Blog di critica cinematografica, partendo dall'horror per andare oltre, molto oltre

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martedì 25 giugno 2013
Begotten
Begotten, per Orizzonti Di Gloria:
http://www.orizzontidigloria.com/15/post/2013/05/begotten-recensione-la-creazione-oscura.html
domenica 31 marzo 2013
Il mio articolo su "Kairo" (2001), di Kiyoshi Kurosawa, per Point Blank
il mio sguardo retrospettivo su "Kairo" (2001), caposaldo del j-horror, di Kiyoshi Kurosawa
pubblicato su Point Blank:
http://www.pointblank.it/?p=29522
Kairo (2001)
La spettrale solitudine di una Stanza Proibita
Kairo (che tradotto letteralmente
significa “circuito”), pellicola del 2001 dunque ormai risalente a ben dodici
anni fa, si staglia nella filmografia di Kiyoshi Kurosawa come una sorta di
corpo estraneo, ectoplasmico come le inquietanti entità che lo popolano. Presentato
nella sezione Un Certain Regard al 54
° Festival di Cannes, resta punto cardine del J-Horror, che al tempo viveva il
suo periodo più fulgido per poi esaurirsi in una ripetitività per molti versi preannunciata,
reiterando stilemi di base che si sono, inevitabilmente, auto-fagocitati fino a
rasentare il grottesco o il macchiettistico. Tuttavia, se oggi si sorride
davanti all’ennesima ragazzina con i capelli lunghissimi sul volto, uno dei retaggi/debiti
del genere verso il teatro Kabuki, antica forma di rappresentazione popolare che
è radice dell’horror nipponico, un decennio fa si veniva inesorabilmente
colpiti, e terrorizzati, da quest’orrorifico rarefatto, costruito sulla
gestualità, la mimica facciale, lo spavento-effetto mostrato prima della
paura-causa, in un meccanismo dunque esattamente contrario a quello della messa
in scena occidentale.
Kurosawa esordì nel 1975, spaziando tra tipologie filmiche assai diverse tra loro,
dal pinku-eiga (l’erotico soft-core)
alla commedia passando per il gangster-yakuza: è nel 1997, con l’ormai celebre
thriller Cure, che la sua poetica
prende forma e direzione precise, nell’essere metafisica, sospesa nel tempo e
nello spazio, ed essenziale nel suo lavorare di sottrazione. Cure inaugurò, in un certo qual modo, la
corrente j-horror contemporanea, un anno prima del celeberrimo Ringu, di Hideo Nakata, che ne consacrò
le caratteristiche fondamentali, divenendone manifesto vero e proprio. Kairo, per molti versi, rimanda al suo
illustre predecessore, manifestando al tempo stesso un’identità propria e
peculiare che l’ha reso pellicola di culto, al punto da venire eletto “il
miglior horror orientale del millennio” dagli utenti di Asian Feast, sito
dedicato alla cinematografia del Sol Levante.
Ghost-story
figlia della tradizione dei kwaidan,
i racconti di fantasmi risalenti al periodo Edo (1603-1868) e al periodo Meiji
(1868-1913) che si presentano come basi primordiali dell’orrorifico giapponese,
la pellicola è fautrice di un discorso
assai più ampio e profondo, che va al di là della pura narrazione spaventevole
di stampo sovrannaturale, basandosi su paure ancestrali reiterate nel mondo
moderno, divenendone prole legittima. La solitudine, infatti, insieme alla sostanziale
incapacità di comunicare tipica della società odeirna, è la vera protagonista
del plot, che usa la figura dello spettro in quanto metafora di un’umanità
disperata e votata a un isolamento dal quale non vi sono vie di fuga. Il
concetto di aldilà viene prepotentemente inserito nel nostro mondo, nel
contesto del reale, trovando incarnazione nello spazio delle stanza proibita, luogo-simbolo nel quale
i morti si manifestano, il cui uscio è sigillato da nastro isolante rosso e che
attira irresistibilmente i vivi in un continuo interscambio tra le due
dimensioni. E’ proprio nella labilità di questo confine e nella
fusione/identificazione tra il regno dei defunti e la realtà così come la
conosciamo che il film diventa oggetto a sé, discostandosi dalle altre
produzioni di genere e presentando una poetica del tutto innovativa; nella
pellicola di Kurosawa, infatti, le entità appaiono tramite i computer e la rete
Internet, utilizzando un mezzo-macchina
così come accadeva in Ringu con
l’apparecchio televisivo, diffondendosi come vero e proprio contagio
nell’invadere il mondo dei vivi che è simile e speculare al proprio.
Defunti
che infestano la Rete, qui portale di passaggio, sconfinando nel nostro territorio
poiché “quando l’aldilà è zeppo, le anime
sono obbligate a spostarsi nella nostra realtà”, concetto,
inequivocabilmente, di Romeriana memoria. Le entità che vediamo in Kairo, terrificanti nelle loro movenze
lentissime che le rendono eternamente sospese e presenti, sono spettri atipici,
figure di raccordo tra Morte e Vita: si
materializzano, per poi scomparire lasciando una macchia sul muro, un segno
tangibile, organico, materiale e percepibile così come il loro agghiacciante
chiedere “aiuto” attraverso un monitor o tramite un apparecchio telefonico. A
differenza dei fantasmi tradizionali, che lasciavano volatili scritte sugli
specchi rimanendo dunque relegati a un beyond
quasi rassicurante poiché separato da questo mondo, gli umani ectoplasmi di
Kurosawa comunicano con la voce e si muovono nello spazio, in una mortale pandemia
che altro non è che specchio riflettente della vita stessa. “Le persone e i fantasmi sono la stessa
cosa, che siano vive o no”, dice la giovane Harue, studentessa di
informatica, a Kawashima, che a differenza degli altri personaggi del film
rifiuta l’idea di thanatos, in uno
slancio verso il vitale che lo porterà al tentativo disperato di strappare la
ragazza al non-luogo di un morire eterno, nel quale ella vede i defunti come
esseri che vogliono, semplicemente, renderci immortali.
Kairo dipinge dunque un cosmo a metà, recante
una frattura tra vita e morte che è solo crepa sottilissima, un territorio di confine in cui chi è vivo
vorrebbe morire e chi è morto desidera tornare, alla perenne ricerca di
qualcosa che non si riesce ad afferrare: da qui la solitudine, dei viventi e
dei defunti, e l’incomunicabilità simboleggiata da quell’interazione fittizia
di cui la Rete è portatrice.
L’ectoplasma
diviene dunque corpo fisico, restando fedele all’eredità del già citato teatro Kabuki, basato, come del resto l’intero corpus stilistico del J-Horror, sulla
mimica facciale e sulla gestualità, in una rarefazione del dialogo spesso trasformata
in assoluto silenzio, spezzato soltanto da rumori di interferenza e sinistri
lamenti. Lo scream che caratterizza
l’orrorifico occidentale è qui sostituito da espressioni terrorizzate, ben più
evocative di qualsiasi urlo lancinante, che nella messa in scena sono spesso
mostrate prima della causa della paura, creando così quella disturbante
inquietudine anticipativa propria del genere, che si riscontra, in Kairo, in soluzioni visive frutto di una
meticolosa attenzione per l’inquadratura, vero e proprio studio la cui
conseguenza sono personaggi sovente mostrati di spalle oppure parzialmente, in
un terrore sussurrato e suggerito che si fa forte dell’attesa di un movimento,
un gesto, un voltarsi. Nessun spavento facile in quest’opera, a differenza dei
numerosi epigoni che giocheranno su apparizioni improvvise e prepotenti: qui
domina una lentezza che agghiaccia ben più del balzo repentino, indugiando al
fine di costruire un terrore basato anche sulla dilatazione temporale.
Il suono, e
la sua natura sinistra e spaventevole, ha un ruolo preponderante,
caratteristica comune a altri horror nipponici, Ringu in primis: è proprio la parsimonia con la quale l’elemento
sonoro è utilizzato a renderlo così destabilizzante, l’alterazione e
distorsione di voci e rumori che si insinuano nel silenzio del reale,
risultando sconcertanti. Tòpos
filmico che trova una delle sue origini anche nel cinema di genere italiano
anni ’70, in special modo quello Argentiano.
Kairo è film che resta opera centrale nel
panorama orrorifico orientale, pellicola cardinale in virtù del suo risultare,
anche a distanza di anni, atipica e genuinamente spaventosa nell’ambito di un
filone che, tra remake hollywoodiani e stilemi ripetuti all’eccesso, si è
esaurito in modo naturale, seguendo un ciclo spontaneo: ha concluso,
semplicemente, il proprio discorso, scegliendo di tacere poiché non restava
altro da aggiungere.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Kairo
Giappone - 2001
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Data di uscita italiana: inedito in sala
Etichette:
cinema giapponese,
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Kairo,
Point Blank,
spettri
Il mio articolo su "I Soliti Sospetti" (1995) per Positifcinema
Per il nostro sguardo retrospettivo su Bryan Singer, la mia disamina de "I Soliti Sospetti"
pubblicata su Positifcinema:
http://www.positifcinema.it/soliti-sospetti-di-bryan-singer
I Soliti Sospetti (The Usual Suspects) (1995)
L’importanza di chiamarsi Söze
“La beffa più grande che il Diavolo
abbia mai fatto è stata di convincere il mondo che lui non esiste”
(Charles Baudelaire)
Cinque criminali
in fila per un confronto all’americana: è partito tutto da lì, da quella che è
diventata l’immagine-simbolo de I Soliti Sospetti (The Usual Suspects), poiché
è proprio da quest’idea visiva balenata nella mente dello sceneggiatore Christopher
McQuarrie (collaboratore abituale di Singer in gran parte dei suoi lavori)
mentre si trovava in coda davanti al botteghino di un cinema, che è nato lo
spunto per quello che è considerato un film fondamentale nella cinematografia
statunitense degli ultimi anni, un’opera spartiacque che è divenuta modello di
un nuovo modo di rileggere (e stravolgere) le convenzioni del noir. Secondo
lungometraggio di Singer, dopo il buon risultato dell’esordio con Public Access
(1993), I Soliti Sospetti affonda le proprie radici nella tradizione, ossia nel
cinema americano classico, in quelle che sono le regole e gli stilemi della
sceneggiatura del noir hollywoodiano, per poi rimescolarle e collocarle in
maniera diversa, con un risultato che spiazza e sorprende lo spettatore.
Si vedano, in primis, le unità di tempo e
luogo, scandite da didascalie che collocano la narrazione in tre ambiti
spazio/temporali diversi: si comincia con “San Pedro, California – la scorsa
notte”, dunque da quello che in realtà scopriremo essere l’epilogo della
vicenda, ossia l’incendio al porto, cronologicamente vicinissimo, per proseguire
con la seconda, la più importante: “New York – sei settimane fa”, segmento
fondamentale nel quale ci viene mostrato il momento dell’arresto dei cinque
protagonisti, il confronto all’americana che è uno dei perni del narrato e la
presentazione dei personaggi tramite la voce narrante di Roger “Verbal” Kint
(un Kevin Spacey a dir poco strepitoso, attorno al quale si sviluppa l’intero
plot, che per il ruolo portò a casa un Oscar). L’ultima delle tre entità di
spazio/tempo ci riporta al qui e ora del racconto :”San Pedro – oggi” , con
quindici cadaveri carbonizzati e due superstiti, uno in coma, l’altro “uno
zoppo di New York” (inutile dirlo, Verbal Kint). Da questo momento in poi gli
snodi avvengono tra flashback e presente, senza bisogno di puntualizzazioni:
questa è la prima destrutturazione del meccanismo del classico gangster movie,
illudere lo spettatore di trovarsi di fronte a un’esposizione di stampo
tradizionale, nella quale i cambiamenti cronologici e di ambientazione sono chiaramente
sottolineati, un’ingannevole rassicurazione riguardo all’identità di ciò a cui
si sta assistendo. Uno dei punti cardine del cinema di Bryan Singer è che nulla
è ciò che sembra, e I Soliti Sospetti ne è l’esempio non solo più lampante ma
anche più scopertamente analizzabile: la carte vengono rimescolate di continuo,
in un gioco disorientante che può portare all’unica soluzione possibile, il
colpo di scena finale, uno dei twist narrativi più riusciti e meno prevedibili
che si siano visti sullo schermo da almeno trent’anni a questa parte.
L’altro
elemento portante del noir USA anni ‘40/’50 a cui McQuarrie si rifà nella
stesura dello script è la caratterizzazione dei personaggi, poichè ognuno di
loro incarna quello che potremmo definire un enneatipo filmico, una tipologia
psicologica (e fisica) precisa: “il capo” (Dean Keaton, un grande Gabriel Byrne),
“il pazzo” (McManus, interpretato da Stephen Baldwin), “il violento” (Todd
Hockney ossia Kevin Pollack), “il ribelle/disadattato” (Fred Fenster, il
magnifico Benicio Del Toro), e infine “l’outsider”, lo storpio e apparentemente
stupido, quel Roger “Verbal” Kint che sommessamente tira le fila di tutta la
narrazione. Anche in questo caso, lo sceneggiatore cambia le regole, tornando
al discorso Singeriano del “nulla è ciò che sembra”: il capo è solo
un’apparenza e chi rimaneva nell’angolo, con la sua camminata claudicante,
fingendo paura, stupore, idiozia, diventa l’elemento chiave, colui del quale nessuno
avrebbe mai sospettato.
Kayser Söze è nome profondamente
evocativo costruito da McQuarrie con l’ausilio di un dizionario inglese/turco: il suono germanico rimanda al concetto di
sovrano assoluto, imperatore, e quel Söze è di per sé indizio, in quanto l’appellativo
del personaggio può essere a grandi linee tradotto come “imperatore
chiacchierone”, e Kint si è guadagnato il soprannome di Verbal per la sua
tendenza a parlare troppo. Parola come simbolo, significante supremo in una
pellicola in cui il linguaggio assume una valenza concreta, che si può definire
fisica nella delineazione dei caratteri e delle situazioni (le parole di Fenster,
ad esempio, sono quasi incomprensibili nel suo continuo bofonchiare): la figura
di Kayser Söze acquista un’aura mitologica nel corso del plot, che si rafforza
semplicemente con l’uso dell’espressione verbale, alla stregua delle leggende
tramandate oralmente, radicandosi in modo inesorabile nel nostro immaginario.
Un appellativo, due semplici sostantivi, che stanno a rappresentare il concetto
centrale della poetica del regista, vale a dire il Male, nella sua accezione
più profonda e definitiva. Il cinema di Bryan Singer, infatti, è un ampio e
approfondito discorso sul coté maligno dell’essere umano, sull’oscurità che
permea quelle zone dell’anima che cerchiamo sempre di celare agli sguardi
altrui. Un Male già presente in Public Access, che in seguito assumerà le
spoglie del diabolico storico per eccellenza, il nazismo, ne L’Allievo (1998) e
in Operazione Valchiria (2008), e che in questa pellicola raggiunge la sua
apoteosi espressiva, dipingendo Kayser Söze come “il diavolo in persona”,
mitizzandone le gesta attraverso un flashback che lo vede guerriero epico,
personaggio che è probabilmente solo una leggenda tramandata tra criminali ma
che è terrificante sopra ogni altra cosa ("Non credo in Dio ma ne ho
paura. Beh, a dire il vero ci credo, ma l’unica cosa che mi spaventa è Kayser
Söze”, dice Verbal al detective Kujan, l’ottimo Chazz Palminteri, nel corso
dell’interrogatorio che attraversa il film e che è primo, grande indizio di
quello che sarà il twist dell’epilogo) .
Emblematica la citazione da Charles
Baudelaire, che dona ulteriore vigore alla natura demoniaca e sovrannaturale
del personaggio di Söze, ambiguo fin da prima della sua rappresentazione: Singer
disse a ognuno degli attori principali che avrebbe interpretato il ruolo
cardine, con successivo grande disappunto di Byrne; la mitizzazione ha dunque
luogo a partire dall’extradiegetico, dagli albori della lavorazione, generando
così il medesimo senso di spiazzamento provato dallo spettatore.
Il celeberrimo
finale, la rivelazione che rovescia il modo in cui l’intero film è percepito
(le visioni successive alla prima, infatti, saranno inevitabilmente
condizionate dalla consapevolezza) è da manuale di cinema, in un gioco di campi
e controcampi, parole che tornano alla mente di Kujan, la geniale chiusura di
un cerchio costruita anch’essa sull’espressione verbale, su singoli vocaboli
apparentementi insignificanti che, improvvisamente, assumono un’importanza
assoluta.
Una pellicola che può essere definita seminale
nella concezione del noir moderno, modello visivo e narrativo che ha influenzato
molti epigoni successivi, spesso definito “meccanismo a orologeria”, in realtà
composto da cerchi concentrici che conducono a quello che è il cuore oscuro
dell’opera: l’identità di Kayser Söze.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Titolo originale: The Usual Suspects
USA - 1995
Regia: Bryan Singer
Data di uscita italiana: 30 Novembre 1995
Etichette:
Bryan Singer,
cinema americano,
cult movies,
I Soliti Sospetti,
Positifcinema
lunedì 11 febbraio 2013
Il mio articolo su "Hellraiser" (1987), di Clive Barker, per Horror.it
pubblicato su Horror.it:
http://www.horror.it/a/2013/02/hellraiser-1987/
Hellraiser
(1987)
“No, niente lacrime! Non si deve
sprecare così la sofferenza”
(Pinhead)
Hellraiser,
primo lungometraggio diretto dallo scrittore Clive Barker dopo i corti Salome
(1973) e The Forbidden (1978), tratto dal suo racconto The Hellbound Heart (Schiavi
dell’Inferno, 1986), rappresenta un elemento atipico nel panorama horror anni
’80: se il personaggio di Pinhead è ormai annoverato tra i “nuovi mostri” del
cinema di genere, in special modo in Gran Bretagna (paese d’origine di Barker e
patria del film) e negli Stati Uniti, comparendo su magliette e gadgets di ogni
tipo, vero è, d’altro canto, che la reale potenza e complessità di questa
pellicola, per molti versi superiore allo scritto, non è mai stata compresa
appieno dal grande pubblico, in special modo nel nostro Paese.
Troppo
adulto per un’audience teenageriale, che è quella a cui, erroneamente, la
distribuzione mira quando si parla di genere orrorifico, Hellraiser è stato
apprezzato per il suo lato gore e splatter, peraltro non eccessivo, ma è
rimasto nel limbo dei film non completamente metabolizzati, poiché la sua
stratificazione di significati e riferimenti andava ben oltre il semplice
effetto visivo ed è stata accolta soltanto da una nicchia di pubblico, che già
conosceva le opere e le tematiche dell’autore o che era comunque più aperta ad
una tipologia filmica completamente diversa dai vecchi schemi.
Clive
Barker (nato a Liverpool nel 1952, dunque trentaquattrenne all’epoca della
pubblicazione della novella che darà vita a Hellraiser) esordisce come
scrittore nel 1984 col primo dei celeberrimi Libri di Sangue, antologie di
racconti agghiaccianti, che hanno il dono di restare ancorati all’inconscio del
lettore, caratteristica che diventerà palese nel successivo romanzo, The
Damnation Game (Gioco Dannato, 1984), personalissima rilettura del mito di
Faust. Fin da queste prime opere la cifra stilistica che ora definiamo Barkeriana
è già intuibile, gettando dunque le solidissime basi di quella che diverrà la
sua poetica nella letteratura horror (da non dimenticare, infatti, le
incursioni dell’autore in altri generi, il fantasy in primis).
Schiavi
dell’Inferno è una narrazione breve (164 pagine) e asciutta che tuttavia
sortisce l’effetto di essere efficacemente descrittiva, delineando alla
perfezione personaggi e contesti; Barker la rielabora in forma di sceneggiatura
per la preparazione delle riprese del film, apportando cambiamenti sia per
volere della produzione (ad esempio, nella parte finale: nello scritto, i
Cenobiti si comportano in modo equo, mantenendo la promessa e lasciando andare
Kirsty, mentre nel film continuano a volerla portare con loro), sia per
renderla più funzionale alla forma filmica. Nella pellicola vediamo dei
caratteri maggiormente a tutto tondo, privi delle sfumature presenti nel
racconto, eccezion fatta per Julia (Clare Higgins), che, contrariamente alla
donna bella e vagamente bamboleggiante
di Prigionieri Dell’Inferno, dà al ruolo una qualità austera, crudele, una vera
femme fatale schiava di una passione
che la renderà mostruosa. La stessa Kirsty (Ashley Laurence) in Hellraiser
riveste le tipiche caratteristiche dell’eroina positiva, in contrapposizione a
Julia, venendo dunque privata delle ambiguità che la contraddistinguevano nello
scritto Barkeriano.
Hellraiser
è, come già detto in precedenza, opera complessa e non così immediata come
potrebbe apparire. I Cenobiti (dal latino cenòbium, vita in
comune) sono,
nella realtà, monaci cristiani ortodossi le cui prime comunità risalgono al IV
secolo, che vivono secondo una rigida disciplina; per Barker non fu dunque
necessario spiegare, almeno in questo primo film, le origini di queste
creature, poiché il loro nome disvela già molto: non è azzardata l’ipotesi che
l’autore abbia voluto donare ai suoi personaggi una caratteristica sacrale,
considerandoli un vero e proprio ordine religioso, in questo caso di natura
infera, nel quale l’esplorazione delle sensazioni più estreme viene compiuta al
fine di raggiungere uno stato di estasi suprema, che il Cristianesimo
definirebbe beatitudine. Lo stesso
personaggio di Pinhead (il memorabile Doug Bradley) , sia nel libro che nel
film non è indicato con questo nome: nel racconto, non è nominato, e non è
figura di spicco rispetto agli altri Cenobiti, mentre nei titoli di coda di
Hellraiser compare come lead cenobite. La denominazione di Pinhead nacque da
un soprannome, che fu poi utilizzato nei sequel; Barker lo definì “indegno” e
per i fumetti tratti dalle pellicole, pubblicati negli Stati Uniti dalla BOOM!
nel 2011, utilizzò l’appellativo che aveva scelto nella prima fase di
sceneggiatura: “Priest”, Prete, a sottolineare ulteriormente il carattere ieratico
del personaggio.
L’entrata
in scena dei Cenobiti, che ha luogo solo nell’ultima mezz’ora di narrato
(nonostante compaiano, brevemente, già nell’incipit), è infatti
meravigliosamente solenne, sottolineata da cupissimi rintocchi di campane, e
appare realmente come qualcosa di sacro e temibile. Qui si ritrova,
probabilmente, la differenza più notevole tra libro e opera visiva, ciò che
rende la seconda superiore al primo: nel film, li vediamo, in tutta la loro terrificante bellezza. Le poche parole
pronunciate da Pinhead sono sufficienti a svelarci la loro natura ambivalente (“demoni per alcuni, angeli per altri”), a raccontarci il loro Mondo, nel quale
Piacere e Dolore si fondono fino a diventare una cosa sola.
La
sofferenza come estasi suprema è tematica centrale, palese richiamo al
sadomasochismo: non a caso, dopo il rifiuto da parte della produzione
dell’utilizzo del medesimo titolo del libro, The Hellbound Heart, poiché giudicato un po’ troppo romantico, Barker propose la dicitura, decisamente più
forte, di “Sadomasochists from Beyond the Grave” (“I Sadomasochisti
dall’Oltretomba”), rifiutata anch’essa per il contenuto sessuale eccessivamente
esplicito. Dagli abiti in pelle e pvc dei Supplizianti/Cenobiti fino alle
torture con ganci e catene, ogni cosa ha un sapore di sesso e dolore, piacere e
patimento, tipica delle pratiche bdsm. Il rapporto tra Julia e Frank (Sean
Chapman, viscidamente fascinoso) è proprio di tale natura, che vede lui in
quanto elemento dominante e la donna dipendente in tutto e per tutto dalla sua
volontà; è relazione ambigua, basata sull’attrazione sessuale e nata proprio
alla vigilia delle nozze fra lei e Larry (Andrew Robinson), padre di Kirsty e
vedovo della prima moglie; è una passione feroce e divorante per Julia, che non
vede Frank da anni ma non ha mai smesso di pensarlo.
Un passo
indietro, a questo punto, è d’obbligo per arrivare alle origini di ciò che
rappresenta il cuore di Hellraiser: la scatola di Lemarchand o Configurazione
del Lamento, oggetto-puzzle tramite il quale, una volta trovata l’esatta
combinazione, si spalancano le porte della dimensione parallela (definita
Inferno nel primo film, Labirinto nel secondo) abitata dai Cenobiti. La
riuscita nella risoluzione dell’enigma è legata all’intensità del desiderio di
venirne a capo, particolare che nella trasposizione filmica viene tradito
poiché anche Kirsty, quasi casualmente, la schiude.
Hellraiser
inizia in un luogo non precisato del Nord Africa, in cui vediamo Frank
acquistare l’oggetto da un mercante asiatico; nell’inquadratura successiva, è
nel solaio di una casa disabitata (che si rivelerà poi essere la dimora di
Larry e Julia): nel momento in cui la puzzle box si muove, dei ganci affondano
nella sua carne. Frank, dunque, resta sempre in quel luogo, seppur in una
realtà altra: farà ritorno, completamente divorato dalle torture dei
Supplizianti, grazie a qualche goccia di sangue di Larry, feritosi
accidentalmente. Per tornare in forze necessita di altro plasma, e Julia inizia
ad uccidere: dalla passione si passa quindi ad una forma di Amore deviato da
parte della donna, nel quale lei è soltanto un tramite, usato da Frank per
ottenere uno scopo ben preciso.
Ciò che il
film non svela, a differenza del libro, è la motivazione che spinge Frank ad
impossessarsi della Configurazione del Lamento: l’uomo ha sperimentato ogni lussuria terrena al punto di esserne saturo, e non può resistere a ciò che la
scatola promette, ossia piaceri inimmaginabili. E’ questo dunque, che lo muove
verso la dimensione Cenobita, che lo trascina al cospetto dell’idea di massimo
godimento come tutt’uno con la più atroce delle sofferenze fisiche; essi stessi
sono a loro volta perennemente suppliziati: i loro volti e corpi sfigurati
(Chatterer, Butterball), oppure flagellati da spilli o altri strumenti di deliziosa tortura (Pinhead, la Cenobita Femminile).
Il concetto
di sadomasochismo non è per tutti i palati, soprattutto se inserito nel
contesto di un horror che la produzione e la distribuzione avrebbero voluto
indirizzare ad un pubblico giovane: Hellraiser è, per contro, un film
profondamente adulto, non a caso scritto da una persona che aveva superato i
trent’anni, e che da lì a poco, all’inizio degli anni ’90, avrebbe dichiarato
pubblicamente la propria omosessualità, in un’epoca in cui l’ ”outing” non era
ancora una moda bensì un atto coraggioso in una società moralista e bigotta. I
preconcetti superficiali e pruriginosi si sono sprecati, ad esempio nell’affiancare
la sua “diversità” (?) sessuale con la filosofia sadomaso presente nel film. Il
significato , con tutta probabilità e come già accennato, è di natura più
complessa e vicino a terreni teologico-religiosi:il concetto di sofferenza come
strada verso l’estasi mistica è infatti presente non solo in culti (primitivi e
non) di ogni parte del mondo, ma è palese nel Cristianesimo stesso, nelle
figure dei martiri, e nelle auto-flagellazioni ancora oggi praticate da alcuni
fedeli in cruente cerimonie di devozione estrema.
Il tema
della diversità, che sarà preponderante in Cabal (Nightbreed) (1990) è comunque presente, non soltanto
nelle figure dei Supplizianti, sommi sacerdoti del Dolore, dunque eletti,
differenti poiché superiori, ma è evidente in Frank, individuo corrotto e
lascivo, nauseato da ciò che la vita gli offre, desideroso di superare gli
stretti confini di ciò che gli sta attorno. E’ ingordigia edonistica ciò che lo
spinge a risolvere l’enigma della Configurazione del Lamento, brama che vedrà
una punizione nelle torture che dovrà subire: c’è dunque qualcosa di un novello
Prometeo in Frank, uomo che ha voluto spingersi troppo oltre per poi ritrovarsi
a patire i supplizi inferti dai Cenobiti, qui strani e sinistri Dei.
La
pellicola è stata realizzata con un budget relativamente ridotto (un milione di
dollari), fattore che non ha influito sulla qualità degli effetti speciali (ad
opera di Cliff Wallace e, non accreditati, Dave Chagouri e lo stesso Barker in
veste di animatori) se non nelle scene finali, nel punto della lavorazione in
cui i fondi erano esauriti e il regista e Chagouri hanno dovuto improvvisarsi
nell’animazione, nel giro di un weekend e con abbondante alcool in circolo.
La regia è abile, tenendo conto che
Hellraiser è stato girato quasi interamente all’interno della casa, il che ha
spinto Barker a dover essere creativo con le scarse risorse a sua disposizione:
spesso c’era spazio per una sola macchina da presa, e questo spiega perché
molte inquadrature siano riprese da un’unica angolazione; inoltre, il movimento
in verticale era sovente l’unico possibile, ecco dunque le zoomate ed il punto
di vista dall’alto rispetto ai personaggi.
Com’è noto,
lo score del film fu originariamente composto dalla band industrial dei Coil, e
Barker era entusiasta del risultato. La produzione purtroppo lo rifiutò,
optando per una musica più tradizionale composta da Christopher Young. Il
lavoro dei Coil fu pubblicato come The Unreleased Themes For Hellraiser e a
tutt’oggi è una rarità; le tracce create dalla band sono incredibilmente
suggestive, rarefatte, dal sapore esoterico, in poche parole perfette per
l’opera. Ascoltandole, chiudendo gli occhi, non si può far altro che immaginare
il lento incedere dei Cenobiti ed essere percorsi da un brivido. Tuttavia, lo
score di Young, per quanto non all’altezza dei magnifici suoni dei Coil, riesce
ad essere efficace: orchestrale, parte in sordina per poi esplodere in un
magniloquente e sinistro crescendo, donando alle apparizioni delle creature una
qualità magica ulteriormente accentuata.
Un aneddoto
curioso riguarda la frase finale del film, pronunciata da un Frank (che
“indossa” la pelle di Larry) dilaniato dai Supplizianti, mentre si lecca le
labbra lascivo, davanti agli occhi di Kirsty: l’attore Andrew Robinson (Larry),
convinse Barker a cambiarla rispetto
alla sceneggiatura, che prevedeva un secco “Fuck
You”, sostituendola con il più evocativo “Jesus wept” (“Gesù versò
delle lacrime”). Nel doppiaggio italiano l’affermazione viene completamente
stravolta, tramutandosi in “Sei riuscita
a liberarti di me” : non è difficile immaginare i motivi dietro a
quest’ennesimo obbrobrio dell’italico doppiare, sicuramente il nome di Gesù non
era gradito in quel contesto, ed è inutile dire che risulta invece assolutamente
coerente con uno dei sottotesti principali del narrato.
Hellraiser
è, al pari della scatola di Lemarchand, oggetto che si schiude solo a chi vuole
comprenderlo davvero, film enigmatico ed incompreso così come lo sarà Cabal:
d’altronde, anche il mondo di squisiti piaceri e tormenti mostrato dai Cenobiti
è privilegio di pochi, dunque ad essi ci abbandoniamo, paralizzati in una
smorfia di sofferente godimento.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Hellraiser
Uk - 1987
Regia: Clive Barker
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