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giovedì 19 maggio 2011

Vinyan [pubblicata:Maggio 2011]





Un nugolo di bollicine invade lo schermo e lentamente,si tingono di rosso:questo è l’incipit,cripticamente riassuntivo e profetico,di Vinyan,opera seconda del regista belga Fabrice Du Welz,già autore dell’interessante ed atipico Calvaire.Con questo film,presentato alla Mostra di Venezia nel 2008 in cui passò inosservato (oltre a non essere stato distribuito nelle sale),Du Welz riafferma ed espone in maniera più definita la sua cifra stilistica personale,e ormai già riconoscibile:l’orrore come ombra sempre incombente ma lasciata al di fuori dello schermo,accompagnato da una magnifica fotografia fredda,ancora una volta ad opera di Benoît Debie,che simboleggia il tormento delle anime livide dei suoi protagonisti.
Anche Vinyan narra di un calvario,quello di Jeanne e Paul (una sempre splendida e intensa Emmanuelle Béart e il bravo Rufus Sewell),coppia di coniugi afflitti dalla perdita del figlio,avvenuta durante lo Tsunami di sei mesi prima,perdita avvolta dal dubbio,poiché il cadavere non è mai stato ritrovato,dubbio che tormenta e che nutre vacillanti speranze.
A differenza di Calvaire,dove la totale assenza del Femminile costituiva il fulcro del film,qui esso divora la pellicola,in tutta la sua fisicità,incarnato da una Béart dolente,fantasma di se stessa,azzerata dalla forzata negazione di essere Madre.
L’evento scatenante ha luogo durante un viaggio a Phuket,in Thailandia:in un filmato girato in un villaggio birmano,Jeanne crede di riconoscere il figlio,nella figura di un bambino,ripreso di spalle.
La fissità del fotogramma,sgranato,di quel bambino che potrebbe essere chiunque,riflette la fissità dell’ossessione di Jeanne,la sua non rassegnazione a quella perdita che è stata anche e soprattutto perdita di una parte fondamentale di se stessa.
Inizia dunque il calvario,sotto forma del viaggio intrapreso dalla coppia verso la Birmania,dopo le ripetute insistenze della moglie e le resistenze del marito (figura antagonista e a tratti marginale,simbolo di una razionalità rappresentata come distacco emotivo);viaggio come inseguimento di una chimera,focalizzato sulla sorda speranza/disperazione di Jeanne.
Viaggio che diventa sempre più cupo,in una natura ostile e carnale,anch’essa femmineo che fagocita il film.Una pioggia perenne fa da sfondo alla pellicola,con l’acqua che rende i protagonisti madidi,acqua che non lava bensì fa diventare marcescenti e deboli,come nell’afflizione data da un forte dolore.
Nel corso di una suggestiva scena nella quale Jeanne assiste ad una festa locale su un’isola,con lampade di carta che vengono fatte librare nel cielo,ci viene svelato il significato del titolo del film:”vinyan” significa “arrabbiato,furioso”,e furiosi sono gli spiriti erranti che hanno incontrato una brutta morte;le lampade vengono lanciate in cielo dai vivi per guidarli,per dar loro un po’ di luce nell’oscurità del loro iracondo tormento.Queste,le parole di Thaksin Gao (Petch Osathanugrah),potente boss di Phuket al quale la coppia chiede aiuto all’inizio del viaggio per superare l’ostacolo della chiusura delle frontiere verso la Birmania.
Thaksin Gao è un personaggio ambiguo,chiede continuamente denaro alla coppia per proseguire il viaggio,presenta loro un bambino indigeno col volto dipinto di bianco e la stessa maglietta rossa indossata da Joshua,il figlio della coppia,al momento della scomparsa (e anche dal bambino del video), “ecco il bambino bianco che state cercando”;una beffa crudele,ma anche incredibilmente ingenua.Vinyan è la parola chiave del film:la rabbia di coloro morti di morte violenta,del dolore di Jeanne,ma anche e soprattutto quella di un paese più volte violato e ferito dall’Occidente.In questo senso,il personaggio di Thaksin Gao non è più negativo di una Jeanne o di un Paul che col loro denaro credono di comprare ciò che non si può,il lasciapassare per il raggiungimento di un’illusione.Lo sfruttamento tra la coppia e gli indigeni non è a senso unico e a sfavore della coppia come può sembrare a primo acchito bensì bilaterale e può simboleggiare una sorta di nemesi per tutto ciò che i “bianchi” hanno fatto a quelle terre.
L’aspetto di Jeanne muta nel corso del film,si trasfigura,diventando un unicum con la natura che la circonda,fino allo splendido finale,che esplode,anch’esso furente quindi “vinyan”,in tutta la sua forza.
Jeanne nel film è folle icona di disperazione,un’Adele H matura e madre che non vede e non vuole vedere la realtà,fino all’autoumiliazione (dolorosa la scena del riso),ma col cuore a suo modo puro nella sua ricerca.
Aleggiano le ombre di Fitzcarraldo e di Aguirre di Herzog,in alcune scene,nell’ambientazione,nel concetto di uomo che sfida la natura inseguendo un sogno folle ed impossibile,e nell’allucinatorio ed allucinato finale.
Film simile dunque al precedente Calvaire nel concetto di percorso,di discesa nella follia,di sostanziale solitudine umana.Opposto ad esso nella sua carnale femminilità,e più maturo nel suo discostarsi da certi clichè presenti nel film d’esordio,che ricalcava il pattern del survival horror,rileggendolo in chiave diversa e con un’ottica tipicamente europea.
Un film dunque da riscoprire,per assaporarne il gusto amaro e rabbioso,cercando,con la visione,di dargli una piccola luce.


Araknex/Chiara Pani

(araknex@email.it)








Francia/Belgio/Uk/Australia - 2008

Regia: Fabrice Du Welz






Calvaire (2004) [pubblicata:25 Novembre 2010]




Strano e controverso oggetto filmico questo Calvaire,primo lungometraggio del belga Fabrice Du Welz,costellato da critiche non solo discordanti,ma diametralmente opposte,tra chi grida al capolavoro e chi demolisce completamente il film.E’ questo forse,in nuce,il primo pregio della pellicola,suscitare reazioni,forti,in direzioni completamente diverse.Nel cinema odierno,in cui molte opere suscitano la più totale indifferenza,l’assenza di emozioni che è il peggiore dei mali,tutto questo è già molto.
Il canovaccio di sceneggiatura è all’apparenza semplice e ricalcato sulla maggioranza dei “survival horrors”,ma con significative variazioni che lo caratterizzano in maniera originale e lo plasmano su una tematica ben precisa:la solitudine.Vero leit-motiv del film.
Qu non c’è il solito gruppo di teenagers che si avventura turisticamente in luoghi sperduti per finire in pasto al “mostro” di turno.Marc Stevens (il bravo Laurent Lucas),è un cantante girovago,la cui casa è il suo furgone,che sfodera il suo repertorio di canzoni d’amore nelle occasioni più svariate.L’inizio del film,con l’esibizione in un ospizio alle soglie di una nevosa vigilia di Natale,getta già le basi tematiche dell’intera pellicola:la tristezza di fondo,la solitudine sia di Marc che delle persone attorno a lui,ma soprattutto la morbosità di costoro (l’anziana che tenta un triste approccio,l’infermiera che nasconde proprie foto osè nella busta con la paga di Marc),dipingendo fin dalle prime scene il protagonista come calamita dell’altrui debolezza e disperazione.
Lungo il viaggio verso la prossima meta,il furgone si guasta;compare l’inquietante Boris (Jean-Luc Couchard),un ritardato in cerca di Bella,la sua cagnetta persa nei boschi.Anche in questo caso si annuncia un’altra tematica di fondo del film,la perdita/assenza del femmineo,della Donna in quanto catalizzatore d’amore e simbolo di delicatezza in un villaggio abitato esclusivamente da individui di sesso maschile,caratterizzati in modo assolutamente triviale.
Boris conduce Marc alla locanda di Bartel,altro simbolo di solitudine (“nessuno viene più qui da anni,ma le camere sono in ordine”).Bartel (l’ottimo Jackie Berroyer),è personaggio grottesco e inizialmente burbero ma che si accende di un subitaneo ed eccessivo entusiasmo alla vista del furgone “da tour” di Marc:”Lei è un artista!Anch’io sono un artista.Un umorista.Ma da quando mia moglie Gloria mi ha lasciato,ho perso il mio umorismo”.Gloria,che era come Marc una cantante,personaggio presente nel film solo attraverso le parole di Bartel prima,e degli abitanti del villaggio poi,simbolo del Femminile perduto,che se ne è andato,causando dolore,rabbia e infine follia.
Marc,ansioso di ripartire,è suo malgrado costretto a fermarsi alla locanda,bersagliato dalle promesse di Bartel di riparargli il furgone il giorno successivo.
La follia si insinua,sempre più manifesta e meno sottile,nel frugare ossessivo di Bartel all’interno del furgone di Marc,nella scena di accoppiamento tra un uomo del villaggio e un maiale,a cui il protagonista assiste,inorridito,di nascosto,fino alla scena della cena (nella quale il regista ha voluto omaggiare nientemeno che Psycho),durante la quale,in seguito alle insistenze del locandiere,Marc intona uno dei suoi cavalli di battaglia,davanti all’estasiato Bartel:”Grazie per questo meraviglioso momento”.
Questa scena può essere definita uno spartiacque tra la prima parte del film,in cui la tensione è sottesa,e la seconda,dove esplode manifesta e violenta,il mattino successivo,al risveglio di Marc.Bartel è sparito.Nell’armadio della stanza di Marc ora ci sono abiti femminili.Piccoli segni che vanno in crescendo fino alla distruzione e incendio del furgone;la follia di Bartel è ora chiarissima e manifesta :mostrando la batteria a Marc,prima di colpirlo in testa:”è questa che cercavi?sei tornata per andartene di nuovo?”.Nella mente disturbata di Bartel,Marc ora E’ Gloria.
Il seguito del film è piuttosto prevedibile,con Marc ostaggio del folle,tentativo di fuga fallito,nulla manca al consueto pattern del survival horror.Con qualche eccezione che rende il film per alcuni aspetti originale.Bartel si reca all’osteria del paese,per annunciare il ritorno di Gloria e intimare agli ostili abitanti del villaggio di starle lontani.”E chi lo dice che è tua moglie?”,dice uno di loro (impersonato da Philippe Nahon,il memorabile “assassino” di Haute Tension).
Parte un’angosciante melodia al piano (unica musica del film,insieme allo score nei titoli di coda),due uomini ballano tra loro in modo grottesco,seguiti dagli altri.La scena è surreale,per molti versi ingenua,probabilmente anche un po’ inutile nel suo ribadire,per l’ennesima volta,come l’assenza del Femminile porti alla perdita del raziocinio.
Il finale è violento,con una forte e un po’ forzata citazione da Texas Chainsaw Massacre,ed enigmatico,poiché il film pare interrompersi bruscamente.
Film controverso:banale sotto alcuni punti di vista,originale per altri,troppo ingenuo nel suo grido di solitudine di un mondo senza donne diventato rozzo e folle,apparentemente forzato nell’identificazione Marc/Gloria da parte di Bartel,in realtà identificazione da parte dell’intero villaggio,con una donna che probabilmente non è mai nemmeno realmente esitita.A dire del regista,i personaggi del film sono soltanto due,Marc e Bartel,poiché gli “altri” sono solo variazioni di Bartel stesso.
Ul film dunque con molti difetti,ma anche innegabili pregi.Uno strano oggetto dunque,una sorta di gioco di specchi in cui lo spettatore può vedere cose diverse,e trarne diverse conclusioni.

Araknex/Chiara Pani
(araknex@email.it)


 

Belgio/Francia/Lussemburgo – 2004

Regia: Fabrice Du Welz





sabato 14 maggio 2011

Nuova recensione:Vinyan (2008)

dopo una certa latitanza,ecco la mia ultima recensione,"Vinyan",gioiellino del 2008 del belga Fabrice Du Welz

come sempre,pareri e commenti sono i benvenutissimi :)

nella sezione alfabetica dalla S alla Z ;)

giovedì 25 novembre 2010

Nuova recensione:Calvaire (2004)

Dopo un po' di stop,riprendono gli aggiornamenti :)
Ecco il mio personale punto di vista su Calvaire,nella sezione Nuove Recensioni (ora in sezione alfabetica)


Ogni commento è come sempre benvenuto :)