giovedì 9 agosto 2012

La mia recensione di "388 Arletta Avenue" (2011) per Positifcinema



pubblicata su Positifcinema:


 
388 Arletta Avenue (2011)


I See You


Il Cinema come seminale forma di voyeurismo, lo spettatore in quanto guardone socialmente accettato, e al tempo stesso protetto dal buio di una sala: su questo argomento, si sono spese pagine e pagine nel corso degli anni. Da La Finestra Sul Cortile a Peeping Tom il grande schermo ci ha donato decine di sguardi furtivi  attraverso buchi della serratura o tende accostate, occhi appartenenti a menti criminali oppure semplicemente curiose. Questo 388 Arletta Avenue, film canadese del 2011 che ha raccolto pareri critici diametralmente opposti, prodotto da Vincenzo Natali (già regista di Cube) e diretto da Randall Cole (Real Time, 2008), esaspera la figura del voyeur, rendendolo vero e proprio stalker, criminale/maniaco in senso stretto. 

Egli è onnipresente, nelle videocamere piazzate in ogni angolo della casa delle sue vittime, in auto, sul luogo di lavoro, dando così allo spettatore il suo punto di vista per tutta la durata della narrazione. La pellicola, da molti etichettata come found footage in modo erroneo e standardizzato, è girata interamente in soggettiva, attraverso i molteplici sguardi delle cam: il suo occhio dunque, diventa il nostro, ma in maniera indiretta, filtrata dal meccanismo della videoripresa della telecamere nascoste. In tal modo, non scatta il (traumatico) meccanismo di immedesimazione spettatore/assassino,  che ha luogo in film come Halloween di John Carpenter (ne è esemplare l’incipt) oppure nelle celeberrime soggettive Argentiane.  L’ empatia, seppur parziale, poiché non vi è mai un totale coinvolgimento, si riversa verso coloro che sono spiati, la coppia di coniugi scelta probabilmente a caso, James (Nick Stahl) e Amy (Mia Kirschner), scrutati, pedinati e poi attaccati, in un pattern in crescendo: la minaccia si manifesta dapprima in modo subdolo, strisciante, per poi diventare sempre più invasiva, fino al climax conclusivo.
Il film parte bruscamente, senza una presentazione dei personaggi, si viene catapultati nella storia di colpo, attraverso l’occhio del maniaco appostato davanti al 388 di Arletta Avenue. Una scelta che tange da vicino il cinema-veritè, presentando qualche limite, soprattutto in alcuni tempi morti, ma rivelandosi comunque efficace nel trasmettere una buona dose di inquietudine.

Lo sconosciuto si insinua nella vita della coppia con gesti che possono apparire scherzi innocui (la sostituzione di un cd in auto, ad esempio), per poi alzare gradualmente il tiro. La reale, brillante trovata del film sta nell’uso delle musiche, nel collocare canzoni già famigliari allo spettatore in contesti inediti, creando così un’associazione che sarà difficile da scindere:  Da Doo Ron Ron di Shaun Cassidy è tormentone che, dopo 388 Arletta Avenue, risulterà difficile riascoltare con lo stesso spirito di prima, così come la love song  Reunited di Peaches and Herb; da sottolineare anche la sequenza accompagnata da The Cat Came Back di Fred Penner, scelta eccellente di una canzoncina infantile con un testo che mette i brividi. La musica parte sempre a tradimento, dal computer casalingo delle due prede, in una burla dai toni via via più macabri. 

Il lavoro sul personaggio di James, sul suo logoramento psichico, è complessivamente  ben reso, sebbene in parte irrisolto; qui entra in gioco una delle pecche principali dell’opera: si ha l’impressione che si tratti più di un esperimento di tecnica cinematografica, che di vera e propria narrazione. Il mostrato, l’idea dell’essere continuamente osservati, la perenne soggettiva, spesso conta più del plot, il quale, per quanto contenga, come si è detto, trovate assai efficaci, non sempre riesce a coinvolgere completamente. Anche la tensione è a singhiozzo, alternando momenti di fiato sospeso, abilmente resi per mezzo di inquadrature delle stanze vuote della casa, di notte, in completo silenzio, con la tipica consapevolezza che “qualcosa di brutto sta per accadere”, ad altri eccessivamente dilungati, che finiscono per risultare noiosi.

Tecnicamente, si va dall’ ampio uso della camera a mano fino alle cam fisse, con riprese da varie angolazioni, dando così un effetto “telecamera a circuito chiuso” che, dal punto di vista della sperimentazione visiva, risulta interessante, sebbene non inedito.

Nel complesso, 388 Arletta Avenue è una buona pellicola a basso budget che riesce a rendersi forte dei suoi pochi mezzi, sviluppando un’idea semplice, ma indovinata. I difetti non mancano e il lavoro può risultare, per alcuni versi, acerbo, tuttavia ricco di spunti, alcuni dei quali realmente acuti e brillanti. Una prova che può considerarsi riuscita, e senza dubbio degna di interesse.    

Chiara Pani


388 Arletta Avenue
Canada - 2011
Regia: Randall Cole

lunedì 6 agosto 2012

La mia recensione di "The Divide" (2011) per Positifcinema



pubblicata su Positifcinema:











The Divide (2011)


Dietro La Porta Chiusa


Gruppo di estranei in un interno angusto, costretti a una convivenza forzata da circostanze estreme: da questo spunto ormai ampiamente sfruttato parte The Divide, pellicola del 2011 firmata dal francese Xavier Gens, già noto per il non eccelso e derivativo Frontiers (2007) e l’action-movie Hitman, dello stesso anno.

Il progetto è ambizioso, a partire dalla durata: 112 minuti per un film di genere sono inconsueti, se a ciò si aggiunge che il narrato si svolge in un’unica, claustrofobica ambientazione sotterranea; Gens dunque mira in alto, con l’autocompiacimento che gli è proprio, offrendo un risultato contraddittorio e altalenante. La prima parte della pellicola è dominata dal tedio, eccessivamente verbosa, e intrappolata in luoghi comuni verso i quali lo spettatore ha ormai sviluppato una sorta di allergia. Il blocco tematico del gruppo di condomini capeggiati dal manutentore dello stabile, il rude e brutale Mickey (ottima prova attoriale di Michael Biehn), che si rifugia nel sotterraneo a forza, accolto controvoglia dall’uomo, dopo che un’esplosione nucleare ha fatto tabula rasa di tutto ciò che sta attorno, rimanda inevitabilmente a classici come Dawn Of The Dead di Romero, dunque lo spettro del già visto è biglietto da visita stropicciato e poco invitante. Dopo l’impasse iniziale, The Divide si impenna verso la metà, in modo non graduale, di colpo: si passa così da una lentezza eccessiva a una bulimia visivo-narrativa nella quale si mescolano momenti decisamente riusciti, cadute vistose, stereotipi risaputi, buone delineazioni di alcuni personaggi contrapposte ad altre in cui i characters  sono soltanto abbozzati. Tutto, e il contrario di tutto, in un bombardamento di immagini e situazioni che lascia storditi e perplessi al tempo stesso.

Gens è abile con la macchina da presa, e ne è ben consapevole: si pecca, come nel precedente Frontiers, di virtuosismo fine a se stesso, e talvolta di eccessiva frenesia ritmica, dovuta anche al montaggio, per altri versi egregio e sapiente, del suo collaboratore abituale Carlo Rizzo.
La pellicola presenta del resto innegabili pregi, dall’incantevole score classico, firmato da Jean-Pierre Taieb, passando per la come sempre magnifica fotografia di Laurent Barès, nome ormai affermato della nuova scena francese (Livide, La Meute), che dona il suo inconfondibile tocco, forse troppo patinato, ma affascinante nei toni cupi, quasi marcescenti, nei colori virati.

Dal punto di vista narrativo l’attenzione è focalizzata sul deterioramento, fisico e morale, dei personaggi, sull’abbruttimento derivante dalla cattività, sui rapporti di forza che, inevitabilmente, vengono a crearsi; quest’ultimo è argomento-trappola, in quanto già ampiamento illustrato dalla cinematografia. The Divide ne dà un punto di vista che risulta alterno, per alcuni versi originale e provocatorio, per altri legato a forme appartenenti a vecchi territori. Si assiste al passaggio di consegne della tirannia (per molti versi solo apparente) di Mickey a quella dei personaggi di Josh e Bobby, che da bulli diventano sadici sessuali, veri e propri mostri anche nel fisico, poiché le radiazioni sono penetrate nel rifugio provocando così una progressiva marcescenza dei corpi. Il discorso sull’uomo che diventa carnefice, tirando fuori il peggio di se stesso, è esasperato ai massimi livelli, privando i singoli caratteri delle sfumature necessarie, con figure spesso eccessivamente a tutto tondo: da Mickey, americano patriottico e razzista ma in fondo non così cattivo, fino a Eva (unica donna del gruppo insieme a Marilyn), personaggio troppo retto e lineare, passando per Sam, potenzialmente interessante ma rappresentato in modo confuso e superficiale. 

In Marilyn (una meravigliosamente sfatta Rosanna Arquette) ritroviamo una delle figure meglio delineate del film: madre di Wendi, la bambina che viene rapita in un momento narrativo poco credibile, risultando quasi estraneo al resto del plot, è donna fragile e senza dignità, vittima consenziente dei pesanti giochi sessuali dei due nuovi villains del gruppo.
Xavier Gens cerca lo shock facile, con sequenze piuttosto pesanti, alcune delle quali riuscite, altre troppo studiate e artificiose per convincere. The Divide si è in questo modo guadagnato aggettivi come “disturbante”, “difficilmente sopportabile”, e via discorrendo, riversando quindi il focus sulle dinamiche violente, quasi dimentico del fatto che, al di fuori di quel sotterraneo, c’è un mondo devastato: nessuno dei personaggi pare preoccuparsene, forse troppo infiammati dai loro impulsi.

Il finale è per certi versi prevedibile tuttavia, non privo di fascino.
Pellicola dunque dalle molte contraddizioni, eccessiva, ambiziosa, che può definirsi riuscita solo in parte. Tutto questo ricordando che il cinema realmente disturbante, e sincero nel suo intento, è ben altra cosa.

Chiara Pani
(araknex@email.it)



The Divide
Germania/USA/Canada - 2011
Regia: Xavier Gens

mercoledì 1 agosto 2012

La mia recensione di "Headhunters" (2011) per CineClandestino.it



pubblicata su CineClandestino.it:

http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=10&art=9645





 
Headhunters (Hodejegerne) (2011)



Cacciatori e Prede


“Mi chiamo Roger Brown. Altezza: un metro e 68 centimetri. Capirete che devo compensare la mia altezza”. Così inizia Headhunters (Hodejegerne), pellicola del 2011 co-prodotta da Norvegia e Germania, vincitrice della più recente edizione del Noir InFestival di Courmayeur; diretta con mano sapiente da Morten Tyldum  (“Buddy”, “Varg Veum”), è tratta dall’omonimo romanzo (ancora non distribuito in edizione italiana) dell'ormai celebre scrittore norvegese Jo Nesbø, autore di noir come “L’Uomo Di Neve”(2010) e “La Ragazza Senza Volto”(2009).


Il film può dare l’impressione di seguire la scia del successo editoriale di Stieg Larsson e delle trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi, ma è influsso soltanto apparente, poiché le differenze sono notevoli sotto molti punti di vista. Si può comunque parlare a pieno titolo di una rinascita nordeuropea anche dal punto di vista letterario, poiché in campo cinematografico, dal Dogma di Von Trier fino a Nicholas Winding Refn, l’ estremità più fredda del nostro continente si è già confermata culla di un nuovo corso tra i più fulgidi che si siano visti sui grandi schermi da molti anni a questa parte.

La pellicola mescola noir, thriller e ironia, sebbene la chiave umoristica possa risultare, a volte, un po’ fuori luogo, quasi una forzatura non necessaria in un contesto che avrebbe potuto essere più puramente cupo: l’umorismo nordico è forse per noi non immediatamente comprensibile, ma ciò non inficia il buon risultato complessivo del’opera, seppur essa non sia esente da qualche scivolone di sceneggiatura (adattata dal romanzo di Nesbø per mano di Lars Gudmestad e Ulf Ryberg). Il meccanismo a incastro del plot ogni tanto si inceppa, generando dei vuoti che possono lasciare interdetti; il noir è genere che va maneggiato con cura ,Tyldum guarda a modelli assai elevati ossia nientemeno che al Maestro Hitchcock, in primis nelle tematiche, ad esempio il deflagrante potere distruttivo di un individuo sull’ordinaria vita altrui.
Il compito è ben svolto, la macchina da presa è agile e sicura e il montaggio ha un ruolo fondamentale nel dare un ritmo fin troppo accellerato alla vicenda, al punto che in alcuni momenti si fatica quasi a seguirla; la fredda e netta fotografia di John Andreas Andersen (“King Of Devil’s Island”) rende perfettamente l’atmosfera del racconto, e le musiche accompagnano armoniosamente l’insieme, ma a fine visione, per quanto nel complesso soddisfatti, si rimane con la sensazione di aver percepito qualche nota stonata in una sinfonia per altri versi ben riuscita.

Queste pecche possono essere ritrovate, come si diceva, nelle falle del plot, e nella varietà di registri che non sempre riescono a sposarsi in modo armonioso. Tuttavia, il valore della pellicola riesce a restare al di sopra della media, seppur paghi lo scotto dei suoi errori, soprattutto in un finale poco credibile.
Il protagonista, Roger (ottima l’interpretazione di Aksel Hennie, che regala al personaggio il suo volto al tempo stesso algido e infantile), subisce una trasformazione nel corso del narrato: da cinico uomo d’affari il cui unico punto debole è la bellissima moglie Diana (Synnøve Macody Lund), che ha il terrore di perdere e che crede di tenere legata a sé accontentandola in tutto tranne che nel suo unico e reale desiderio, ossia la maternità, si trasforma in preda, paranoico fuggiasco dopo l’incontro col fascinoso Clas Greve (Nikolaj Coster-Waldau, noto per la serie televisiva “Game Of Thrones”) , manager olandese a capo di una società leader nel rintracciamento tramite gps. Per mantenere il suo dispendioso tenore di vita, dettato dall’insicurezza di fondo dell’avere una moglie così “bella e intelligente” e dalla materialistica ingenuità del credere che sia sufficiente il denaro a non farla scappare, Roger si dedica ai furti d’arte, usando la sua attività di recruiter del personale per raccogliere informazioni sulle sue potenziali vittime. Egli è dunque un uomo fragile, Diana è il suo tallone d’Achille e l’astuto Clas lo colpisce proprio nel vivo, scatenando l’istinto più malsano: la gelosia. Un Rubens custodito in casa di Greve, i pensieri ossessivi di Roger, ma soprattutto la sete di potere dell’olandese che sfocerà in follia, daranno vita a una caccia all’uomo che vedrà Brown in situazioni talvolta tragicomiche, che smorzano, purtroppo, il potenziale alto voltaggio di tensione del racconto.

Il rapporto Roger/Clas/Diana è un triangolo interessante e reso in maniera anche piuttosto efficace, nel suo essere terreno di scontro di possesso, conflitto e rabbia; si pecca però di un buonismo eccessivo, una dose di cattiveria in più avrebbe reso il tutto assai più godibile, in special modo nella parte finale.

Nel complesso, una pellicola interessante, senza dubbio originale, e di buona fattura; tuttavia,  una maggiore destrezza nel maneggiare registri diversi e l’aggiunta di un cucchiaio di cinismo avrebbero regalato un risultato decisamente superiore.    

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Titolo Originale: Hodejegerne
Norvegia/Germania - 2011
Regia: Morten Tyldum