mercoledì 12 dicembre 2012

La mia recensione di "The Angels' Share" (La Parte degli Angeli) (2012), di Ken Loach, per Positifcinema


pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/la-parte-degli-angeli-the-angels-share-di-ken-loach









The Angels’ Share (La Parte degli Angeli) (2012)



Anche gli angeli bevono whisky




The Angels’ Share, per gli scozzesi, è la quantità annua (il 2%) di alcool che evapora nell’aria all’apertura delle botti di whisky, andando quindi perduta, e diventando poeticamente “la razione degli angeli” (ancora una volta, la titolazione italiana ha fallito l’obbiettivo di risultare efficace). Una neonata passione per la degustazione del liquore biondo e la scoperta di possedere un olfatto non comune sono le armi del riscatto sociale di Robbie (ottima prova di Paul Brannigan, che gli è valsa una nomination ai Bafta Awards), tematica che è leit-motif di molto cinema britannico degli ultimi anni (dallo strip tease di Full Monty alla danza classica di Billy Elliott): il coltivare un proprio talento, reinventarsi per cambiare vita ed uscire da situazioni opprimenti. Una classica trama favolistica, dunque, che è ormai diventata cliché troppo abusato, anche nelle mani esperte di Ken Loach.

E’ un retrogusto non piacevole, per rimanere in metafora alcoolica, quello che resta in bocca alla fine della visione di questa pellicola già presentata a Cannes, e depennata all’ultimo minuto dal Torino Film Festival a causa del (più che condivisibile e assolutamente coerente) rifiuto del Premio alla Carriera da parte del regista, per solidarietà con i lavoratori del Museo del Cinema: ci si trova di fronte ad una commedia a sfondo sociale, ben realizzata e recitata, fatta “per divertire e far pensare”, ma da Loach è lecito aspettarsi molto di più, se si ripensa a titoli come Ladybird, Ladybird, che erano veri e propri pugni nei pasciuti stomaci degli spettatori. Già da un po’ di tempo a questa parte il grande regista britannico aveva smesso di azzannare come in passato, realizzando alcune opere appannate e deludenti; ma come sempre avviene durante il declino dei Maestri, non ci si rassegna, e si attende l’opera che dia di nuovo l’impennata, che torni a colpire nel profondo e a far esclamare “ecco, è tornato”

The Angels’ Share, co-produzione in cui figura anche il nostro Paese, non riesce ad affondare il colpo, restando ad un livello superficiale, con qualche ottimo e graffiante momento, ma nulla di più.
Si narra la storia di Robbie, giovane che porta sulle spalle una vita fatta di precedenti penali dalla quale cerca una via di fuga, ora che ha una compagna, Leonie (Siobhan Reilly) ed è diventato padre. Il passato lo perseguita, gli errori che ha commesso sembrano non volerlo abbandonare, e la famiglia della ragazza lo rifiuta, intimandogli in continuazione (e non con le buone maniere) di stare lontano sia da lei che dal bambino. Condannato ai lavori socialmente utili per aver pestato a sangue un ragazzo, viene affidato, insieme ad altri colpevoli di reati minori, alla supervisione di Harry (un intenso John Henshaw in un ruolo ricorrente nel cinema di Loach): l’uomo prende a cuore il ragazzo, e lo inizia alla passione per la degustazione del whisky, che si rivelerà contagiosa anche per il resto del gruppo. La figura di di Harry è una delle più riuscite, ma non riesce a slegarsi dall’aria di risaputo che impregna l’intero film: l’atteggiamento protettivo e bonario verso Robbie, dettato da una solitudine che non vuole si impossessi anche del giovane, è schema troppo rigido e scontato e non dona sufficiente profondità alla delineazione del ruolo. 

Alcuni personaggi sono eccessivamente macchiettistici (Albert, il ragazzo non troppo sveglio, su tutti), e si pecca di eccessivo buonismo. Le zampate di critica sociale restano, ma sono ormai troppo stereotipate per convincere e non lasciano una traccia profonda; si sorride, ma non si può fare a meno di pensare che ciò che si sta guardando è un’ombra pallida delle grandi opere di Loach. Delude anche Paul Laverty, suo fedele sceneggiatore, che ha imbastito un narrato scialbo e privo di mordente, destinato a scorrere via in un batter d’occhio.

Di buono, rimane l’azzeccatissima sequenza iniziale, che vede Albert ubriaco sulle rotaie del treno prima dell’arresto, e la trascinante I’m Gonna Be (500 miles) dei Proclaimers. La regia è come sempre impeccabile e la fotografia nitida e realistica di Robbie Ryan è un piacere per gli occhi ma sfortunatamente non sono sufficienti a salvare il tutto.   
Un film, purtroppo, non riuscito, riscattato, nella realtà, dal gesto forte e significativo che Loach ha compiuto in occasione del Festival torinese: segno che è ancora capace di graffiare, se solo lo volesse.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

The Angels' Share

Uk/Francia/Belgio/Italia - 2012
Regia: Ken Loach
Data di uscita italiana: Giovedì 13 Dicembre 2012

sabato 8 dicembre 2012

La mia recensione di "Maniac" (2012) di Franck Khalfoun per CineClandestino - Torino Film Festival XXX edizione



pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/maniac.html





Maniac (2012)


Timid Man




Aveva tutta l’aria di una scommessa persa in partenza questo remake del cult movie di William Lustig, Maniac, pellicola di per sé non riproducibile per l’unicità delle atmosfere malsane e di un protagonista/simbolo, l’indimenticabile Joe Spinell (anche co-sceneggiatore e co-produttore del film) nel ruolo di Frank Zito, personaggio che si era cucito addosso alla perfezione e al quale aveva donato sfumature e caratteristiche divenute perno centrale dell’opera. La pachidermica fisicità dell’attore italo-americano (il cui vero nome era Joseph J. Spagnuolo, morto nel 1989 a soli a 52 anni) entrava in netto contrasto con la debolezza interiore di Frank, oppresso dall’immaginaria voce della madre defunta in schizofrenici e conflittuali dialoghi/monologhi che erano la spinta primaria delle sue pulsioni omicide.

Maniac rappresenta tuttora, per Lustig (che è tra i produttori del remake), il lavoro più riuscito in una carriera mediocre, frutto dell’alchimia di una serie di fattori felici che diedero vita a un vero e proprio oggetto di culto per schiere di appassionati. Rifare una pellicola del genere era dunque impresa non facile, assai diversa dalla produzione seriale di brutti film fotocopia dei classici horror e slasher ad uso e consumo di un pubblico di adolescenti troppo occupati a masticare popcorn: il remake di Maniac era atteso al varco con una buona dose di pregiudizi negativi, che lo vedevano già sconfitto in partenza, anche per la scelta del nuovo protagonista, un Elijah Wood troppo vicino al cinema mainstream e lontano anni luce da ciò che Joe Spinell ha rappresentato per il personaggio.


Contro ogni aspettativa, invece, il film riesce a soprendere, rivelandosi rilettura intelligente e riuscita. Diretta da Franck Khalfoun (suo il non eccelso -2 Livello del Terrore) e prodotta dall’ex-enfant prodige Alexandre Aja, anche autore dello script insieme al fidato Grégory Levasseur e a C.A. Rosenberg, l’opera evita abilmente le trappole più insidiose, accantonando la pretesa di essere replica dell’originale bensì imboccando una strada diversa, che si rivela azzeccata.
Maniac versione 2012, presentato con successo alla 30° edizione del Torino Film Festival all’interno della sezione Rapporto Confidenziale, quest’anno densa di horror, non possiede la carica malsana del film di Lustig poiché l’atmosfera è qualcosa di non ripetibile: l’intelligenza dell’operazione si ritrova nel creare dei differenti punti di forza, dando vita ad una pellicola che omaggia l’originale rendendosi al tempo stesso autonoma. La scelta di Wood per il ruolo di Frank Zito si rivela ottima, in quanto il suo aspetto fragile ed indifeso esteriorizza ciò che il massiccio corpo di Spinell teneva nella sfera interiore: entrambi, infatti, sono visti come “anime gentili” dal personaggio di Anna (qui interpretata da Nora Arnezeder), e in questo film tale caratteristica è accentuata; l’aspetto del nuovo Frank, inoltre, ispira fiducia nelle sue vittime, che non lo temono, creando così un contrasto maggiore tra apparenza e reale personalità del killer.


La narrazione viene attualizzata in modo non posticcio, senza mai scadere nell’imitazione fine a se stessa, citando la pellicola-genitrice con trovate efficaci e talvolta sorpredenti, calando la vicenda ai nostri giorni e rendendola del tutto credibile.
La vera innovazione del Maniac di Khalfoun si denota nella tecnica di ripresa: il film è girato per gran parte in soggettiva, dunque dal punto di vista di Zito, mostrato raramente  in terza persona e il più delle volte riflesso da specchi, a rappresentare la pallida proiezione di una personalità disgregata. Il P.O.V. del killer, a differenza di quanto accade nella maggioranza delle pellicole orrorifiche, crea in questo caso un intervallo di distacco emotivo tra spettatore e personaggio, poiché mostra l’efferatezza dei crimini commessi dissociandoli dalla sua figura: la fisicità fanciullesca di Elijah Wood infatti, unita alla parte di narrato sulla sua infanzia, provoca empatia da parte di chi guarda, una sorta di pietà indulgente verso un individuo che è criminale, ma al tempo stesso dilaniato da sensi di colpa e schiacciato da una vita orribile.


L’elemento dei manichini ricopre un ruolo ancora più centrale rispetto al film di Lustig, rendendoli compagni di vita quasi umanizzati, e assai importanti nel legame che si instaura tra Frank e Anna. La relazione tra i due è rappresentata in modo non superficiale e senza lesinare cinismo, attraverso la lente deformante del punto di vista di Zito, dunque col filtro della sua mente disturbata.


Maniac ha un ritmo lento, poco accattivante, con alcuni tempi morti che contribuiscono tuttavia a renderlo ancora più disturbante e paranoico; il gore è offerto a giuste dosi, sempre funzionale alla narrazione e mai gratuito, in un film che unisce un plot robusto a un visivo affascinante e non patinato, grazie alla fotografia volutamente sporca ad opera di Maxime Alexandre, anche lui presenza fissa nello staff di Aja. Una nota a parte merita il magnifico score, composto da Rob, pseudonimo del francese Robin Coudert, il quale dà vita ad un tappeto sonoro elettronico perfetto per le immagini, ulteriore valore aggiunto in una pellicola assolutamente notevole.


Una prova ampiamente superata a dispetto delle scarse aspettative, la dimostrazione di come dovrebbe essere realizzato un remake, rendendolo oggetto a sé stante senza sganciarlo dalle proprie origini ed evitando, soprattutto, di cadere nella facile trappola della ridicola imitazione.  

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Maniac
Francia/USA - 2012
Regia: Franck Khalfoun

mercoledì 5 dicembre 2012

La mia recensione di "Call Girl" di Mikael Marcimain per CineClandestino - Torino Film Festival XXX edizione


pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/call-girl.html










Call Girl (2012)


L’ipocrisia della libertà



Ispirata al fatto di cronaca noto come lo scandalo Bordellhärvan, che scosse la Svezia nel 1977, Call Girl, co-produzione nordeuropea diretta da Mikael Marcimain, al suo esordio nel lungometraggio, è un’opera affascinante, complessa e stratificata, in cui i forti echi di un certo cinema americano politicamente impegnato (in primis Tutti Gli Uomini Del Presidente, di Alan J. Pakula, del 1976) si mescolano in modo assai efficace a un dramma personale, con una cifra stilistica peculiare che dimostra una grande padronanza del mezzo filmico, sebbene si tratti di un’opera prima. 

Lo svedese Marcimain ha al suo attivo un’importante esperienza come regista di seconda unità in La Talpa (2011), di Tomas Alfredson, altra pellicola che è influenza tangibile, sia dal punto di vista del narrato che a livello visivo, per la ricostruzione impeccabile delle ambientazioni dell’epoca, perizia che al Torino Film Festival è valsa il Premio Bassan – Arti e Mestieri alla scenografa Lina Nordqvist, che ha svolto un lavoro eccelso nel ricreare minuziosamente le atmosfere del decennio ‘70, in modo così efficace da far credere allo spettatore di trovarsi di fronte ad un girato realmente realizzato in quegli anni.

La storia di  Iris (Sofia Karemyr, splendida esordiente) e di sua cugina Sonja (Josefin Asplund, già vista nel Fincheriano Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne), quattordicenni dai trascorsi famigliari travagliati, affidate alla casa minorile Alsunda, sorta di struttura-modello che ha il reale scopo di proteggere i propri ospiti, oltre che tenerli sotto sorveglianza, lasciando loro nel contempo una certa dose di libertà. E’ proprio tramite alcune compagne dell’Alsunda che, durante una serata in città, le due ragazze si ritrovano in un ambiguo festino nel corso del quale incontrano Dagmar Glans, interpretata da una superlativa Pernilla August (Gli Innocenti,  Star Wars – La Minaccia Fantasma), carismatica maîtresse a capo di un grosso giro di prostituzione d’alto bordo. La donna è abile nel far presa sulle due giovani, sostanzialmente ingenue, coprendole di attenzioni (con una spiccata preferenza per Iris) e auto-definendosi “mamma”, in un gioco ipocrita e meschino, nel quale le neo-squillo sono soltanto pregiata carne fresca per i suoi facoltosi e potenti clienti.

Clientela che vanta nomi altisonanti, tra cui il Ministro della Giustizia ed altre personalità politiche piuttosto in vista; tra denaro facile ,feste di lusso e hotel a cinque stelle, per Iris e Sonja è facile perdere il contatto con la realtà che le circondava fino a poco tempo prima. Le fughe notturne da Casa Alsunda diventano una prassi, ma l’ebbrezza della nuova vita dura poco, poiché l’altra faccia di una medaglia perversa non tarda a manifestarsi: sesso svogliato e squallido con uomini viscidi e attempati, droga e alcool che diventano coadiuvanti necessari e la Glans che da pigmaliona fintamente affettuosa e protettiva arriva a mostrare il suo vero volto di donna tirannica e priva di qualsiasi scrupolo.

La vicenda personale di Iris e Sonja è soltanto uno dei binari percorsi da Marcimain nel suo racconto ad incastri, ingrandimento di un dettaglio interno ad una narrazione ramificata, nella quale ogni elemento è perfettamente funzionale agli altri, anche per merito dell’eccellente e robusta sceneggiatura firmata da Marietta von Hausswolff von Baumgarten, al suo primo script cinematografico. Due minorenni in un giro di prostitute frequentato da uomini potenti: l’ispettore di polizia Sandberg (John Berger), è determinato a portare avanti le indagini sul caso, scontrandosi con  un muro di ostracismo da parte dei superiori non appena vengono alla luce i grossi nomi coinvolti. Lo  attenderà una fine tragica, per essersi spinto troppo oltre.
 
Call Girl non si limita a ricordare, denunciandolo, un episodio scomodo della recente storia svedese, ma mette alla berlina l’intero sistema sociopolitico della nazione in una data epoca, mostrando, con malcelato sarcasmo, sia le campagne elettorali a favore della parità dei sessi, che le dichiarazioni di proposte di leggi che depenalizzano stupro e pedofilia, il tutto come background del narrato principale, ossia lo sfruttamento della prostituzione: il paese-simbolo della liberalizzazione sessuale mostra dunque il suo volto ipocrita e segnato da troppe cicatrici.
 
Lo stile di Marcimain è raffinatissimo, non esente da qualche virtuosismo di troppo ma estremamente abile nell’affrescare un racconto che si dipana con un ritmo lento ed inesorabile (lodevole il montaggio, ad opera di Kristofer Nordin) per ben 140 minuti, senza mai annoiare lo spettatore, riuscendo sempre a sorprenderlo e ad ancorarlo a ciò a cui sta assistendo.
 
Graziato da alcune trovate visive di rara efficacia (tra cui l’uccisione di Sandberg, e il zoom out d’apertura, che da uno schermo televisivo catapulta il racconto nella dimensione del reale), con la magnifica fotografia vintage di Hoyte Van Hoytema ed un ossessivo score elettronico composto da Mattias Bärjed, Call Girl segna dunque l’esordio di un cineasta da tenere d’occhio, dal talento non comune e capace di orchestrare un apparato visivo potente e rigoroso.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

 

lunedì 3 dicembre 2012

La mia recensione di "The Land Of Hope" (Kibô no kuni), di Sion Sono per Positifcinema - Torino Film Festival XXX edizione


pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/30tff-the-land-of-hope-di-sion-sono









The Land Of Hope (Kibô no kuni) (2012)


La Sottile Linea Gialla




Nel corso della scorsa edizione del Torino Film Festival, il grande Sion Sono era stato, degnamente e doverosamente, omaggiato con una retrospettiva all’interno della sezione Rapporto Confidenziale, dando modo al pubblico di avvicinarsi ad un regista poco conosciuto dalle nostre parti. Ancora ebbri dalla splendida carrellata di opere presentate nel 2011, la manifestazione ci dona la nuova pellicola del cineasta nipponico, Kibô no kuni (The Land Of Hope il titolo internazionale) nella quale Sono ritorna, dopo il magnifico Himizu, a toccare il delicato tasto del disastro della centrale nucleare di Fukushima, causata dal terremoto e maremoto del Tōhoku l’11 Marzo del 2011, dunque vicinissima nel tempo e minaccia tangibile.
Il ritorno di un incubo in realtà mai cessato nella coscienza collettiva giapponese, indelebilmente segnata dagli olocausti di Hiroshima e Nagasaki, sempre presenti nella filmografia di una nazione troppo addolorata,seppur  in dignitoso silenzio, per poter dimenticare.
 
The Land Of Hope è dunque strettamente legato alla pellicola precedente, non solo nelle tematiche ma in quanto inizio di un nuovo percorso stilistico e narrativo di Sion Sono, di cui si ricorderanno le opere più estreme e visionarie (Strange Circus, Suicide Club) nelle quali il cinema di Sono asseriva prepotentemente la sua unicità, passando da suggestioni erotico/perverse a pulsioni violente non represse, in un immaginario visivo completamente personale e spesso onirico.
Le due opere più recenti battezzano il passaggio ad una forma filmica apparentemente lineare, spogliandosi così degli (splendidi) eccessi che avevano finora caratterizzato la poetica del regista: The Land Of Hope è straordinario ritratto del dolore che permea l’anima Giapponese, narrato tramite la vicenda di due famiglie, gli Ono (composta dagli anziani genitori, il figlio Yoichi e sua moglie Izumi, in attesa di un bambino) e i Suzuki, una giovane coppia. Le loro tranquille esistenze  vengono stravolte dall’esplosione di un reattore nucleare causata da un terremoto: l’abitazione degli Ono tuttavia, resta all’esterno, esattamente sul limite, dell’area di 20 km entro cui le autorità considerano necessaria l’evacuazione. La linea gialla che separa il territorio “sicuro” da quello che non lo è si colloca proprio davanti alla loro fattoria, escludendoli dalla zona a rischio: il padre ordina dunque al figlio e a sua moglie di lasciare Nagashima, affinchè non vengano contaminati dalle radiazioni, anche e soprattutto per il bene del bambino in arrivo. L’assurdità di quel confine, posto come se l’aria potesse mutare nel raggio di pochi metri, rappresenta l’ottusità grottesca di certe leggi, dunque un’ aspra critica nei confronti di un governo assente e incurante del proprio popolo.
Mitsuro Suzuki e la sua fidanzata Yoko si trovano costretti a lasciare Nagashima, iniziando così a vagare tra le rovine e i detriti, alla ricerca dei propri congiunti dispersi.
La famiglia Ono resta sola, isolata dai paletti che segnano la divisione tra le due aree, ma non perde la speranza, che è tema fondamentale del film: la decisione del capofamiglia rappresenta infatti la fiducia nel futuro, con una nuova vita che vedrà la luce e che dovrà crescere in un ambiente non contaminato. Il personaggio di Izumi assume dunque grande rilievo: donna in attesa, lontana da una Nagashima ormai bollata come luogo radioattivo e di conseguenza trattata, insieme al marito Yoichi, come un’appestata, “contagiata”, dunque oggetto di scherno. Izumi sviluppa una paura ossessiva delle radiazioni, la radiofobia, disturbo che affligge una fetta di popolazione giapponese: si scherma con mascherine e tute dotate di artigianali scafandri, isola la propria abitazione, mentre le autorità continuano a dire, mentendo, che non sussiste alcun pericolo.

The Land Of Hope traccia una netta linea divergente rispetto alle precedenti pellicole di Sion Sono, nelle quali il nucleo famigliare era spesso presentato in quanto malevolo, portatore di disgrazie, di nemesi che dai padri passavano ai figli: ora è proprio la famiglia a rappresentare la speranza, in un dramma senza disperazione, seppur a tratti sinceramente straziante. Il personaggio dell’anziano padre, tenace, coraggioso, dolcemente paziente con la moglie affetta da demenza senile, è caposaldo del film nel simboleggiare la fede nella propria stirpe, decidendo di restare a Nagashima poiché non vede un domani per sè e la sua consorte, passando così il testimone al nuovo ramo della sua famiglia.

Una messa in scena limpida ed un narrato estremamente sentito e commovente segnano così un mutamento fondamentale nella poetica di Sono, che diventa più matura, asciutta, priva di orpelli, al fine di lasciare campo libero ai propri straordinari personaggi.

Un’opera che racchiude momenti di intenso lirismo e poesia pura, nella quale l’Adagio della Sinfonia n. 10 di Gustav Mahler commenta le immagini in modo ideale, colonna sonora perfetta di un film che tocca le corde più profonde dell’anima.   

Chiara Pani
(araknex@email.it)

The Land Of Hope (Kibô no kuni) 


Gran Bretagna/Giappone/Germania/Taiwan - 2012
Regia: Sion Sono