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domenica 31 marzo 2013

Il mio articolo su "Kairo" (2001), di Kiyoshi Kurosawa, per Point Blank


il mio sguardo retrospettivo su "Kairo" (2001), caposaldo del j-horror, di Kiyoshi Kurosawa

pubblicato su Point Blank:

http://www.pointblank.it/?p=29522






 

Kairo (2001)

La spettrale solitudine di una Stanza Proibita


Kairo (che tradotto letteralmente significa “circuito”), pellicola del 2001 dunque ormai risalente a ben dodici anni fa, si staglia nella filmografia di Kiyoshi Kurosawa come una sorta di corpo estraneo, ectoplasmico come le inquietanti entità che lo popolano. Presentato nella sezione Un Certain Regard al 54 ° Festival di Cannes, resta punto cardine del J-Horror, che al tempo viveva il suo periodo più fulgido per poi esaurirsi in una ripetitività per molti versi preannunciata, reiterando stilemi di base che si sono, inevitabilmente, auto-fagocitati fino a rasentare il grottesco o il macchiettistico. Tuttavia, se oggi si sorride davanti all’ennesima ragazzina con i capelli lunghissimi sul volto, uno dei retaggi/debiti del genere verso il teatro Kabuki,  antica forma di rappresentazione popolare che è radice dell’horror nipponico, un decennio fa si veniva inesorabilmente colpiti, e terrorizzati, da quest’orrorifico rarefatto, costruito sulla gestualità, la mimica facciale, lo spavento-effetto mostrato prima della paura-causa, in un meccanismo dunque esattamente contrario a quello della messa in scena occidentale. 

Kurosawa esordì nel 1975, spaziando tra  tipologie filmiche assai diverse tra loro, dal pinku-eiga (l’erotico soft-core) alla commedia passando per il gangster-yakuza: è nel 1997, con l’ormai celebre thriller Cure, che la sua poetica prende forma e direzione precise, nell’essere metafisica, sospesa nel tempo e nello spazio, ed essenziale nel suo lavorare di sottrazione. Cure inaugurò, in un certo qual modo, la corrente j-horror contemporanea, un anno prima del celeberrimo Ringu, di Hideo Nakata, che ne consacrò le caratteristiche fondamentali, divenendone manifesto vero e proprio. Kairo, per molti versi, rimanda al suo illustre predecessore, manifestando al tempo stesso un’identità propria e peculiare che l’ha reso pellicola di culto, al punto da venire eletto “il miglior horror orientale del millennio” dagli utenti di Asian Feast, sito dedicato alla cinematografia del Sol Levante.

Ghost-story figlia della tradizione dei kwaidan, i racconti di fantasmi risalenti al periodo Edo (1603-1868) e al periodo Meiji (1868-1913) che si presentano come basi primordiali dell’orrorifico giapponese,  la pellicola è fautrice di un discorso assai più ampio e profondo, che va al di là della pura narrazione spaventevole di stampo sovrannaturale, basandosi su paure ancestrali reiterate nel mondo moderno, divenendone prole legittima. La solitudine, infatti, insieme alla sostanziale incapacità di comunicare tipica della società odeirna, è la vera protagonista del plot, che usa la figura dello spettro in quanto metafora di un’umanità disperata e votata a un isolamento dal quale non vi sono vie di fuga. Il concetto di aldilà viene prepotentemente inserito nel nostro mondo, nel contesto del reale, trovando incarnazione nello spazio delle stanza proibita, luogo-simbolo nel quale i morti si manifestano, il cui uscio è sigillato da nastro isolante rosso e che attira irresistibilmente i vivi in un continuo interscambio tra le due dimensioni. E’ proprio nella labilità di questo confine e nella fusione/identificazione tra il regno dei defunti e la realtà così come la conosciamo che il film diventa oggetto a sé, discostandosi dalle altre produzioni di genere e presentando una poetica del tutto innovativa; nella pellicola di Kurosawa, infatti, le entità appaiono tramite i computer e la rete Internet,  utilizzando un mezzo-macchina così come accadeva in Ringu con l’apparecchio televisivo, diffondendosi come vero e proprio contagio nell’invadere il mondo dei vivi che è simile e speculare al proprio. 

Defunti che infestano la Rete, qui portale di passaggio, sconfinando nel nostro territorio poiché “quando l’aldilà è zeppo, le anime sono obbligate a spostarsi nella nostra realtà”, concetto, inequivocabilmente, di Romeriana memoria. Le entità che vediamo in Kairo, terrificanti nelle loro movenze lentissime che le rendono eternamente sospese e presenti, sono spettri atipici, figure di raccordo tra Morte e Vita: si materializzano, per poi scomparire lasciando una macchia sul muro, un segno tangibile, organico, materiale e percepibile così come il loro agghiacciante chiedere “aiuto” attraverso un monitor o tramite un apparecchio telefonico. A differenza dei fantasmi tradizionali, che lasciavano volatili scritte sugli specchi rimanendo dunque relegati a un beyond quasi rassicurante poiché separato da questo mondo, gli umani ectoplasmi di Kurosawa comunicano con la voce e si muovono nello spazio, in una mortale pandemia che altro non è che specchio riflettente della vita stessa. “Le persone e i fantasmi sono la stessa cosa, che siano vive o no”, dice la giovane Harue, studentessa di informatica, a Kawashima, che a differenza degli altri personaggi del film rifiuta l’idea di thanatos, in uno slancio verso il vitale che lo porterà al tentativo disperato di strappare la ragazza al non-luogo di un morire eterno, nel quale ella vede i defunti come esseri che vogliono, semplicemente, renderci immortali.

Kairo dipinge dunque un cosmo a metà, recante una frattura tra vita e morte che è solo crepa sottilissima,  un territorio di confine in cui chi è vivo vorrebbe morire e chi è morto desidera tornare, alla perenne ricerca di qualcosa che non si riesce ad afferrare: da qui la solitudine, dei viventi e dei defunti, e l’incomunicabilità simboleggiata da quell’interazione fittizia di cui la Rete è portatrice.

L’ectoplasma diviene dunque corpo fisico, restando fedele all’eredità del già citato teatro Kabuki, basato, come del resto l’intero corpus stilistico del J-Horror, sulla mimica facciale e sulla gestualità, in una rarefazione del dialogo spesso trasformata in assoluto silenzio, spezzato soltanto da rumori di interferenza e sinistri lamenti. Lo scream che caratterizza l’orrorifico occidentale è qui sostituito da espressioni terrorizzate, ben più evocative di qualsiasi urlo lancinante, che nella messa in scena sono spesso mostrate prima della causa della paura, creando così quella disturbante inquietudine anticipativa propria del genere, che si riscontra, in Kairo, in soluzioni visive frutto di una meticolosa attenzione per l’inquadratura, vero e proprio studio la cui conseguenza sono personaggi sovente mostrati di spalle oppure parzialmente, in un terrore sussurrato e suggerito che si fa forte dell’attesa di un movimento, un gesto, un voltarsi. Nessun spavento facile in quest’opera, a differenza dei numerosi epigoni che giocheranno su apparizioni improvvise e prepotenti: qui domina una lentezza che agghiaccia ben più del balzo repentino, indugiando al fine di costruire un terrore basato anche sulla dilatazione temporale.

Il suono, e la sua natura sinistra e spaventevole, ha un ruolo preponderante, caratteristica comune a altri horror nipponici, Ringu in primis: è proprio la parsimonia con la quale l’elemento sonoro è utilizzato a renderlo così destabilizzante, l’alterazione e distorsione di voci e rumori che si insinuano nel silenzio del reale, risultando sconcertanti. Tòpos filmico che trova una delle sue origini anche nel cinema di genere italiano anni ’70, in special modo quello Argentiano.

Kairo è film che resta opera centrale nel panorama orrorifico orientale, pellicola cardinale in virtù del suo risultare, anche a distanza di anni, atipica e genuinamente spaventosa nell’ambito di un filone che, tra remake hollywoodiani e stilemi ripetuti all’eccesso, si è esaurito in modo naturale, seguendo un ciclo spontaneo: ha concluso, semplicemente, il proprio discorso, scegliendo di tacere poiché non restava altro da aggiungere.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Kairo
Giappone - 2001
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Data di uscita italiana: inedito in sala
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Il mio articolo su "I Soliti Sospetti" (1995) per Positifcinema


Per il nostro sguardo retrospettivo su Bryan Singer, la mia disamina de "I Soliti Sospetti"

pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/soliti-sospetti-di-bryan-singer







I Soliti Sospetti (The Usual Suspects) (1995)



L’importanza di chiamarsi Söze


“La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stata di convincere il mondo che lui non esiste”
(Charles Baudelaire)

Cinque criminali in fila per un confronto all’americana: è partito tutto da lì, da quella che è diventata l’immagine-simbolo de I Soliti Sospetti (The Usual Suspects), poiché è proprio da quest’idea visiva balenata nella mente dello sceneggiatore Christopher McQuarrie (collaboratore abituale di Singer in gran parte dei suoi lavori) mentre si trovava in coda davanti al botteghino di un cinema, che è nato lo spunto per quello che è considerato un film fondamentale nella cinematografia statunitense degli ultimi anni, un’opera spartiacque che è divenuta modello di un nuovo modo di rileggere (e stravolgere) le convenzioni del noir. Secondo lungometraggio di Singer, dopo il buon risultato dell’esordio con Public Access (1993), I Soliti Sospetti affonda le proprie radici nella tradizione, ossia nel cinema americano classico, in quelle che sono le regole e gli stilemi della sceneggiatura del noir hollywoodiano, per poi rimescolarle e collocarle in maniera diversa, con un risultato che spiazza e sorprende lo spettatore.   

Si vedano, in primis, le unità di tempo e luogo, scandite da didascalie che collocano la narrazione in tre ambiti spazio/temporali diversi: si comincia con “San Pedro, California – la scorsa notte”, dunque da quello che in realtà scopriremo essere l’epilogo della vicenda, ossia l’incendio al porto, cronologicamente vicinissimo, per proseguire con la seconda, la più importante: “New York – sei settimane fa”, segmento fondamentale nel quale ci viene mostrato il momento dell’arresto dei cinque protagonisti, il confronto all’americana che è uno dei perni del narrato e la presentazione dei personaggi tramite la voce narrante di Roger “Verbal” Kint (un Kevin Spacey a dir poco strepitoso, attorno al quale si sviluppa l’intero plot, che per il ruolo portò a casa un Oscar). L’ultima delle tre entità di spazio/tempo ci riporta al qui e ora del racconto :”San Pedro – oggi” , con quindici cadaveri carbonizzati e due superstiti, uno in coma, l’altro “uno zoppo di New York” (inutile dirlo, Verbal Kint). Da questo momento in poi gli snodi avvengono tra flashback e presente, senza bisogno di puntualizzazioni: questa è la prima destrutturazione del meccanismo del classico gangster movie, illudere lo spettatore di trovarsi di fronte a un’esposizione di stampo tradizionale, nella quale i cambiamenti cronologici e di ambientazione sono chiaramente sottolineati, un’ingannevole rassicurazione riguardo all’identità di ciò a cui si sta assistendo. Uno dei punti cardine del cinema di Bryan Singer è che nulla è ciò che sembra, e I Soliti Sospetti ne è l’esempio non solo più lampante ma anche più scopertamente analizzabile: la carte vengono rimescolate di continuo, in un gioco disorientante che può portare all’unica soluzione possibile, il colpo di scena finale, uno dei twist narrativi più riusciti e meno prevedibili che si siano visti sullo schermo da almeno trent’anni a questa parte.

L’altro elemento portante del noir USA anni ‘40/’50 a cui McQuarrie si rifà nella stesura dello script è la caratterizzazione dei personaggi, poichè ognuno di loro incarna quello che potremmo definire un enneatipo filmico, una tipologia psicologica (e fisica) precisa: “il capo” (Dean Keaton, un grande Gabriel Byrne), “il pazzo” (McManus, interpretato da Stephen Baldwin), “il violento” (Todd Hockney ossia Kevin Pollack), “il ribelle/disadattato” (Fred Fenster, il magnifico Benicio Del Toro), e infine “l’outsider”, lo storpio e apparentemente stupido, quel Roger “Verbal” Kint che sommessamente tira le fila di tutta la narrazione. Anche in questo caso, lo sceneggiatore cambia le regole, tornando al discorso Singeriano del “nulla è ciò che sembra”: il capo è solo un’apparenza e chi rimaneva nell’angolo, con la sua camminata claudicante, fingendo paura, stupore, idiozia, diventa l’elemento chiave, colui del quale nessuno avrebbe mai sospettato.  

Kayser Söze è nome profondamente evocativo costruito da McQuarrie con l’ausilio di un dizionario inglese/turco:  il suono germanico rimanda al concetto di sovrano assoluto, imperatore, e quel Söze è di per sé indizio, in quanto l’appellativo del personaggio può essere a grandi linee tradotto come “imperatore chiacchierone”, e Kint si è guadagnato il soprannome di Verbal per la sua tendenza a parlare troppo. Parola come simbolo, significante supremo in una pellicola in cui il linguaggio assume una valenza concreta, che si può definire fisica nella delineazione dei caratteri e delle situazioni (le parole di Fenster, ad esempio, sono quasi incomprensibili nel suo continuo bofonchiare): la figura di Kayser Söze acquista un’aura mitologica nel corso del plot, che si rafforza semplicemente con l’uso dell’espressione verbale, alla stregua delle leggende tramandate oralmente, radicandosi in modo inesorabile nel nostro immaginario. Un appellativo, due semplici sostantivi, che stanno a rappresentare il concetto centrale della poetica del regista, vale a dire il Male, nella sua accezione più profonda e definitiva. Il cinema di Bryan Singer, infatti, è un ampio e approfondito discorso sul coté maligno dell’essere umano, sull’oscurità che permea quelle zone dell’anima che cerchiamo sempre di celare agli sguardi altrui. Un Male già presente in Public Access, che in seguito assumerà le spoglie del diabolico storico per eccellenza, il nazismo, ne L’Allievo (1998) e in Operazione Valchiria (2008), e che in questa pellicola raggiunge la sua apoteosi espressiva, dipingendo Kayser Söze come “il diavolo in persona”, mitizzandone le gesta attraverso un flashback che lo vede guerriero epico, personaggio che è probabilmente solo una leggenda tramandata tra criminali ma che è terrificante sopra ogni altra cosa ("Non credo in Dio ma ne ho paura. Beh, a dire il vero ci credo, ma l’unica cosa che mi spaventa è Kayser Söze”, dice Verbal al detective Kujan, l’ottimo Chazz Palminteri, nel corso dell’interrogatorio che attraversa il film e che è primo, grande indizio di quello che sarà il twist dell’epilogo) .

Emblematica la citazione da Charles Baudelaire, che dona ulteriore vigore alla natura demoniaca e sovrannaturale del personaggio di Söze, ambiguo fin da prima della sua rappresentazione: Singer disse a ognuno degli attori principali che avrebbe interpretato il ruolo cardine, con successivo grande disappunto di Byrne; la mitizzazione ha dunque luogo a partire dall’extradiegetico, dagli albori della lavorazione, generando così il medesimo senso di spiazzamento provato dallo spettatore.

Il celeberrimo finale, la rivelazione che rovescia il modo in cui l’intero film è percepito (le visioni successive alla prima, infatti, saranno inevitabilmente condizionate dalla consapevolezza) è da manuale di cinema, in un gioco di campi e controcampi, parole che tornano alla mente di Kujan, la geniale chiusura di un cerchio costruita anch’essa sull’espressione verbale, su singoli vocaboli apparentementi insignificanti che, improvvisamente, assumono un’importanza assoluta.
Una  pellicola che può essere definita seminale nella concezione del noir moderno, modello visivo e narrativo che ha influenzato molti epigoni successivi, spesso definito “meccanismo a orologeria”, in realtà composto da cerchi concentrici che conducono a quello che è il cuore oscuro dell’opera: l’identità di Kayser Söze.           
  
Chiara Pani
(araknex@email.it)

Titolo originale: The Usual Suspects
USA - 1995
Regia: Bryan Singer
Data di uscita italiana: 30 Novembre 1995
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lunedì 11 febbraio 2013

Il mio articolo su "Hellraiser" (1987), di Clive Barker, per Horror.it


pubblicato su Horror.it:

http://www.horror.it/a/2013/02/hellraiser-1987/







Hellraiser (1987)


“No, niente lacrime! Non si deve sprecare così la sofferenza”
(Pinhead)



Hellraiser, primo lungometraggio diretto dallo scrittore Clive Barker dopo i corti Salome (1973) e The Forbidden (1978), tratto dal suo racconto The Hellbound Heart (Schiavi dell’Inferno, 1986), rappresenta un elemento atipico nel panorama horror anni ’80: se il personaggio di Pinhead è ormai annoverato tra i “nuovi mostri” del cinema di genere, in special modo in Gran Bretagna (paese d’origine di Barker e patria del film) e negli Stati Uniti, comparendo su magliette e gadgets di ogni tipo, vero è, d’altro canto, che la reale potenza e complessità di questa pellicola, per molti versi superiore allo scritto, non è mai stata compresa appieno dal grande pubblico, in special modo nel nostro Paese.

Troppo adulto per un’audience teenageriale, che è quella a cui, erroneamente, la distribuzione mira quando si parla di genere orrorifico, Hellraiser è stato apprezzato per il suo lato gore e splatter, peraltro non eccessivo, ma è rimasto nel limbo dei film non completamente metabolizzati, poiché la sua stratificazione di significati e riferimenti andava ben oltre il semplice effetto visivo ed è stata accolta soltanto da una nicchia di pubblico, che già conosceva le opere e le tematiche dell’autore o che era comunque più aperta ad una tipologia filmica completamente diversa dai vecchi schemi.

Clive Barker (nato a Liverpool nel 1952, dunque trentaquattrenne all’epoca della pubblicazione della novella che darà vita a Hellraiser) esordisce come scrittore nel 1984 col primo dei celeberrimi Libri di Sangue, antologie di racconti agghiaccianti, che hanno il dono di restare ancorati all’inconscio del lettore, caratteristica che diventerà palese nel successivo romanzo, The Damnation Game (Gioco Dannato, 1984), personalissima rilettura del mito di Faust. Fin da queste prime opere la cifra stilistica che ora definiamo Barkeriana è già intuibile, gettando dunque le solidissime basi di quella che diverrà la sua poetica nella letteratura horror (da non dimenticare, infatti, le incursioni dell’autore in altri generi, il fantasy in primis).

Schiavi dell’Inferno è una narrazione breve (164 pagine) e asciutta che tuttavia sortisce l’effetto di essere efficacemente descrittiva, delineando alla perfezione personaggi e contesti; Barker la rielabora in forma di sceneggiatura per la preparazione delle riprese del film, apportando cambiamenti sia per volere della produzione (ad esempio, nella parte finale: nello scritto, i Cenobiti si comportano in modo equo, mantenendo la promessa e lasciando andare Kirsty, mentre nel film continuano a volerla portare con loro), sia per renderla più funzionale alla forma filmica. Nella pellicola vediamo dei caratteri maggiormente a tutto tondo, privi delle sfumature presenti nel racconto, eccezion fatta per Julia (Clare Higgins), che, contrariamente alla donna bella e vagamente  bamboleggiante di Prigionieri Dell’Inferno, dà al ruolo una qualità austera, crudele, una vera femme fatale schiava di una passione che la renderà mostruosa. La stessa Kirsty (Ashley Laurence) in Hellraiser riveste le tipiche caratteristiche dell’eroina positiva, in contrapposizione a Julia, venendo dunque privata delle ambiguità che la contraddistinguevano nello scritto Barkeriano.

Hellraiser è, come già detto in precedenza, opera complessa e non così immediata come potrebbe apparire. I Cenobiti (dal latino cenòbium, vita in comune) sono, nella realtà, monaci cristiani ortodossi le cui prime comunità risalgono al IV secolo, che vivono secondo una rigida disciplina; per Barker non fu dunque necessario spiegare, almeno in questo primo film, le origini di queste creature, poiché il loro nome disvela già molto: non è azzardata l’ipotesi che l’autore abbia voluto donare ai suoi personaggi una caratteristica sacrale, considerandoli un vero e proprio ordine religioso, in questo caso di natura infera, nel quale l’esplorazione delle sensazioni più estreme viene compiuta al fine di raggiungere uno stato di estasi suprema, che il Cristianesimo definirebbe beatitudine.  Lo stesso personaggio di Pinhead (il memorabile Doug Bradley) , sia nel libro che nel film non è indicato con questo nome: nel racconto, non è nominato, e non è figura di spicco rispetto agli altri Cenobiti, mentre nei titoli di coda di Hellraiser compare come lead cenobite. La denominazione di Pinhead nacque da un soprannome, che fu poi utilizzato nei sequel; Barker lo definì “indegno” e per i fumetti tratti dalle pellicole, pubblicati negli Stati Uniti dalla BOOM! nel 2011, utilizzò l’appellativo che aveva scelto nella prima fase di sceneggiatura: “Priest”, Prete, a sottolineare ulteriormente il carattere ieratico del personaggio.

L’entrata in scena dei Cenobiti, che ha luogo solo nell’ultima mezz’ora di narrato (nonostante compaiano, brevemente, già nell’incipit), è infatti meravigliosamente solenne, sottolineata da cupissimi rintocchi di campane, e appare realmente come qualcosa di sacro e temibile. Qui si ritrova, probabilmente, la differenza più notevole tra libro e opera visiva, ciò che rende la seconda superiore al primo: nel film, li vediamo, in tutta la loro terrificante bellezza. Le poche parole pronunciate da Pinhead sono sufficienti a svelarci la loro natura ambivalente (“demoni per alcuni, angeli per altri”), a raccontarci il loro Mondo, nel quale Piacere e Dolore si fondono fino a diventare una cosa sola.

La sofferenza come estasi suprema è tematica centrale, palese richiamo al sadomasochismo: non a caso, dopo il rifiuto da parte della produzione dell’utilizzo del medesimo titolo del libro, The Hellbound Heart, poiché giudicato un po’ troppo romantico, Barker propose la dicitura, decisamente più forte, di “Sadomasochists from Beyond the Grave” (“I Sadomasochisti dall’Oltretomba”), rifiutata anch’essa per il contenuto sessuale eccessivamente esplicito. Dagli abiti in pelle e pvc dei Supplizianti/Cenobiti fino alle torture con ganci e catene, ogni cosa ha un sapore di sesso e dolore, piacere e patimento, tipica delle pratiche bdsm. Il rapporto tra Julia e Frank (Sean Chapman, viscidamente fascinoso) è proprio di tale natura, che vede lui in quanto elemento dominante e la donna dipendente in tutto e per tutto dalla sua volontà; è relazione ambigua, basata sull’attrazione sessuale e nata proprio alla vigilia delle nozze fra lei e Larry (Andrew Robinson), padre di Kirsty e vedovo della prima moglie; è una passione feroce e divorante per Julia, che non vede Frank da anni ma non ha mai smesso di pensarlo.

Un passo indietro, a questo punto, è d’obbligo per arrivare alle origini di ciò che rappresenta il cuore di Hellraiser: la scatola di Lemarchand o Configurazione del Lamento, oggetto-puzzle tramite il quale, una volta trovata l’esatta combinazione, si spalancano le porte della dimensione parallela (definita Inferno nel primo film, Labirinto nel secondo) abitata dai Cenobiti. La riuscita nella risoluzione dell’enigma è legata all’intensità del desiderio di venirne a capo, particolare che nella trasposizione filmica viene tradito poiché anche Kirsty, quasi casualmente, la schiude.

Hellraiser inizia in un luogo non precisato del Nord Africa, in cui vediamo Frank acquistare l’oggetto da un mercante asiatico; nell’inquadratura successiva, è nel solaio di una casa disabitata (che si rivelerà poi essere la dimora di Larry e Julia): nel momento in cui la puzzle box si muove, dei ganci affondano nella sua carne. Frank, dunque, resta sempre in quel luogo, seppur in una realtà altra: farà ritorno, completamente divorato dalle torture dei Supplizianti, grazie a qualche goccia di sangue di Larry, feritosi accidentalmente. Per tornare in forze necessita di altro plasma, e Julia inizia ad uccidere: dalla passione si passa quindi ad una forma di Amore deviato da parte della donna, nel quale lei è soltanto un tramite, usato da Frank per ottenere uno scopo ben preciso.
Ciò che il film non svela, a differenza del libro, è la motivazione che spinge Frank ad impossessarsi della Configurazione del Lamento: l’uomo ha sperimentato ogni lussuria terrena al punto di esserne saturo, e non può resistere a ciò che la scatola promette, ossia piaceri inimmaginabili. E’ questo dunque, che lo muove verso la dimensione Cenobita, che lo trascina al cospetto dell’idea di massimo godimento come tutt’uno con la più atroce delle sofferenze fisiche; essi stessi sono a loro volta perennemente suppliziati: i loro volti e corpi sfigurati (Chatterer, Butterball), oppure flagellati da spilli o altri strumenti di deliziosa tortura (Pinhead, la Cenobita Femminile).

Il concetto di sadomasochismo non è per tutti i palati, soprattutto se inserito nel contesto di un horror che la produzione e la distribuzione avrebbero voluto indirizzare ad un pubblico giovane: Hellraiser è, per contro, un film profondamente adulto, non a caso scritto da una persona che aveva superato i trent’anni, e che da lì a poco, all’inizio degli anni ’90, avrebbe dichiarato pubblicamente la propria omosessualità, in un’epoca in cui l’ ”outing” non era ancora una moda bensì un atto coraggioso in una società moralista e bigotta. I preconcetti superficiali e pruriginosi si sono sprecati, ad esempio nell’affiancare la sua “diversità” (?) sessuale con la filosofia sadomaso presente nel film. Il significato , con tutta probabilità e come già accennato, è di natura più complessa e vicino a terreni teologico-religiosi:il concetto di sofferenza come strada verso l’estasi mistica è infatti presente non solo in culti (primitivi e non) di ogni parte del mondo, ma è palese nel Cristianesimo stesso, nelle figure dei martiri, e nelle auto-flagellazioni ancora oggi praticate da alcuni fedeli in cruente cerimonie di devozione estrema.  

Il tema della diversità, che sarà preponderante in Cabal (Nightbreed)  (1990) è comunque presente, non soltanto nelle figure dei Supplizianti, sommi sacerdoti del Dolore, dunque eletti, differenti poiché superiori, ma è evidente in Frank, individuo corrotto e lascivo, nauseato da ciò che la vita gli offre, desideroso di superare gli stretti confini di ciò che gli sta attorno. E’ ingordigia edonistica ciò che lo spinge a risolvere l’enigma della Configurazione del Lamento, brama che vedrà una punizione nelle torture che dovrà subire: c’è dunque qualcosa di un novello Prometeo in Frank, uomo che ha voluto spingersi troppo oltre per poi ritrovarsi a patire i supplizi inferti dai Cenobiti, qui strani e sinistri Dei.

La pellicola è stata realizzata con un budget relativamente ridotto (un milione di dollari), fattore che non ha influito sulla qualità degli effetti speciali (ad opera di Cliff Wallace e, non accreditati, Dave Chagouri e lo stesso Barker in veste di animatori) se non nelle scene finali, nel punto della lavorazione in cui i fondi erano esauriti e il regista e Chagouri hanno dovuto improvvisarsi nell’animazione, nel giro di un weekend e con abbondante alcool in circolo.
La regia è abile, tenendo conto che Hellraiser è stato girato quasi interamente all’interno della casa, il che ha spinto Barker a dover essere creativo con le scarse risorse a sua disposizione: spesso c’era spazio per una sola macchina da presa, e questo spiega perché molte inquadrature siano riprese da un’unica angolazione; inoltre, il movimento in verticale era sovente l’unico possibile, ecco dunque le zoomate ed il punto di vista dall’alto rispetto ai personaggi.  

Com’è noto, lo score del film fu originariamente composto dalla band industrial dei Coil, e Barker era entusiasta del risultato. La produzione purtroppo lo rifiutò, optando per una musica più tradizionale composta da Christopher Young. Il lavoro dei Coil fu pubblicato come The Unreleased Themes For Hellraiser e a tutt’oggi è una rarità; le tracce create dalla band sono incredibilmente suggestive, rarefatte, dal sapore esoterico, in poche parole perfette per l’opera. Ascoltandole, chiudendo gli occhi, non si può far altro che immaginare il lento incedere dei Cenobiti ed essere percorsi da un brivido. Tuttavia, lo score di Young, per quanto non all’altezza dei magnifici suoni dei Coil, riesce ad essere efficace: orchestrale, parte in sordina per poi esplodere in un magniloquente e sinistro crescendo, donando alle apparizioni delle creature una qualità magica ulteriormente accentuata.     

Un aneddoto curioso riguarda la frase finale del film, pronunciata da un Frank (che “indossa” la pelle di Larry) dilaniato dai Supplizianti, mentre si lecca le labbra lascivo, davanti agli occhi di Kirsty: l’attore Andrew Robinson (Larry), convinse  Barker a cambiarla rispetto alla sceneggiatura, che prevedeva un secco “Fuck You”, sostituendola con il più evocativo “Jesus wept” (“Gesù versò delle lacrime”). Nel doppiaggio italiano l’affermazione viene completamente stravolta, tramutandosi in “Sei riuscita a liberarti di me” : non è difficile immaginare i motivi dietro a quest’ennesimo obbrobrio dell’italico doppiare, sicuramente il nome di Gesù non era gradito in quel contesto, ed è inutile dire che risulta invece assolutamente coerente con uno dei sottotesti principali del narrato.

Hellraiser è, al pari della scatola di Lemarchand, oggetto che si schiude solo a chi vuole comprenderlo davvero, film enigmatico ed incompreso così come lo sarà Cabal: d’altronde, anche il mondo di squisiti piaceri e tormenti mostrato dai Cenobiti è privilegio di pochi, dunque ad essi ci abbandoniamo, paralizzati in una smorfia di sofferente godimento.    

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Hellraiser
Uk - 1987
Regia: Clive Barker