gli effetti speciali sono opera del grande Tom Savini, chiamato dai produttori entusiasmati dal suo lavoro in “Dawn Of The Dead” di Romero: anche qui l’ artista dell‘ effetto gruesome non si smentisce, rendendo le uccisioni credibili, senza eccedere nello splatter.
Gli attori sono per lo più sconosciuti al grande pubblico, ad eccezione di Kevin Bacon, qui in una delle sue primissime pellicole: spontaneo il paragone con l’esordio di Johnny Depp in Nightmare, altra star lanciata da un horror low budget.
Il plot è semplice, nel suo seguire le linee guida di molti horror tradizionali ma al tempo stesso ridettandole: moltissimi slasher successivi infatti, si ispirano dichiaratamente a questo film, sia nell’ impianto narrativo che nelle ambientazioni; un capostipite dunque, spesso ingiustamente sottovalutato.
Il film è ambientato in un campeggio, l’ ormai famigerato Camp Crystal Lake (che nel doppiaggio  italiano diventa l’ improbabile “Campo Lago Cristallo”, spingendoci a chiederci perché gli adattatori dei dialoghi non riescano a cogliere il semplicissimo concetto di lasciare i nomi propri delle cose così come sono), e si apre con un flashback che ci riporta al 1958, con l’ uccisione di due ragazzi ospiti del campo. L’antefatto suggerisce ma non svela, gettando un’ aura macabra sul luogo, visto come maledetto e “jellato” dagli abitanti del paese vicino; la riapertura del campeggio, ad opera di  Steve Christy (Peter Brouwer) , è considerata un’ impresa folle e scellerata.
La lunga serie di uccisioni inizia quasi subito, a partire dalla ragazza che si sta recando a Crystal Lake per lavorare come cuoca (la stessa mansione ricoperta, anni prima, dalla Signora Voorhees), e passando in rassegna, uno alla volta, come in una macabra parata, gli ospiti del Camp, un gruppo di ragazzi anch’ essi andati lì per lavorare, poiché la struttura ancora non è stata inaugurata.
La tensione è alta, merito anche di una buona regia e di una sceneggiatura comunque efficace nella sua semplicità: il largo uso della soggettiva del killer ci mostra le vittime perennemente osservate, rendendo assai bene il senso di minaccia incombente, di presagio sinistro. Gli omicidi sono ripresi in modo originale (si pensi a quello del personaggio di Kevin Bacon, infilzato da sotto il letto, a suggerirci che l’assassino si trovava lì da chissà quanto tempo), e a volte con grande tecnica: l’ uccisione della ragazza in bagno, proprio nel momento in cui pensa che la sua paura sia solo autosuggestione, omicidio preannunciato dall’ ombra dell’ ascia alle sue spalle, e reso in maniera eccellente dal montaggio che alterna la messa in campo della morte all’ inquadratura del lampadario ciondolante, come ad illudere lo spettatore che nulla verrà mostrato, ma è illusione breve, poiché l’immagine dell’ ascia conficcata in pieno volto  si staglia rapida ed impietosa sullo schermo.
Ci sono i pattern tipici dell’ horror, ad esempio nella figura del pazzo del paese, Ralph, che si presenta al campeggio annunciando sciagure e morte certa, ed ovviamente non viene ascoltato. L’ uccisione dei protagonisti è spesso immediatamente successiva all’ atto sessuale, anche questo stereotipo della maggioranza delle produzioni horror degli anni ’80: come già detto in altre occasioni, sarebbe inutile e noioso perdersi in disquisizioni teoriche sull’ argomento. Va detto però che in questo caso il concetto è funzionale alla storia, poiché lo ritroviamo, a fine film, nelle parole della stessa signora Voorhees :”si erano distratti dalla sorveglianza perché stavano facendo l’ amore mentre quel povero bambino annegava”.
Proprio nel finale troviamo il nodo principale del plot, la spiegazione di ciò che è accaduto, non solo lo svelarsi dell’ identità del killer e le sue motivazioni ma anche un accenno a ciò che è avvenuto prima, e che segnerà lo svolgersi dei successivi capitoli della serie. Si getta dunque il seme per l’ intera saga, qui ancora più marcatamente rispetto alle altre produzioni seriali, poiché il protagonista non è ancora fisicamente presente bensì, come già detto, rappresenta soltanto un pretesto narrativo che acquisterà forma e forza nei film successivi. Ma è un pretesto fondamentale: Mrs Voorhees (interpretata da Betsy Palmer) è folle per la perdita del figlio, avvenuta nel 1958, anno dell’ antefatto mostrato a inizio film. Dalle sue parole, apprendiamo che Jason è annegato nel lago, poiché nessuno sorvegliava a dovere: la rabbia, il dolore, l’hanno resa ciò che è. Alcuni nodi fondamentali  ancora non ci vengono svelati, ed in questo il secondo capitolo può essere visto come necessario, per dare completezza alla storia (così come è avvenuto in “Halloween”: apprendiamo del legame parentale tra Laurie e Myers solo nel secondo film, e ciò spiega molto di ciò che nel primo era rimasto insoluto): elementi importanti come la macabra dinamica della morte di Jason e la sua condizione mentale restano per ora nascosti.
Questo importante sottotesto va molto al di là del prototipo slasher e di ciò che il povero Jason è diventato nei film successivi, ossia un personaggio ai limiti del ridicolo, che si limita ad ammazzare a colpi di machete, senza una spiegazione, spesso senza una trama degna di questo nome. Il seme della storia era dunque importante e assai ben congegnato: come troppo spesso accade nelle saghe filmiche, il tutto si è perso, rendendo Jason icona del genere anche nel senso negativo del termine, sterile prototipo del killer in maschera che agisce per vendetta in film che si basano solo sul bodycount, dunque sulla quantità di cadaveri accumulati nel corso della narrazione.
Il finale è inquietante (tra l’altro frutto di un’ idea di Tom Savini), non è smaccatamente aperto ma comunque non chiude definitivamente la storia. E’, a suo modo, ambiguo.
Importante la figura di Alice (una brava Adrienne King), unica sopravvissuta al massacro e anche lei, come la Laurie di Halloween e la Nancy di Nightmare, coraggiosa e giovane eroina che rappresenta la forza del Femminile, qui in lotta non contro un minaccioso Maschile bensì con l’altra faccia della stessa forza, ossia un Femminile deviato e reso folle dal desiderio di vendetta. Uno spunto assai interessante, purtroppo poco sviluppato.
Bellissimo e disturbante lo score musicale, ad opera di Harry Manfredini: un minimale vocalizzo con un effetto delay, che viene percepito come “chi chi chi, ha ha ha”, ma che in realtà, stando alle parole dello stesso compositore, suona come “ki ki ki, ma ma ma”, in richiamo al tormentone sonoro che sentiamo a fine film per bocca della Signora Voorhees, in originale “Kill kill kill, mom mom mom”, ossia quell’ inquietante “Uccidila mamma uccidila!” che la donna recita in falsetto, come se le parole del figlio morto uscissero dalle sue labbra.
Un film dunque importante, più di quanto comunemente si pensi; la percezione della pellicola da parte dello spettatore cambia con gli anni: visto in età adolescenziale molti significati non vengono colti, la visione in età adulta lo valorizza, e permette di comprenderlo in maniera più completa ed articolata. Un ottimo inizio successivamente svilito da un numero impressionante di seguiti (attualmente,la saga conta ben 10 film, più il divertente spin-off  “Freddy Vs Jason” ed il debolissimo remake del primo film, realizzato nel 2009 dall’ “operaio specializzato in rifacimenti” Marcus Nispel), che ancora una volta hanno spremuto il personaggio fino all’ osso, collocandolo nelle situazioni più improbabili, dall’ Inferno allo spazio. L’ ennesima lezione sull’ inutilità di collezionare sequel col solo fine di fare un po’ di bottino al box office, lezione che ovviamente non viene mai seguita a dovere. Perseverare, si sa, non è umano.

Chiara Pani
(araknex@email.it)



Titolo Originale: Friday The 13th  
USA - 1980
Regia: Sean S. Cunningham