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sabato 8 dicembre 2012

La mia recensione di "Maniac" (2012) di Franck Khalfoun per CineClandestino - Torino Film Festival XXX edizione



pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/maniac.html





Maniac (2012)


Timid Man




Aveva tutta l’aria di una scommessa persa in partenza questo remake del cult movie di William Lustig, Maniac, pellicola di per sé non riproducibile per l’unicità delle atmosfere malsane e di un protagonista/simbolo, l’indimenticabile Joe Spinell (anche co-sceneggiatore e co-produttore del film) nel ruolo di Frank Zito, personaggio che si era cucito addosso alla perfezione e al quale aveva donato sfumature e caratteristiche divenute perno centrale dell’opera. La pachidermica fisicità dell’attore italo-americano (il cui vero nome era Joseph J. Spagnuolo, morto nel 1989 a soli a 52 anni) entrava in netto contrasto con la debolezza interiore di Frank, oppresso dall’immaginaria voce della madre defunta in schizofrenici e conflittuali dialoghi/monologhi che erano la spinta primaria delle sue pulsioni omicide.

Maniac rappresenta tuttora, per Lustig (che è tra i produttori del remake), il lavoro più riuscito in una carriera mediocre, frutto dell’alchimia di una serie di fattori felici che diedero vita a un vero e proprio oggetto di culto per schiere di appassionati. Rifare una pellicola del genere era dunque impresa non facile, assai diversa dalla produzione seriale di brutti film fotocopia dei classici horror e slasher ad uso e consumo di un pubblico di adolescenti troppo occupati a masticare popcorn: il remake di Maniac era atteso al varco con una buona dose di pregiudizi negativi, che lo vedevano già sconfitto in partenza, anche per la scelta del nuovo protagonista, un Elijah Wood troppo vicino al cinema mainstream e lontano anni luce da ciò che Joe Spinell ha rappresentato per il personaggio.


Contro ogni aspettativa, invece, il film riesce a soprendere, rivelandosi rilettura intelligente e riuscita. Diretta da Franck Khalfoun (suo il non eccelso -2 Livello del Terrore) e prodotta dall’ex-enfant prodige Alexandre Aja, anche autore dello script insieme al fidato Grégory Levasseur e a C.A. Rosenberg, l’opera evita abilmente le trappole più insidiose, accantonando la pretesa di essere replica dell’originale bensì imboccando una strada diversa, che si rivela azzeccata.
Maniac versione 2012, presentato con successo alla 30° edizione del Torino Film Festival all’interno della sezione Rapporto Confidenziale, quest’anno densa di horror, non possiede la carica malsana del film di Lustig poiché l’atmosfera è qualcosa di non ripetibile: l’intelligenza dell’operazione si ritrova nel creare dei differenti punti di forza, dando vita ad una pellicola che omaggia l’originale rendendosi al tempo stesso autonoma. La scelta di Wood per il ruolo di Frank Zito si rivela ottima, in quanto il suo aspetto fragile ed indifeso esteriorizza ciò che il massiccio corpo di Spinell teneva nella sfera interiore: entrambi, infatti, sono visti come “anime gentili” dal personaggio di Anna (qui interpretata da Nora Arnezeder), e in questo film tale caratteristica è accentuata; l’aspetto del nuovo Frank, inoltre, ispira fiducia nelle sue vittime, che non lo temono, creando così un contrasto maggiore tra apparenza e reale personalità del killer.


La narrazione viene attualizzata in modo non posticcio, senza mai scadere nell’imitazione fine a se stessa, citando la pellicola-genitrice con trovate efficaci e talvolta sorpredenti, calando la vicenda ai nostri giorni e rendendola del tutto credibile.
La vera innovazione del Maniac di Khalfoun si denota nella tecnica di ripresa: il film è girato per gran parte in soggettiva, dunque dal punto di vista di Zito, mostrato raramente  in terza persona e il più delle volte riflesso da specchi, a rappresentare la pallida proiezione di una personalità disgregata. Il P.O.V. del killer, a differenza di quanto accade nella maggioranza delle pellicole orrorifiche, crea in questo caso un intervallo di distacco emotivo tra spettatore e personaggio, poiché mostra l’efferatezza dei crimini commessi dissociandoli dalla sua figura: la fisicità fanciullesca di Elijah Wood infatti, unita alla parte di narrato sulla sua infanzia, provoca empatia da parte di chi guarda, una sorta di pietà indulgente verso un individuo che è criminale, ma al tempo stesso dilaniato da sensi di colpa e schiacciato da una vita orribile.


L’elemento dei manichini ricopre un ruolo ancora più centrale rispetto al film di Lustig, rendendoli compagni di vita quasi umanizzati, e assai importanti nel legame che si instaura tra Frank e Anna. La relazione tra i due è rappresentata in modo non superficiale e senza lesinare cinismo, attraverso la lente deformante del punto di vista di Zito, dunque col filtro della sua mente disturbata.


Maniac ha un ritmo lento, poco accattivante, con alcuni tempi morti che contribuiscono tuttavia a renderlo ancora più disturbante e paranoico; il gore è offerto a giuste dosi, sempre funzionale alla narrazione e mai gratuito, in un film che unisce un plot robusto a un visivo affascinante e non patinato, grazie alla fotografia volutamente sporca ad opera di Maxime Alexandre, anche lui presenza fissa nello staff di Aja. Una nota a parte merita il magnifico score, composto da Rob, pseudonimo del francese Robin Coudert, il quale dà vita ad un tappeto sonoro elettronico perfetto per le immagini, ulteriore valore aggiunto in una pellicola assolutamente notevole.


Una prova ampiamente superata a dispetto delle scarse aspettative, la dimostrazione di come dovrebbe essere realizzato un remake, rendendolo oggetto a sé stante senza sganciarlo dalle proprie origini ed evitando, soprattutto, di cadere nella facile trappola della ridicola imitazione.  

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Maniac
Francia/USA - 2012
Regia: Franck Khalfoun

venerdì 21 settembre 2012

La mia recensione di "Snowtown" (2011) per Positifcinema


pubblicata su Positifcinema:

http://www.positifcinema.it/snowtown-di-justin-kurzel








Snowtown (2011)


Good Boy(s)




Ci sono film che dividono le platee, scindendole in fazioni, e altri che operano una divisione nello spettatore stesso, lasciandogli un senso di perplessità, un dubbio riguardante ciò a cui ha appena assistito, proiettandolo così in una zona grigia, una terra di mezzo. L’australiano Snowtown, opera prima del regista Justin Kurzel, può rientrare nel cerchio di queste pellicole ibride, davanti alle quali termini come “valido” o “non valido” diventano difficili da usare. Il film ha riscosso un grande successo di critica, facendo incetta di premi in numerosi festival; ciònonostante, durante la visione è difficile scrollarsi di dosso il sentore che qualcosa non torni, che manchi la scintilla che lo faccia decollare, rendendolo un’opera che possa inchiodarsi nella memoria, discostandosi dalle altre.

Snowtown è basato su una vicenda reale, quella di John Bunting (magistralmente interpretato da Daniel Henshall), definito “il peggior serial killer che l’Australia abbia mai conosciuto”: attivo tra il 1992 e il 1999, fu condannato all’ergastolo con l’accusa di undici omicidi (The Snowtown Murders, dal nome della cittadina del Sud Australia in cui vennero commessi); il suo (non unico) braccio destro nel killing spree fu l’inseparabile Robert Wagner (Aaron Viergever), anch’egli incarcerato a vita.

La pellicola si discosta, per molti versi, dai tipici clichés dei serial killer movies, adottando un’estetica puramente indie, dunque anch’essa legata a determinati stereotipi visivi: inquadrature ravvicinate, riprese apparentemente casuali, fotografia realistica e cruda. Ci si trova di fronte a un prodotto piuttosto standardizzato a livello di immagini, nel quale spicca il magnifico score, a opera di Jed Kurzel, e l’impianto sonoro in genere, nel quale i rumori hanno un ruolo fondamentale: amplificati, assordanti, dalla batteria suonata da Troy (Anthony Groves) fino alla tv, tenuta perennemente accesa per stordirsi, ipnotizzarsi, non pensare allo squallore dal quale si è circondati.

E’ un mondo crudo quello di Snowtown, il microcosmo di una periferia povera e rabbiosa nella quale il giustizialismo apparentemente protettivo di John, uomo dall’aria paciosa che mira a punire “pedofili e pederasti” confondendo un po’ troppo i due concetti, trova terreno fertile. Elizabeth (l’eccellente Louise Harris) è una donna divorziata con prole a carico, e troppi problemi sulla schiena: per lei ma soprattutto per il figlio  Jamie (un intenso Lucas Pittaway), John rappresenta l’ancora di salvezza, la figura paterna che rientra in casa, colui che sistema le cose dopo che un vicino si è rivelato eccessivamente interessato ai bambini di Elizabeth. Dalla vendetta alla caccia all’uomo il passo è breve: Bunting tiene comizi casalinghi aizzando la comunità contro “questi esseri turpi” che minacciano i loro figli, predica il giustizialismo per difendere i sani principi, mentre in casa sua c’è il rock spider wall: un muro tappezzato di nomi e fotografie di presunti pedofili e omosessuali, intrecciate tra loro mediante fili, come mosche in una ragnatela, vittime predestinate di un insetto pingue e in apparenza dormiente.

Il film si focalizza sul rapporto tra John e Jamie, che diventerà il suo secondo complice, insieme a Robert; il ragazzo è fragile, privo di punti di riferimento, e Bunting ha gioco facile nel tirarlo a sé, rendendolo un assassino. Dal “battesimo” dello sparo al cane in avanti, il percorso di formazione di Jamie in quanto killer è costellato da rimorsi, sensi di colpa e lacrime, davanti alle quali il suo paffuto mentore lo apostrofa con un “you fuckin pussy” per poi consolarlo con un bel “good boy”, sapendolo ormai obbediente e sottomesso.  

Nonostante un buon plot, adattato da due libri, una regia tecnicamente valida benchè senz’anima, troppo attenta a non sporcarsi realmente, e alcune sequenze assai efficaci, il film lascia l’impressione di non essere del tutto riuscito, di quel qualcosa che manca, l’assenza di quel morso a fondo  che in una narrazione come questa dovrebbe essere indispensabile. Troppo freddo e perfettino, per essere la storia del peggior serial killer che l’Australia abbia mai conosciuto.  

Chiara Pani
(araknex@email.it)



Snowtown
Australia - 2011
Regia: Justin Kurzel

giovedì 9 agosto 2012

La mia recensione di "388 Arletta Avenue" (2011) per Positifcinema



pubblicata su Positifcinema:


 
388 Arletta Avenue (2011)


I See You


Il Cinema come seminale forma di voyeurismo, lo spettatore in quanto guardone socialmente accettato, e al tempo stesso protetto dal buio di una sala: su questo argomento, si sono spese pagine e pagine nel corso degli anni. Da La Finestra Sul Cortile a Peeping Tom il grande schermo ci ha donato decine di sguardi furtivi  attraverso buchi della serratura o tende accostate, occhi appartenenti a menti criminali oppure semplicemente curiose. Questo 388 Arletta Avenue, film canadese del 2011 che ha raccolto pareri critici diametralmente opposti, prodotto da Vincenzo Natali (già regista di Cube) e diretto da Randall Cole (Real Time, 2008), esaspera la figura del voyeur, rendendolo vero e proprio stalker, criminale/maniaco in senso stretto. 

Egli è onnipresente, nelle videocamere piazzate in ogni angolo della casa delle sue vittime, in auto, sul luogo di lavoro, dando così allo spettatore il suo punto di vista per tutta la durata della narrazione. La pellicola, da molti etichettata come found footage in modo erroneo e standardizzato, è girata interamente in soggettiva, attraverso i molteplici sguardi delle cam: il suo occhio dunque, diventa il nostro, ma in maniera indiretta, filtrata dal meccanismo della videoripresa della telecamere nascoste. In tal modo, non scatta il (traumatico) meccanismo di immedesimazione spettatore/assassino,  che ha luogo in film come Halloween di John Carpenter (ne è esemplare l’incipt) oppure nelle celeberrime soggettive Argentiane.  L’ empatia, seppur parziale, poiché non vi è mai un totale coinvolgimento, si riversa verso coloro che sono spiati, la coppia di coniugi scelta probabilmente a caso, James (Nick Stahl) e Amy (Mia Kirschner), scrutati, pedinati e poi attaccati, in un pattern in crescendo: la minaccia si manifesta dapprima in modo subdolo, strisciante, per poi diventare sempre più invasiva, fino al climax conclusivo.
Il film parte bruscamente, senza una presentazione dei personaggi, si viene catapultati nella storia di colpo, attraverso l’occhio del maniaco appostato davanti al 388 di Arletta Avenue. Una scelta che tange da vicino il cinema-veritè, presentando qualche limite, soprattutto in alcuni tempi morti, ma rivelandosi comunque efficace nel trasmettere una buona dose di inquietudine.

Lo sconosciuto si insinua nella vita della coppia con gesti che possono apparire scherzi innocui (la sostituzione di un cd in auto, ad esempio), per poi alzare gradualmente il tiro. La reale, brillante trovata del film sta nell’uso delle musiche, nel collocare canzoni già famigliari allo spettatore in contesti inediti, creando così un’associazione che sarà difficile da scindere:  Da Doo Ron Ron di Shaun Cassidy è tormentone che, dopo 388 Arletta Avenue, risulterà difficile riascoltare con lo stesso spirito di prima, così come la love song  Reunited di Peaches and Herb; da sottolineare anche la sequenza accompagnata da The Cat Came Back di Fred Penner, scelta eccellente di una canzoncina infantile con un testo che mette i brividi. La musica parte sempre a tradimento, dal computer casalingo delle due prede, in una burla dai toni via via più macabri. 

Il lavoro sul personaggio di James, sul suo logoramento psichico, è complessivamente  ben reso, sebbene in parte irrisolto; qui entra in gioco una delle pecche principali dell’opera: si ha l’impressione che si tratti più di un esperimento di tecnica cinematografica, che di vera e propria narrazione. Il mostrato, l’idea dell’essere continuamente osservati, la perenne soggettiva, spesso conta più del plot, il quale, per quanto contenga, come si è detto, trovate assai efficaci, non sempre riesce a coinvolgere completamente. Anche la tensione è a singhiozzo, alternando momenti di fiato sospeso, abilmente resi per mezzo di inquadrature delle stanze vuote della casa, di notte, in completo silenzio, con la tipica consapevolezza che “qualcosa di brutto sta per accadere”, ad altri eccessivamente dilungati, che finiscono per risultare noiosi.

Tecnicamente, si va dall’ ampio uso della camera a mano fino alle cam fisse, con riprese da varie angolazioni, dando così un effetto “telecamera a circuito chiuso” che, dal punto di vista della sperimentazione visiva, risulta interessante, sebbene non inedito.

Nel complesso, 388 Arletta Avenue è una buona pellicola a basso budget che riesce a rendersi forte dei suoi pochi mezzi, sviluppando un’idea semplice, ma indovinata. I difetti non mancano e il lavoro può risultare, per alcuni versi, acerbo, tuttavia ricco di spunti, alcuni dei quali realmente acuti e brillanti. Una prova che può considerarsi riuscita, e senza dubbio degna di interesse.    

Chiara Pani


388 Arletta Avenue
Canada - 2011
Regia: Randall Cole

lunedì 9 luglio 2012

La mia analisi di "Profondo Rosso" (1975) per Positifcinema

pubblicata su Positifcinema:



all' interno della monografia su Dario Argento, che a partire da oggi si svilupperà nel corso delle prossime settimane:

http://www.positifcinema.it/sguardi/dario-argento




Profondo Rosso (1975)


Profunda Mater


In Profondo Rosso, probabilmente il capolavoro Argentiano per eccellenza, sono racchiusi gran parte dei tòpoi ricorrenti nella “poetica del terrore” del regista romano: l’ infanzia come culla del trauma che sta alla radice della pulsione omicida (e, con essa,  l’importanza dei legami parentali dell’ assassino), la memoria, l’indagine individuale che non è solo ricerca della verità ma anche della propria, perduta identità, il concetto di non-luogo che si lega strettamente a quello del proprio io smarrito. Simboli precisi, cifre stilistiche inconfondibili che hanno reso il cinema di Argento oggetto unico e dai molteplici strati di lettura.

Più di ogni altro, l’ elemento del Femminile domina la sua filmografia: assassine, madri folli, streghe, oppure virginali eroine, le donne in Argento sono il sangue che scorre nelle complesse venature della sua arte, un matriarcato che affonda le proprie radici nel buio dell’ inconscio collettivo, altro territorio assai caro alla sua opera.
Le figure femminili in Profondo Rosso non sono soltanto predominanti ma possono essere considerate l’ embrione di ciò che vedrà la luce nel successivo Suspiria: ognuna di loro è legata in un certo qual modo al Magico/Stregonesco, rendendole così, seppur ancora in forma metaforica e legata al reale, prime rappresentazioni di quelle Madri detentrici del Terrore nel già citato Suspiria, in Inferno, e ne La Terza Madre. Mater Suspiriorum, Mater Tenebrarum e Mater Lacrimarum appartengono completamente al sovrannaturale, ambito nel quale il regista si sposterà proprio da Suspiria in avanti, e sono state ispirate da un segmento del Suspiria De Profundis di Thomas De Quincey, nel quale rappresentano i Tre Dolori.

In Profondo Rosso, dunque, il Femminile può essere visto come preludio della Mater Dolorosa e Strega: il personaggio di Marta (Clara Calamai), madre di Carlo (presunto colpevole nel tipico doppio finale Argentiano, in realtà la vera assassina) incarna alla perfezione l’ archetipo; ella è, innanzitutto, genitrice, seppur folle e morbosa, amata dal figlio al punto da autoaccusarsi dei delitti da lei commessi. Marta è la chiave del trauma di Carlo, e assume tratti stregoneschi nella sua capacità di essere dovunque, di entrare in ogni luogo senza mai essere vista se non di sfuggita, presenza minacciosa e quasi onnipotente. E’ sofferente nel suo pianto sul finale, per la morte del figlio, nella dolorosa pazzia che la spinge a uccidere.

Se le figure di Helga Ulmann e Amanda Righetti hanno attinenze con l’ occulto più evidenti ma al tempo stesso scontate e sicuramente meno affascinanti, è in Gianna Brezzi (Daria Nicolodi) che possiamo ritrovare un personaggio magico in senso quasi fiabesco, una sorta di strega buona e ammaliatrice, una fata/elfo sensuale in modo inconsueto, che seduce Marc con armi variegate e atipiche, che vanno dall’ indipendenza alla più profonda insicurezza. Gianna è anche spirito guida, lume del protagonista nella sua incessante ricerca, lo espone al rischio mettendolo in prima pagina per poi ricoprire la funzione di figura protettrice.

Questo Femminile Magico si lega strettamente a Torino, nella quale è stata girata gran parte della pellicola ma a cui, nel narrato, ci si riferisce come a Roma (Madre/Lupa): ancora l’identità smarrita, in questo caso quella del luogo/non-luogo. Torino è punto focale di forze magiche ed è città che porta in sè un potente simbolo del Femminile, ossia la Chiesa della Gran Madre, simile a un tempio pagano, dall’ architettura uterina e costruita a ridosso di un fiume, dunque in prossimità dell’ elemento Femmineo per eccellenza. Un Femminile che trova specularità (e non a caso lo specchio è elemento cardine nel film) in siti che la narrazione priva della loro identità nominale ma non di quella effettiva, pregna di una carica simbolica eccezionalmente forte.

Profondo Rosso dunque, come gestazione dello stregonesco matriarcato che ritroveremo nei film successivi: qui calato nel reale, e con funzione di simbolo, è magnifico e terrificante presagio dello scatenarsi delle Dolorose Madri. 
  
Chiara Pani
(araknex@email.it)

Profondo Rosso
Italia - 1975
Regia: Dario Argento



mercoledì 23 maggio 2012

La mia recensione di "The Raven" (2012) per Horror.it


pubblicata su Horror.it:










The Raven (2012)


“Il 7 Ottobre 1849 Edgar Allan Poe fu trovato in fin di vita su una panchina di un parco a Baltimora, Maryland. I suoi ultimi giorni restano un mistero”


Così, senza troppa fantasia, si apre “The Raven”, film del 2012, diretto da quel James McTeigue che , sette anni orsono, ci aveva regalato “V per Vendetta”, controverso gioiellino filmico a cavallo tra box office, retorica e talento puro.
“The Raven” parte dall’ intenzione di essere omaggio al grande Edgar Allan, costruendo una fantasiosa ipotesi sulle cause della sua morte, che restano, a tutt’ oggi, sconosciute. Il prodotto finale non può considerarsi riuscito: nonostante alcuni buoni momenti,  la fotografia impeccabile (a opera di Danny Ruhlmann), l’ ambientazione che non fa una grinza e una regia abile sebbene a tratti molto autocompiaciuta, il plot è un volo pindarico troppo sfilacciato per poter risultare credibile.

A Baltimora, un killer commette i suoi delitti a imitazione di quelli delle tales di Poe e sfida apertamente lo scrittore non solo a dargli la caccia, ma a comunicare con lui tramite dei racconti che pubblicherà sul “Patriot”, il giornale per il quale il genio del terrore, in piena crisi creativa e dedito all’ alcool, è ridotto a redigere recensioni. La posta in gioco è molto alta: il folle tiene in ostaggio Emily Hamilton (l’ incantevole Alice Eve), la donna che Edgar ama, ricambiato e, com’è ovvio che sia, la ucciderà se lo scrittore non si dimostrerà sufficientemente abile nel ritrovarla.
Dunque, un copycat dei delitti creati dalla mente di Poe, che per di più, lo sfida: una sorta di “CSI” in epoca ottocentesca, con assurdi accenni di torture porn stile “Saw” in un guazzabuglio che lascia francamente perplessi. 

La tematica del serial killer d’ epoca è ormai troppo sfruttata, il film vorrebbe rimandare a punte altissime come “From Hell” ma non ne possiede un decimo della forza; l’ insieme, è troppo addomesticato e manca della giusta ferocia, fatta eccezione per alcuni passaggi efficaci. John Cusack, al quale è affidato il non facile ruolo di Poe, risulta fuori parte, nel passare dal monocorde al sopra le righe nel giro di pochi minuti, e non possiede la giusta espressività. Fece assai meglio, seppur solo come sporadica presenza, il Ben Chaplin / spettro di Poe nel pessimo “Twixt” di Francis Ford Coppola, prestando al personaggio un volto e un’ attorialità assai più adatti.

Lo scrittore di Boston è qui ritratto al culmine della crisi: la raffigurazione che ne risulta è contaminata da troppi stereotipi, l’ intenzionale omaggio non è sufficientemente sincero e appassionato bensì riflette la luce ipocrita della solita operazione da botteghino. Non basta infarcire il film di citazioni dai suoi racconti per riuscire a spacciarlo come un accorato homage : l’ impressione che ne deriva è quella di un “Poe for dummies”, una ricostruzione di fantasia impacchettata in modo attraente ma del tutto priva d’ anima.  
Poe collabora con la polizia, in special modo con l’ ispettore Fields (Luke Evans): la caccia al killer non riesce ad avvincere, in una narrazione standardizzata, priva di forti scossoni. Tutti i personaggi sono poco più che abbozzati: il padre di Emily, il ricco Capitano Hamilton (il buon Brendan Gleeson),  il quale dapprima osteggia a più non posso la relazione, per poi diventare improvvisamente solidale con Poe durante le ricerche della figlia, così, di punto in bianco; inoltre, il personaggio di Fields è troppo a tutto tondo, sebbene presentasse spunti che potevano essere sfruttati in modo migliore.

Il rapporto a dir poco conflittuale tra Edgar Allan e il caporedattore Maddux (Kevin McNally, noto per la serie di film “Pirati Dei Caraibi”), è reso come una serie di bisticci da osteria e poco altro. Il modo in cui “gli altri” vedono Poe e si relazionano a lui è rappresentato al massimo livello di superficialità, senza la minima intenzione di approfondimento: per un film che vuole dare una personale visione degli ultimi giorni di vita di un personaggio come questo, è una pecca non trascurabile.

Inguardabili i titoli di coda, sulle note della pur bellissima “Burn My Shadow” di U.N.K.L.E (con la voce di Ian Atsbury dei The Cult), che però nel contesto stride come le unghie sulla lavagna, e ancor di più la grafica iperdigitalizzata da film di supereroi Marvel.
Credits agghiaccianti a parte, il segmento finale, per quanto non eccelso, resta forse il momento migliore della pellicola, con due o tre sequenze degne di nota. Per il resto, tra “Il Pozzo e Il Pendolo”, molto “Premature Burial” ma soprattutto una raffigurazione dello scrittore degna di un bignami di terza mano, non c’è molto da salvare.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

The Raven
Usa/Ungheria/Spagna - 2012
Regia: James McTeigue





giovedì 15 marzo 2012

La mia recensione di "Manhunter" (1986) per Robydickfilms.blogspot.com



pubblicata su Robydickfilms:



Sono felice di annunciare l' inizio della mia collaborazione col blog amico 


che vi invito a seguire. 

Per il mio esordio, ecco uno dei capolavori del grande Michael Mann, lo splendido Manhunter.





Manhunter (1986)

Lo Sguardo, in ogni suo aspetto e declinazione: è lui il vero protagonista di Manhunter, pellicola targata 1986 per la quale la parola capolavoro, una volta tanto, non suona eccessiva o usata a caso. Diretto dal grandissimo Michael Mann, il film è tratto dall’ ormai celebre romanzo di Thomas Harris, “Il Delitto Della Terza Luna”, pubblicato nel 1981 e meglio conosciuto come “Red Dragon”; è anche illustrissimo (e all’ epoca non troppo conosciuto)  predecessore di quel “Silenzio degli Innocenti”  che fece man bassa di statuette agli Academy Awards e sbancò i botteghini, spacciandosi per il magnifico film che non è mai stato. Lo è ancor meno, se paragonato a Manhunter, esempio di rigore stilistico e profondità narrativa tipici del cinema di Mann, all’ epoca già autore di gioielli filmici come “Strade Violente” e “La Fortezza” e produttore della serie televisiva Miami Vice, che a livello di stile visivo è tornata spesso nel suo cinema fino ad essere trasposta sul grande schermo, nel 2006, con esiti come sempre eccellenti.

Il romanzo di Harris su cui si basa questo film è il primo della “saga” su Hannibal Lecter, che vedrà susseguirsi altri tre libri e quattro pellicole: Red Dragon vide infatti una seconda trasposizione, nel 2002, diretta da Brett Ratner, assolutamente mediocre e dunque non paragonabile sia all’ opera di Mann sia tantomeno al libro. Un’ operazione smaccatamente commerciale che ebbe un meritato insuccesso.

Will Graham (William Petersen), è un ex profiler dell’ FBI: ritiratosi prima del tempo, porta con sé le cicatrici, fisiche ed interiori, della cattura di Hannibal Lecter (qui chiamato, per l’ unica volta, Lecktor, per volere del regista, ed interpretato da Brian Cox), illustre psichiatra nonchè feroce serial killer. Graham ha la capacità di calarsi nella mente dell’ assassino, indentificandosi con esso e cercando di carpirne i pensieri e prevederne gli atti: un reiterato “calarsi nell’ abisso” della follia altrui che diventa un tuffarsi nel proprio lato oscuro. L’ intelligenza e la crudeltà di Lecktor spezzano gli equilibri, e Graham crolla.  Viene richiamato dal collega Jack Crawford (Dennis Farina) per indagare su un killer che ha massacrato due famiglie,  soprannominato  “Dente Di Fata” per la sua abitudine di mordere le vittime e che agisce nelle notti di luna piena.

Il film inizia così, con Graham e Crawford seduti sulla spiaggia, appoggiati su un tronco, l’ uno frontalmente, l’altro di schiena, speculari ed opposti. Fin dalla prima inquadratura dunque, il cinema di Mann si dischiude nel suo assoluto rigore, nella bellezza pittorica, in cui nulla è lasciato al caso e dove ogni dettaglio ha la sua importanza poiché ha la sua precisa e perfetta collocazione.
Will accetta l’ incarico, tra i timori della moglie Molly (Kim Greist), ed i propri; nonostante il trauma subito in seguito al caso Lecktor, che al momento dell’ arresto lo morse in volto, ne chiede la consulenza per catturare l’ assassino.
Inizia dunque la caccia all’ uomo, che da indagine si trasforma non solo in una guerra personale verso il killer ma in un vero e proprio processo di identificazione con esso da parte di Graham , graduale ma inesorabile: ne segue le tracce da solo, ripercorrendo ogni suo passo, conversando
con lui ad alta voce, sfidandolo. Will non si limita ad entrare nella sua mente ma, per alcuni istanti, si trasforma in lui, diventa Dente Di Fata.

Non si dimentica facilmente la sequenza in cui Graham, all’ ennesima visione dei filmini girati dalle famiglie in occasioni festose, ripete ossessivamente le stesse frasi, con Jack che lo guarda basito, scioccato: in quel momento, l' uomo è tutt’ uno con il killer, il processo di immedesimazione è giunto al culmine, e l’ indizio determinante balena nel suo cervello, come una folgorazione.

Lo Sguardo, si diceva: in Manhunter, abbiamo una vera e propria anatomia della  visione, che è il centro dell’ intero racconto; Toothfairy, ossia Francis Dollarhyde, (magistralmente interpretato da Tom Noonan) fa dello sguardo l’ arma principale, con esso è carnefice e ne è al tempo stesso vittima.  Si circonda di specchi, per guardarsi durante i massacri, e con gli stessi frammenti di specchio perfora gli occhi delle sue prede, che trasforma in spettatori, disponendoli come se fossero un pubblico. E’ proprio attraverso il vedere che Francis trova e sceglie la famiglia da sterminare, e sempre con lo sguardo la segue, la studia, la spia. La sua brama è quella di essere amato, voluto, desiderato; attraverso le parole di Graham, tutt' uno con la mente del killer davanti al letto matrimoniale delle vittime, si dà voce alla sua ossessione “ Mi vedo accettato e amato, nello specchio d’ argento dei tuoi occhi”.  
Lo Sguardo, e la sua Negazione: Francis incontra Reba (Joan Allen), una ragazza cieca. Con lei, prova la sensazione di cosa significhi essere amati, nella realtà, al di là di tutte le fantasie che hanno nutrito/divorato la sua mente fino a quel momento. Egli non sa amare, non nel modo inteso dal senso comune: ma quando lo vediamo a letto con Reba dormiente al suo fianco e dai suoi occhi cominciano a scorrere le lacrime, siamo scossi dal dubbio. Lei non vede le minacce attorno a sè, che culminano nell’ indimenticabile sequenza finale in casa di Dollarhyde, con l’ ossessivo sottofondo della splendida “In A Gadda Da Vida” degli Iron Butterfly che, dopo aver visto Manhunter, non potrà più essere essere percepita come prima: la simbiosi musica/immagini è talmente perfetta da diventare indissolubile.

Dal punto di vista tecnico, si rasenta la perfezione: Mann espone il proprio manifesto stilistico, la propria cifra inconfondibile. La sua Arte ha un rigore scientifico ma è al tempo stesso “cinema dell’ uomo”: le opere del regista statunitense possono essere viste come un discorso di vera e propria “scienza dell’ umanità”. Un’ umanità perennemente spaesata, irrimediabilmente sola, sezionata minuziosamente nel suo sentire in un susseguirsi di pensieri, istinti, sentimenti, presentati in modo solo apparentemente freddo, talvolta gelido, in realtà frutto di un calibrato distacco, che non è mai indifferenza o apatia: è il distacco tipico dello studioso, di colui che osserva senza mai immergersi totalmente. Anche in questo, troviamo la grandezza del cineasta.

La magnifica fotografia, curata da Dante Spinotti, è compagna ideale del discorso visivo del regista;  le tonalità calde dei tramonti così belli da sembrare irreali si scontrano col bianco raggelante che pervade praticamente tutti gli ambienti, compresi quelli domestici: asettici spazi abitativi che non hanno nulla di caldo o accogliente, quasi a voler dimostrare che l’ Uomo non può trovare riparo e conforto neppure nella propria dimora. Diverso il discorso riguardante la casa di Francis, dominata dal verde e da stampe alle pareti, a soggetto lunare: il nido del Folle, è l’ unico che rispecchi la personalità di chi lo abita e la sua mente caotica.
Fondamentale e innovativo l’ uso delle musiche, con lo score elettronico ad opera dei The Reds e Michel Rubini misto a canzoni pop dell’ epoca: un accompagnamento musicale pressochè incessante e sempre in perfetta armonia con le immagini. Mann fu uno dei primi ad utilizzare la musica elettronica nello score (anche qui, impossibile non ricordare il Miami Vice televisivo) e l’ accompagnamento sonoro è di basilare importanza in tutte le sue pellicole; la musica aggiunge potenza al visivo, ma accade anche il contrario: basti ricordare la scena in cui Francis è appostato fuori dalla casa di Reba, con una banale canzone pop che si trasforma in un crescendo angoscioso grazie a ciò che scorre davanti ai nostri occhi.

Ottime le prove attoriali, a cominciare da Tom Noonan, che dà il volto a un killer difficile da dimenticare, fuori da ogni schema, dallo sguardo triste ed assente al tempo stesso. Perfetto Wiliam Petersen (già protagonista di un altro caposaldo del cinema anni ’80, “Vivere e Morire a Los Angeles”, di William Friedkin) : qui offre un’ interpretazione apparentemente pacata, capace di esprimere un grande tormento interiore.
La sceneggiatura, scritta dallo stesso Mann, è solidissima ed esemplare nell’ analisi dei personaggi, soprattutto nello studio della figura di Dollarhyde,  assai approfondito e mai semplicistico, contrariamente a quanto accade, ormai troppo spesso, nel delineare i tratti degli assassini seriali. Francis non è un serial killer, è soprattutto un uomo, ma un uomo che uccide, questa è la principale caratteristica che lo differenzia dalla massa indistinta di molti assassini di celluloide.   
Molti passi determinanti del libro di Harris sono stati tralasciati, per ovvi motivi di adattamento allo schermo: punti fondamentali, come l’ ossessione di Francis per il dipinto di William Blake, “Il Grande Dragone Rosso e la Donna Vestita col Sole”, e il concetto di trasformazione ad esso legato, sono qui soltanto accennati senza un’ adeguata spiegazione, lasciando lo spettatore nel dubbio e, nel contempo, invitandolo alla lettura. Ricordiamo che negli USA “Il Delitto Della Terza Luna” fu un best seller fin dalla sua uscita, cosa che ovviamente non accadde qui da noi.

Manhunter è stata la prima pellicola a portare sullo schermo la figura di Hannibal Lecter, e dai noi in Italia restò  praticamente sconosciuta per anni, per poi emergere in un primo tempo dopo l’ uscita de “Il Silenzio Degli Innocenti” e , in maniera definitiva, dopo il successo di Mann nel nostro Paese, dovuto in particolar modo a “Heat”, targato 1995. Furono dunque inevitabili i facili confronti fra l’ Hannibal interpretato da Brian Cox e quello di Anthony Hopkins, ormai già entrato a far parte dell’ immaginario collettivo.
Il personaggio ha un peso differente nei due romanzi e di conseguenza, nelle due pellicole. Hopkins ha offerto una performance indubbiamente ottima ma anche assai gigionesca, fagocitando lo schermo e risultando troppo sopra le righe, nei tic involontariamente ridicoli, nelle frasi talvolta retoriche. La distinzione fra Bene e Male è decisamente netta: non vi è ambiguità in Clarice, il Male è di fronte a lei ma non la pervade.
Il Lecktor di Cox è assai diverso: la sua presenza sullo schermo è più ridotta ma non per questo non lascia un segno. Sottile, ambiguo, fascinosamente  perverso, il suo gioco con Graham si svolge ad armi pari: il confine Bene / Male è tutto fuorchè nitido e Lecktor lo sa bene, nell’ attribuire al profiler una natura simile alla sua e a quella di Dollarhyde: “Non la creiamo noi la nostra natura, ce la consegnano, insieme ai polmoni, al pancreas e a tutto il resto, perché combatterla?”. Hannibal conosce il lato oscuro di Will Graham, e questa ambiguità è uno dei tanti punti di forza sia del romanzo che del film : non vi sono “buoni e cattivi” nel senso tradizionale del termine, ogni personaggio porta in sé il seme degli uni e degli altri.

Manhunter, ossia cacciatore di uomini: non uno quindi ma tutti e tre i personaggi, Graham, Dollarhyde e Lecktor ricoprono questo ruolo, nell’ essere predatori e al tempo stesso prede; Mann prende i canoni classici del genere thriller e li rielabora secondo la sua visione personale, plasmando qualcosa di inedito e sorprendente.

Un film imprescindibile, che non dà certezze e lascia disorientati, nel suo dipingere un’ umanità in tutti i suoi aspetti, anche, e soprattutto, quelli che preferiremmo non vedere.

Chiara Pani
(araknex@email.it)










Manhunter - Frammenti Di Un Omicidio
Titolo Originale: Manhunter
Usa - 1986
Regia: Michael Mann

lunedì 13 febbraio 2012

La mia recensione di "Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne" (2011) di David Fincher per Horror.it

pubblicata su Horror.it:





 

Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne (2011)

“Se una donna si accosta a una bestia per accoppiarsi con essa, ucciderai la donna e la bestia e il loro sangue ricadrà su di loro”
                                                                       (Levitico , 20:16)

In questo ed altri versetti del Levitico, non a caso il più fondamentalista fra i libri della Bibbia , è contenuta la chiave di volta per la risoluzione del caso sul quale indagano i due protagonisti di Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne  (“The Girl With The Dragon Tattoo”), l’ ultima e complessa opera di David Fincher. Etichettato in modo sbrigativo come remake dell’ omonima pellicola del 2009, firmata dal danese Niels Arden Oplev e, com’è ormai arcinoto, basata sul primo dei tre romanzi dello scrittore svedese Stieg Larsson, il film di Fincher è assai più di un semplice rifacimento. Innanzitutto, per la stratificazione del narrato: si mette in scena ciò che il cinema ha già mostrato e che, a sua volta, era trasposizione della parola scritta. Fincher, seguendo come sempre la sua visione, si appropria del testo di Larsson, lo reinterpreta, senza snaturarlo, mantenendone inalterati gli equilibri ma, al tempo stesso, offrendone un’ interpretazione completamente altra, inedita, diversa. Una sceneggiatura solida e dal meccanismo perfetto, firmata da Steven Zaillian (“Gangs Of New York”, “Schindler’ s List”) è fondamento indispensabile al lavoro del regista, accompagnandolo ad arte e regalando un risultato al di sopra di ogni aspettativa. E dire che è stato un film su commissione, a detta dello stesso Fincher, dunque non fortemente voluto; ma anche in questo tipo di operazione, il regista non riesce a non essere se stesso, a non infondere gocce della propria poetica tra le righe di un pensiero altrui.

“The Girl With The Dragon Tattoo”, a differenza della maggioranza delle rivisitazioni yankee di film stranieri, è girato nelle locations originali, nell’ algida Svezia, tra Stoccolma ed Hedestad, il luogo immaginario creato da Larsson dove sorge l’ isola di proprietà dei Vanger: dunque, non vi è stato lo sradicamento dalle origini culturali del testo, e ciò ha contribuito non poco al valore del film.
Il cinema di Fincher è da sempre fatto di dettagli, del  piccolo che diventa fondamentale, dei tanti tasselli sparsi che si uniscono a formare un’ incastro inevitabilmente perfetto.  Di tutto questo si compone l’ indagine condotta da Mikael Blomkvist (un efficace Daniel Craig), giornalista della rivista indipendente Millennium, caduto in disgrazia dopo aver tentato di smascherare gli affari sporchi di un miliardario: viene incaricato dal ricchissimo ed anziano industriale Henrik Vanger (Christopher Plummer) di indagare sulla scomparsa della nipote Harriett, avvenuta molti anni prima; l’ uomo è certo che il responsabile della probabile morte della ragazza, sia proprio un Vanger: “ si troverà ad indagare su ladri, avari, prepotenti, la più detestabile collezione di individui che lei abbia mai conosciuto: la mia famiglia”.

Non ha tutti i torti, Henrik Vanger: due nazisti in famiglia non sono esattamente motivo di vanto. Proprio su questo tasto, la sceneggiatura di Zaillian, memore di “Schindler’s List”, spinge particolarmente, mostrando così il marcio dei potenti dietro la patina di perbenismo, un feroce ritratto famigliare nel quale emergono scheletri tenuti nascosti troppo a lungo. Ma non è solo il fine che conta in questo film, è soprattutto il mezzo: è il modo in cui l’ indagine sviene svolta, e qui si torna all’ importanza del particolare, del mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle apparentemente irrisolvibile. La ricerca di Mikael è ossessivamente meticolosa, ricostruisce il giorno della scomparsa di Harriett mediante delle immagini, un susseguirsi di fotografie gelidamente immobili, ma che sono le sole ad essere in grado di dirgli qualcosa (“dove sei finita, Harriett?”, chiede Mikael guardandola stampata su carta).

Ed ecco che subentra lei. Lisbeth Salander. Personaggio già noto al pubblico sia per la trilogia letteraria, sia per il film precedente , grazie all’ ottima interpretazione di Noomi Rapace, a detta di molti ineguagliabile; invece, la scelta di Rooney Mara, già vista in “The Social Network”, si è rivelata assai più che vincente: lei è Lisbeth, in tutto e per tutto. Il personaggio Fincheriano è fisicamente più infantile e fragile, in apparenza indifeso, diafano e dal volto quasi alieno. Recita con gli occhi, con i gesti, resta stampata nella memoria fin dalla sua prima apparizione: convocata per incontrare Frode (Steven Berkoff), l’ avvocato di Vanger, al fine di affidarle il compito di indagare su Blomkvist a titolo cautelativo, prima di investirlo dell’ incarico riguardante Harriett (dunque le ricerche si fanno molteplici, si avvolgono l’ una attorno all’ altra), si siede di profilo, quasi senza guardarli, le sue risposte sono brusche, brevi, sfuggenti. Lisbeth indaga sulle persone senza avere contatti con a loro, a distanza, intrufolandosi nei loro computer, spiandole; è il suo modo di conoscere gli altri, senza che loro debbano vederla. Non permette a nessuno di avvicinarsi troppo a lei: il suo abbigliamento, i tatuaggi, i piercing, fanno parte della sua corazza.
Lisbeth viene ferita, anche davanti a noi, la scena dello stupro da parte del suo nuovo tutore non si dimentica facilmente. Ma la sua vendetta è catarsi pura , una sequenza di malata bellezza, nella quale da vittima diventa carnefice per riprendersi semplicemente ciò che le spetta, poiché quell’ uomo aveva congelato i suoi guadagni, costringendola a rivolgersi a lui per ogni esigenza economica, in cambio di favori sessuali. Il favore diventa aggressione e la risposta di Lisbeth è un occhio per occhio che consacra, definitivamente, la nostra completa empatia verso di lei.
Fincher è comunque attento a fare in modo che il personaggio non fagociti completamente il film: infatti, l’attenzione si focalizza sul rapporto con Mikael, e sul suo graduale scongelarsi di fronte a quest’ uomo. Al loro primo incontro, la Salander è come sempre sulla difensiva, ha con sé l’ inseparabile taser, l’ immobilizzatore: “se mi tocchi, ti ritrovi più che allarmato”; nel condurre le indagini fianco a fianco la ragazza accorcia le distanze, dapprima sessualmente, poi a livello umano, fino ad accennare a Blomkvist del proprio passato, di cui non è difficile intuire la tragicità.
Le ricerche si snodano attraverso quel covo di serpenti qual è la famiglia Vanger, passando per la folle solitudine di un criminale nazista passando per Martin (Stellan Skarsgård), erede dell’ impero industriale e fratello di Harriett.

Il finale, è la vera sorpresa: slegato sia dal libro che dal film precedente, è puro cinema di emozioni senza essere patetico o dai facili sentimentalismi. Una chiusa perfetta, sulle note della cover di “Is Your Love Strong Enough?” di Bryan Ferry riveduta dai How To Destroy Angels, progetto di Trent Reznor e Atticus Ross, autori dell’ intera colonna sonora del film; si inizia col lungo urlo digitalizzato dei titoli di testa e si conclude nel silenzio e in un interminabile sguardo ad occhi sgranati.

Eccellente il cast, la già citata Rooney Mara su tutti, il buon Daniel Craig a tenerle testa, i magnifici Christopher Plummer e Steven Berkoff, Robin Wright, nel ruolo un po’ sommesso di Erika Berger, socia di Blomkvist nella rivista Millennium e sua amante, ed il superbo Stellan Skarsgård.

I luoghi, gli spazi, sono anch’ essi protagonisti del film: l’ isola, la casa di Martin, interamente fatta di vetrate, dunque (in apparenza) del tutto visibile allo sguardo, la dimora di Henrik Vanger, triste dimensione di una solitaria memoria ed il cottage dove vive Mikael, in seguito raggiunto da Lisbeth: le pareti tappezzate da fotografie, appunti, vero spazio-testimonianza di ciò che sta venendo a galla.

Il montaggio è affidato ancora una volta ad Angus Wall (insieme a Kirk Baxter), già premio Oscar per “The Social Network”, e la fotografia è opera di Jeff Cronenweth, alla sua terza collaborazione con Fincher (“Fight Club”, “The Social Network”), capace di dare all’ immagine una qualità empatica, in linea con i differenti toni emotivi della pellicola.
Ottimo lo score, del già citato duo Reznor/Ross, ma su questo punto il film precedente era nettamente superiore, con le superbe partiture orchestrali scritte da Jacob Groth.
Un’ opera importante questo “Girl With The Dragon Tattoo”, da vedere a mente libera, cercando di mettere da parte sia il libro che l’ altro film, per considerarla ciò che è in realtà, un’ opera a sé stante: rilettura di qualcosa di già scritto ma filtrata attraverso l’ occhio di un talento non comune.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne
Titolo Originale: The Girl With The Dragon Tattoo
Usa/Svezia/Uk/Germania - 2011
Regia: David Fincher