lunedì 28 gennaio 2013

Il mio articolo su "Il Buio Si Avvicina" (1987) per Positifcinema


per lo speciale C(o)unt to Zero Dark Thirty di Positifcinema, dedicato a Kathryn Bigelow, il mio articolo sullo splendido Near Dark  (Il Buio Si Avvicina)

pubblicato su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/count-to-zero-dark-thirty-il-buio-si-avvicina-di-kathryn-bigelow 










Il Buio Si Avvicina (Near Dark) (1987)


La Carne e il Sangue


Il Buio Si Avvicina (Near Dark) è film fondamentale, sia nella carriera di Kathryn Bigelow che nella rappresentazione cinematografica dell’ormai esasperatamente sfruttata figura del Vampiro; la pellicola è, in primis, il primo lungometraggio diretto unicamente dalla regista (il precedente The Loveless, del 1982, l’aveva vista collaborare a quattro mani con Monty Montgomery): fu una vera sfida per la Bigelow, alla quale il produttore Edward S. Feldman diede cinque giorni di tempo per dimostrare di essere in grado di portare avanti il lavoro, altrimenti sarebbe stata sostituita. 

Inutile dire che la scarsa fiducia di Feldman subì un meritato smacco, poiché Near Dark non solo rappresenta una punta altissima nella filmografia della cineasta californiana, bensì ha segnato un punto di svolta all’interno della ciclopica mole di opere riguardanti le creature della notte. Sceneggiato dalla stessa Bigelow insieme ad Eric Red, già regista ed autore dello script di The Hitcher, il quale riporta l’orrore on the road anche in questo contesto, il film era inizialmente nato in quanto western, per poi aggiungervi la tematica vampiresca al fine di renderlo più appetibile per il pubblico; gli anni ’80, infatti, videro un riflusso del cinema dei succhiasangue, a partire da Ragazzi Perduti, di Joel Schumacher, anch’esso del 1987, simile nelle linee guida del plot ma sostanzialmente opposto nel risultato finale: se The Lost Boys conservava una patina modaiola, sfruttando vecchi cliché tra cui quello dei vampiri belli e dannati, il film della Bigelow va ben oltre, slegandosi completamente da strutture pre-esistenti e re-inventando il non-morto, partendo però dalla sua origine primaria, ossia il Dracula di Bram Stoker

E’ proprio da lì, infatti, che proviene l’idea, fino a quel momento assai poco sfruttata, della reversibilità del contagio vampirico (drenare completamente il sangue della vittima per poi eseguire una trasfusione di plasma sano), che qui diventa centrale, determinando così la scelta di Caleb (Adrian Pasdar) nell’ abbandonare la sua nuova condizione per tornare umano, nonostante il sentimento che ormai lo lega a Mae (Jenny Wright), colei che l’ha trasformato, con un bacio che è divenuto un morso. La diversità di “specie” non è un ostacolo, lo stereotipo del vampiro che non può amare poiché privo dell’anima è qui demolito insieme a tutti gli altri residui del vecchio immaginario: l’Amore è pulsante, presente anche e soprattutto in quanto carnalità (per usare le parole della regista, una “sessualizzazione della violenza”), non soltanto in Mae e Caleb ma in ogni componente del clan/famiglia di vampiri-nomadi che dà vita alla storia: il patriarca Jesse (perfetto Lance Henriksen) e la sua compagna Diamondback (Jennette Goldstein), il sensuale e violento Severen (uno dei personaggi più riusciti, insieme a Jesse, interpretato magnificamente da Bill Paxton), che rappresenta il puro istinto senza freni, e Homer (Joshua Miller), adulto intrappolato per sempre nel corpo di un ragazzino, le cui pulsioni premono per esplodere.

Il clan è al tempo stesso famiglia e gang, ostile verso Caleb in quanto non vi è la certezza che sia già diventato uno di loro, e soprattutto pienamente appagato dalla propria condizione: la scena del bar è esemplare in tal senso, nel contrapporre l’autocompiacimento dell’essere vampiri, dell’uccidere, del giocare con le vittime che  caratterizza il resto del gruppo (Severen in particolare) al conflitto interiore di Caleb, il rifiuto verso ciò che sta diventando (tormento simile a quello del Louis di Intervista col Vampiro, che, insieme al Dracula di Stoker, all’epoca delle riprese era l’unico romanzo sul tema letto dalla Bigelow): questo contribuisce a rendere il personaggio del giovane “umano” assai meno attraente, quasi pedante e noioso, mentre non si può non essere irresistibilmente affascinati dai magnetici e seducenti villains proprio in ragione del loro essere tali.

La caduta degli stereotipi: qui i vampiri non hanno canini aguzzi, non si trasformano assumendo fattezze mostruose, non temono aglio o acqua santa e, quel che è più importante, la parola vampiro non viene mai pronunciata per tutta la durata della narrazione. Si parla di malattia, di paura per ciò che si sta diventando, ma per quanto possa essere palese cosa siano i personaggi del film, non si traccia la netta linea di confine verbalizzando ciò che marca la differenza. C’è un perenne senso di indeterminatezza e di incertezza, ma soprattutto si evidenzia la vulnerabilità dei protagonisti: Near Dark, come già si diceva, è fondamentalmente un western, con tutti i tòpoi del genere, dal duello fino alle colt passando per l’ambientazione in un’Arizona bruciata dal sole, dunque il luogo meno adatto per coloro che bruciano non appena vengono avvolti dalla luce. Questo li rende nomadi, perpetuamente in fuga, schermando i vetri dell’auto nel momenti in cui la temuta palla infuocata compare in cielo: proprio in questo senso, assumono l’aspetto di fuorilegge on the run. Lo scorrere dei giorni è visivamente scandito da inquadrature dell’alba, che compaiono sullo schermo come minacciosi moniti. Potentissimi, eppure fragili nel loro unico punto debole.

Il sottofinale è un susseguirsi di esplosioni, che corrispondono alla deflagrazione della carica emotiva del racconto, per poi quietarsi nella parte conclusiva, sostanzialmente positiva ma sempre sottesa da quel senso di incertezza e dubbio che permeano l’intero narrato.

Lo score, firmato dai Tangerine Dream, accompagna le immagini in maniera suggestiva ed empatica, passando dalla pacatezza ipnotica ad un ritmo ossessivo e convulsivo per le scene più cruente. La sequenza nel bar è graziata dalla magnifica cover di Fever, di Elvis Presley, ad opera degli immensi Cramps, scelta quanto mai azzeccata per quello che è uno dei momenti in assoluto più notevoli e incisivi del film. Da ricordare anche la splendida sparatoria tra la gang asserragliata nel motel e i poliziotti all’esterno, nella quale ogni foro di proiettile nel muro ferisce non per il piombo, ma per la luce che fa trapelare: gli echi del Mucchio Selvaggio di Peckinpah sono presenti, memoria storica fulgida, altissima e non sradicabile.

Near Dark è dunque un film-impronta nell’ormai consolidata carriera della Bigelow, regista che si è appropriata di un genere da sempre considerato patrimonio maschile, l’action,  sfaccettandolo con ritratti umani (o non-umani, come in questo caso) difficili da dimenticare, pellicola che, al tempo stesso, ha rivoltato come un calzino i luoghi comuni sui vampiri spogliandoli dalle polverose vesti di dandy gentiluomini, togliendo loro ogni leziosità manieristica, e rendendoli mai come ora così vicini agli umani.
  
Chiara Pani
(araknex@email.it)



Titolo originale: Near Dark
USA - 1987
Regia: Kathryn Bigelow


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martedì 22 gennaio 2013

La mia recensione di "Django Unchained" (2012) per Positifcinema


pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/django-unchained-di-quentin-tarantino









Django Unchained (2012)



La D, è muta






Django Unchained, ultima, attesissima fatica filmica di Quentin Tarantino, è stata preceduta dal solito vespaio di critiche, smisurati entusiasmi anticipatori, stroncature che vorrebbero essere profetiche, in poche parole l’usuale ciarpame da cortile che fa da preambolo ad ogni pellicola del cineasta italo-americano. Sono pochi i registi che suscitano reazioni così diametralmente opposte, dalla passione totalizzante all’odio senza compromessi, non soltanto tra il pubblico ma anche nel milieu della critica, creando ovviamente una crepa in quella dose di obbiettività che chi scrive di cinema dovrebbe possedere. Lasciando da parte i chiacchiericci fastidiosi e sostanzialmente inutili, si comincerà col dire che Django Unchained è un film che non delude. Nei suoi 165 minuti di durata, che trascorrono agevolmente, non manca qualche inevitabile caduta, ma la pellicola riesce a volare alto, regalando anche impennate non indifferenti.

Il Django di Sergio Corbucci, atipico spaghetti western del 1966 interpretato da Franco Nero (qui presente in un cameo auto-citazionista: alla battuta “La D, è muta”, riferita all’iniziale del nome, risponde con un laconico “Lo so”) è mero spunto di partenza per un’opera che imbocca una strada autoctona, divenendo anarchica e goduriosamente schizofrenica, assumendo così la medesima valenza che Quel Maledetto Treno Blindato di Castellari (titolo internazionale:The Inglorious Bastards) aveva per il precedente Bastardi Senza Gloria (Inglorious Basterds): un tributo che è espresso a chiare lettere nel titolo, senza mezzi termini, per poi aleggiare sul film come uno spettro, senza rendersi troppo palpabile. In Django Unchained  si ritrovano, in quanto caratteristiche in comune con la pellicola nostrana, oltre al sottotesto antirazzista che qui è palesato fino a diventare uno dei cardini, la tematica del sentimento amoroso come motore della vendetta, benchè sia declinato in modi diversi: il Django di Franco Nero era ormai inaridito dopo l’uccisione della moglie da parte dei sudisti, mentre il personaggio interpretato da Jamie Foxx desidera, più di ogni altra cosa, di ricongiungersi con la sua Broomhilda (Kerry Washington). Al tempo stesso, l’anelito di vendicarsi è bruciante:fondamentale, dunque, l’incontro col Dottor King Schultz (un superlativo Christoph Waltz), dentista tedesco divenuto cacciatore di taglie, che compra lo schiavo Django rendendolo libero poiché egli è in grado di identificare l’aspetto dei Brittle Brothers, sulle cui teste pende una sostanziosa ricompensa e con i quali anche il protagonista ha un pesante conto in sospeso.

Il personaggio di Schultz è forse il più importante del film, insieme a quello di Calvin Candie (un Leonardo DiCaprio semplicemente perfetto per la parte), su cui si tornerà più avanti: speculare ed opposto all’ Hans Landa di Bastardi Senza Gloria, assai simile nella levità dei modi, nell’incarnare l’astuzia intellettuale mitteleuropea, qui contrapposta alla grossolanità degli schiavisti del Sud degli Stati Uniti, è solo apparentemente personaggio positivo a tutto tondo; in un certo qual modo egli usa Django pur essendone il mentore, “lo sporca”, per usare le parole dello stesso ex-schiavo. Ma più di ogni altra cosa Schultz, attraverso di lui, compie virtualmente un eccezionale gesto: la leggenda teutonica di Sigfrido e Brunilde (da qui Broomhilda, moglie di Django), che l’uomo narra al suo compagno di viaggio, rappresenta ciò che il dottore vorrebbe essere, ossia un eroe, mentre Django è nel mezzo della quest che lo renderà tale. Tarantino sbeffeggia nuovamente la Storia, prendendo a calci le assurdità ariane ed identificando Sigfrido con un uomo di colore.     

Broomhilda si trova in condizione di schiavitù a Candie Land, la proprietà di Calvin Candie, schiavista spietato che organizza combattimenti tra mandingo. In questa seconda parte del film si assiste ad un decollo decisivo, entrando nella dimensione più congeniale a Tarantino, ossia quella degli interni, confini entro i quali si svolge il gioco di dialoghi tra personaggi che è caratteristica fondamentale del suo cinema. Schultz e Django si fingono negrieri interessati ai combattimenti, dunque inscenano una recita, incarnano dei ruoli, il che rappresenta il climax di ciò che hanno fatto per l’intera durata della narrazione, poiché fin dall’inizio si sono presentati come “qualcun altro” per poter proseguire nella loro ricerca. Calvin Candie gioca in casa, ha dalla sua il fido Stephen (strepitoso Samuel Jackson), schiavo perfettamente integrato con i bianchi, la tensione sale e come in una pentola a pressione la deflagrazione è l’unico esito possibile.

Parlando delle pellicole tarantiniane si insiste spesso sugli aspetti visivi, ma è giusto ricordare che restano, fondamentalmente, film d’attori: anche in questo caso, le prove recitative sono in alcuni casi straordinarie, con un efficacissimo Jamie Foxx e molti camei d’eccezione (su tutti, Don Johnson, che pare preso di peso da un western di casa nostra).

Da un punto di vista squisitamente filmico, Tarantino punta più che mai sulla mescolanza, citando a piene mani dagli ambiti più disparati, dal cartoon alla blaxploitation (il personaggio di Foxx ne sarebbe perfetta icona), fino ai telefilm anni ’70 o a sceneggiati come Roots (Radici). Impossibile non notare alcuni tratti presenti in Sukyiaki Western Django dell’immenso Takashi Miike, del 2007, nel quale Tarantino compariva in un cameo: si rivedono i  colori violenti virati in giallo e verde dei flashback, ed alcune trovate visive, ad esempio i riferimenti in puro stile cartoon.       

Notevole la colonna sonora, che riprende il main theme cantato da Rocky Roberts per il film del 1966, ed aggiunge altri score classici nostrani (su tutti I giorni dell’Ira di Riz Ortolani, già presente in Kill Bill) , alternandoli a pezzi originali.

Django Unchained è sostanzialmente melting-pot di generi diversi, lungi dall’essere un western, bensì mescolanza eterogenea che diventa ibrido anarchico, non incasellabile e prepotentemente al di fuori di ogni schematismo. 

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Django Unchained
USA - 2012
Regia: Quentin Tarantino

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sabato 19 gennaio 2013

"Django: da Corbucci a Tarantino e l’urlo lisergico di Takashi Miike", il mio approfondimento sul personaggio per Point Blank

in occasione dell'uscita di Django Unchained, uno sguardo retrospettivo sul personaggio di Django, dal film di Corbucci passando per il grande Takashi Miike fino ad arrivare alla prospettiva tarantiniana. Come sempre, buona lettura :) 

pubblicato su Point Blank: 


http://www.pointblank.it/?p=28373










Django:  da Corbucci a Tarantino e l’urlo lisergico di Takashi Miike




Che il cinema di Quentin Tarantino possa piacere o meno, e che sul suo effettivo valore si sia ormai dibattuto fino alla nausea, è ormai un dato di fatto. Ma è altrettanto indubbio che uno degli innegabili pregi del cineasta statunitense sia stato quello di far scoprire al grande pubblico film misconosciuti oppure, come in questo caso, di cui si è sempre sentito parlare ma che molti non hanno mai visto. “Ha scoperto l’acqua calda” diranno i detrattori, “ha tolto il lenzuolo da pellicole pregevoli che han preso polvere troppo a lungo”, diremo noi. Alzino la mano coloro che già conoscevano e apprezzavano Quel Maledetto Treno Blindato di Castellari prima che Quentin ne mutuasse il titolo d’esportazione per il suo Inglorious Basterds, o che si scioglievano davanti a Pam Grier nel ruolo di Foxy Brown oltre due decenni prima del magnifico Jackie Brown; opere che gli amanti del cinema di genere conoscono a memoria, ma delle quali  l’audience di massa ignorava l’esistenza. 

Sdoganamento, revisionismo, noi preferiamo parlare di una serie di ottime scelte dettate da una fortissima passione personale. Ecco dunque arrivare finalmente in sala l’attesissimo Django Unchained , che dal film firmato da Sergio Corbucci nel 1966 trae ispirazione per le tematiche di fondo, oltre che per il nome del personaggio che campeggia come insegna-homage a ricordarci che tutto è partito da lì, da quell’atipico e cupo spaghetti western  con un Franco Nero al suo primo ruolo di rilievo che lo rende subito icona: il pistolero solitario, silenzioso, nerovestito che si porta appresso una bara, non può non entrare di diritto nell’immaginario collettivo cinefilo. Ritroviamo le sue tracce in una gothic band come i Fields Of The Nephilim, con i loro cappellacci a metà tra il cowboy ferale e il boogeyman, grandi amanti del cinema bis italiano, o nella figura di Undertaker, wrestler americano che alla fine del proprio show chiude in una cassa da morto i propri avversari sconfitti. La figura di Django ha avuto dunque un impatto più ampio di quanto si sia portati a pensare, creando un modello cinematografico seguito da una serie di epigoni dal valore discutibile. Il film di Corbucci, che vedeva un Ruggero Deodato pre-Cannibal Holocaust come aiuto regista, pur non rappresentando la punta massima del suo cinema, è una pellicola che riesce ad essere potente, con momenti feroci (la scena dell’orecchio mozzato che viene poi fatto mangiare alla vittima, citata in parte da Tarantino ne Le Iene), una buona carica eversiva (il sottotesto antirazzista ripreso in Django Unchained, l’eroe che salva la vita alla prostituta a inizio film, in un genere in cui le figure femminili non erano mai tenute in gran conto) ma soprattutto, una sostanziale disperazione, quella per l’amore perduto, la moglie uccisa dai sudisti e sepolta nel cimitero che farà da sfondo alla sequenza finale. Nella pellicola di Tarantino il Django interpretato da Jamie Foxx è uno schiavo reso libero dal Dottor Schultz (Cristoph Waltz), un dentista divenuto cacciatore di taglie, insieme al quale si mette in cerca dell’amata consorte, tenuta in schiavitù dal temibile Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).

L’amore ancora pulsante del Django tarantiniano e quello ormai cristallizzatosi in un’incapacità di dimenticare del personaggio di Corbucci (“Django, have you never loved again?” recitano le parole cantate da Rocky Roberts nel main theme del film del 1966)  è il filo rosso principale che unisce le due rappresentazioni, e che nella figura interpretata da Franco Nero diventa azzeramento di ciò che si era fino ad arrivare ad una morte simbolica: alla domanda “c’è qualcuno in quella bara?” la risposta è  “uno che si chiama Django”. Nella cassa da morto, in realtà, c’è l’arma del pistolero, ossia una mitragliatrice, altro elemento nuovo nel cinema western, sorta di oggetto magico che gli conferisce poteri quasi sovrannaturali rendendolo simile ad un supereroe dunque, figura non realistica nell’essere in grado di sterminare, da solo, orde di nemici. 

Elemento ricorrente nei western di Corbucci è il personaggio dell’eroe menomato, sordo oppure cieco: a fine film i messicani traditi si vendicano maciullando le mani al protagonista, privandolo dunque del suo potere principale, l’abilità di sparare. Nonostante ciò, nel memorabile finale, Django riesce a regolare il conto in sospeso con i sudisti, celandosi dietro la lapide della moglie, e scandendo una preghiera che sul “così sia” vede la morte del suo nemico giurato, il Maggiore Jackson. Leggenda vuole che il protagonista faccia fuoco con sette colpi di pistola, mentre un caricatore ne può contenere al massimo sei: l’ultima pallottola dunque, rappresenterebbe la vendetta da parte della donna defunta. 

Il film fu seguito da una serie di titoli dedicati al personaggio ma che poco o nulla avevano a che fare con l’originale: da Django il Bastardo (1969), di Sergio Garrone, fino a Django Sfida Sartana (1970), di William Redford, pseudonimo dietro il quale si celava Pasquale Squitieri. Bisogna attendere fino al 1987 per l’unico vero sequel, Django 2 – Il Grande Ritorno, firmato da Nello Rossati, col nome fittizio di Ted Archer. Co-prodotto da Reteitalia, mostra una matrice televisiva fin dai titoli di testa e si rivela assai deludente sotto ogni punto di vista, nonostante la presenza di Franco Nero, Christopher Connelly e del grande Donald Pleasence: Django si è ritirato in un monastero, assumendo il nome di Padre Ignazio e chiudendo definitivamente con il proprio passato. Marisol, una bambina che probabilmente è sua figlia, è stata rapita da un trafficante di schiavi, Orlowsky detto “Il Diavolo” (Connelly), destinata ad un  giro di prostituzione infantile; Django torna quindi in azione, per salvare Marisol e far trionfare la giustizia. Un polpettone che sa di soap-opera, con Nero ormai imbolsito e poco convincente, ed un intreccio inverosimile e noioso per un sequel assolutamente inutile.

Tra i due film italiani e la pellicola di Tarantino troviamo una quarta opera, che rivede e rielabora il Django originario attraverso la lente della cultura giapponese e, soprattutto, dal punto di vista di una mente geniale: Takashi Miike, che nel 2007 firma Sukiyaki Western Django, splendido melting-pot che chiude il cerchio, riportando lo spaghetti western alle sue radici, ossia il Giappone dei samurai. E’ quasi inutile ricordare che gli italici padri del genere, da Sergio Leone allo stesso Corbucci, presero ispirazione proprio dai film del Maestro Kurosawa, che hanno, d’altro canto, influenzato il western in generale nella sua struttura narrativa. Ritroviamo chiari echi di Per Un Pugno di Dollari  che a sua volta prese spunto da La Sfida dei Samurai di Kurosawa, ma  Sukiyaki Western Django è crossover totalizzante, che lega l’epopea del pistolero con la bara anche all’Enrico VI di Shakespeare e alla Guerra delle Due Rose, quella dei York e dei Lancaster, riflessa nella secolare faida tra le fazioni/gang (simili a guerrieri urbani) dei “rossi”, gli Heike, e dei “bianchi”, i Genji, che tengono sotto scacco un piccolo villaggio, in cui si celerebbe un favoloso tesoro ma sul quale grava una sinistra maledizione.
Il film è una sorta di prequel del Django del 1966, poiché ne narra in un certo qual modo la genesi, seppur sia presente anche qui la figura cardine del misterioso pistolero, il cui arrivo scatena una contesa tra le due bande per ottenerne i servigi.

La presenza nel cast di Quentin Tarantino, in un ruolo ridotto dal punto di vista dell’effettiva comparsa sullo schermo ma fondamentale nel plot, sugella ulteriormente la continuità tematica tra le pellicole in oggetto, apparendo profetica alla luce di Django Unchained, e sottolinea la mutua influenza tra i due registi, un palesare su pellicola la stima reciproca che intercorre tra loro. Come in Kill Bill si erano visti elementi del cinema di Miike, allo stesso modo in quest’opera ritroviamo alcune sequenze tarantiniane che si mescolano fluidamente alle innumerevoli altre influenze visive che contemplano il cartoon classico così come il manga, in una stilizzazione assoluta con scenografie palesemente finte, virate sul verde e sul giallo, in special modo nel prologo e nei flashback, colori violenti con la predominanza del rosso e del bianco, soluzioni visive e narrative del tutto spiazzanti, in un’accellerazione del ritmo che diventa puramente delirante. Omaggio fatto di molteplici citazioni, ma di fondo resta Miike allo stato puro, con un’ironia macabra e dissacrante, mutilazioni in inquadratura ravvicinata (qui maggiormente fumettistiche che in altre sue opere), il tutto alternato a momenti drammatici, lirici oppure brutali.    

L’anello di congiunzione perfetto, dunque, tra il film di Corbucci e Django Unchained, una pellicola simbolica nel saper legare tradizioni diversissime in un’ottica che diventa a tutti gli effetti lisergica, quindi rivoluzionaria nel suo rielaborare.
La rilettura innovativa, il destrutturare senza distruggere è la chiave di volta del cinema di Tarantino: con Django Unchained si va ancora oltre, prendendo la pellicola italica come semplice spunto di partenza, per imboccare una direzione assolutamente anarchica e multiforme. Dopo Inglorious Basterds, il regista affronta nuovamente un lato feroce della Storia, lo schiavismo, conservando dunque il sottotesto antirazzista del Django originario ed approfondendolo in maniera estrema, mutando il protagonista da eroe dallo sparo infallibile in schiavo affrancato alle prese con una quest lunga e travagliata, non a caso sovrapposta alla leggenda teutonica di Sigfrido e Brunilde. Tarantino ancora una volta gioca con i generi, con una maestria tale da rendere Django Unchained difficilmente classificabile, magnifico ibrido davanti al quale non resta che abbandonarsi alla potenza della visione.


Chiara Pani
(araknex@email.it)





 

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