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Django: da Corbucci a Tarantino e l’urlo lisergico di Takashi Miike
Che
il cinema di Quentin Tarantino possa piacere o meno, e che sul suo effettivo
valore si sia ormai dibattuto fino alla nausea, è ormai un dato di fatto. Ma è
altrettanto indubbio che uno degli innegabili pregi del cineasta statunitense
sia stato quello di far scoprire al grande pubblico film misconosciuti oppure,
come in questo caso, di cui si è sempre sentito parlare ma che molti non hanno
mai visto. “Ha scoperto l’acqua calda” diranno i detrattori, “ha tolto il
lenzuolo da pellicole pregevoli che han preso polvere troppo a lungo”, diremo
noi. Alzino la mano coloro che già conoscevano e apprezzavano Quel Maledetto
Treno Blindato di Castellari prima che Quentin ne mutuasse il titolo d’esportazione
per il suo Inglorious Basterds, o che si scioglievano davanti a Pam Grier nel
ruolo di Foxy Brown oltre due decenni prima del magnifico Jackie Brown; opere
che gli amanti del cinema di genere conoscono a memoria, ma delle quali l’audience di massa ignorava l’esistenza.
Sdoganamento, revisionismo, noi preferiamo parlare di una serie di ottime
scelte dettate da una fortissima passione personale. Ecco dunque arrivare
finalmente in sala l’attesissimo Django Unchained , che dal film firmato da
Sergio Corbucci nel 1966 trae ispirazione per le tematiche di fondo, oltre che
per il nome del personaggio che campeggia come insegna-homage a ricordarci che tutto
è partito da lì, da quell’atipico e cupo spaghetti western con un Franco Nero al suo primo ruolo di
rilievo che lo rende subito icona: il pistolero solitario, silenzioso,
nerovestito che si porta appresso una bara, non può non entrare di diritto
nell’immaginario collettivo cinefilo. Ritroviamo le sue tracce in una gothic
band come i Fields Of The Nephilim, con i loro cappellacci a metà tra il cowboy
ferale e il boogeyman, grandi amanti del cinema bis italiano, o nella figura di
Undertaker, wrestler americano che alla fine del proprio show chiude in una cassa
da morto i propri avversari sconfitti. La figura di Django ha avuto dunque un
impatto più ampio di quanto si sia portati a pensare, creando un modello
cinematografico seguito da una serie di epigoni dal valore discutibile. Il film
di Corbucci, che vedeva un Ruggero Deodato pre-Cannibal Holocaust come aiuto
regista, pur non rappresentando la punta massima del suo cinema, è una
pellicola che riesce ad essere potente, con momenti feroci (la scena
dell’orecchio mozzato che viene poi fatto mangiare alla vittima, citata in
parte da Tarantino ne Le Iene), una buona carica eversiva (il sottotesto
antirazzista ripreso in Django Unchained, l’eroe che salva la vita alla
prostituta a inizio film, in un genere in cui le figure femminili non erano mai
tenute in gran conto) ma soprattutto, una sostanziale disperazione, quella per
l’amore perduto, la moglie uccisa dai sudisti e sepolta nel cimitero che farà
da sfondo alla sequenza finale. Nella pellicola di Tarantino il Django
interpretato da Jamie Foxx è uno schiavo reso libero dal Dottor Schultz
(Cristoph Waltz), un dentista divenuto cacciatore di taglie, insieme al quale si
mette in cerca dell’amata consorte, tenuta in schiavitù dal temibile Calvin
Candie (Leonardo DiCaprio).
L’amore
ancora pulsante del Django tarantiniano e quello ormai cristallizzatosi in
un’incapacità di dimenticare del personaggio di Corbucci (“Django, have you
never loved again?” recitano le parole cantate da Rocky Roberts nel main theme
del film del 1966) è il filo rosso
principale che unisce le due rappresentazioni, e che nella figura interpretata
da Franco Nero diventa azzeramento di ciò che si era fino ad arrivare ad una
morte simbolica: alla domanda “c’è qualcuno in quella bara?” la risposta è “uno che si chiama Django”. Nella cassa da
morto, in realtà, c’è l’arma del pistolero, ossia una mitragliatrice, altro
elemento nuovo nel cinema western, sorta di oggetto magico che gli conferisce
poteri quasi sovrannaturali rendendolo simile ad un supereroe dunque, figura
non realistica nell’essere in grado di sterminare, da solo, orde di nemici.
Elemento
ricorrente nei western di Corbucci è il personaggio dell’eroe menomato, sordo
oppure cieco: a fine film i messicani traditi si vendicano maciullando le mani
al protagonista, privandolo dunque del suo potere principale, l’abilità di
sparare. Nonostante ciò, nel memorabile finale, Django riesce a regolare il
conto in sospeso con i sudisti, celandosi dietro la lapide della moglie, e
scandendo una preghiera che sul “così sia” vede la morte del suo nemico
giurato, il Maggiore Jackson. Leggenda vuole che il protagonista faccia fuoco
con sette colpi di pistola, mentre un caricatore ne può contenere al massimo
sei: l’ultima pallottola dunque, rappresenterebbe la vendetta da parte della
donna defunta.
Il
film fu seguito da una serie di titoli dedicati al personaggio ma che poco o
nulla avevano a che fare con l’originale: da Django il Bastardo (1969), di
Sergio Garrone, fino a Django Sfida Sartana (1970), di William Redford,
pseudonimo dietro il quale si celava Pasquale Squitieri. Bisogna attendere fino
al 1987 per l’unico vero sequel, Django 2 – Il Grande Ritorno, firmato da Nello
Rossati, col nome fittizio di Ted Archer. Co-prodotto da Reteitalia, mostra una
matrice televisiva fin dai titoli di testa e si rivela assai deludente sotto
ogni punto di vista, nonostante la presenza di Franco Nero, Christopher
Connelly e del grande Donald Pleasence: Django si è ritirato in un monastero, assumendo
il nome di Padre Ignazio e chiudendo definitivamente con il proprio passato.
Marisol, una bambina che probabilmente è sua figlia, è stata rapita da un
trafficante di schiavi, Orlowsky detto “Il Diavolo” (Connelly), destinata ad
un giro di prostituzione infantile;
Django torna quindi in azione, per salvare Marisol e far trionfare la
giustizia. Un polpettone che sa di soap-opera, con Nero ormai imbolsito e poco
convincente, ed un intreccio inverosimile e noioso per un sequel assolutamente
inutile.
Tra
i due film italiani e la pellicola di Tarantino troviamo una quarta opera, che
rivede e rielabora il Django originario attraverso la lente della cultura
giapponese e, soprattutto, dal punto di vista di una mente geniale: Takashi
Miike, che nel 2007 firma Sukiyaki Western Django, splendido melting-pot che
chiude il cerchio, riportando lo spaghetti western alle sue radici, ossia il
Giappone dei samurai. E’ quasi inutile ricordare che gli italici padri del
genere, da Sergio Leone allo stesso Corbucci, presero ispirazione proprio dai
film del Maestro Kurosawa, che hanno, d’altro canto, influenzato il western in
generale nella sua struttura narrativa. Ritroviamo chiari echi di Per Un Pugno di Dollari che a sua volta prese spunto da La Sfida dei Samurai di Kurosawa, ma Sukiyaki Western Django è crossover
totalizzante, che lega l’epopea del pistolero con la bara anche all’Enrico VI di
Shakespeare e alla Guerra delle Due Rose, quella dei York e dei Lancaster,
riflessa nella secolare faida tra le fazioni/gang (simili a guerrieri urbani)
dei “rossi”, gli Heike, e dei “bianchi”, i Genji, che tengono sotto scacco un
piccolo villaggio, in cui si celerebbe un favoloso tesoro ma sul quale grava
una sinistra maledizione.
Il film è una sorta di prequel del Django del 1966,
poiché ne narra in un certo qual modo la genesi, seppur sia presente anche qui
la figura cardine del misterioso pistolero, il cui arrivo scatena una contesa
tra le due bande per ottenerne i servigi.
La presenza nel cast di Quentin Tarantino, in un ruolo
ridotto dal punto di vista dell’effettiva comparsa sullo schermo ma
fondamentale nel plot, sugella ulteriormente la continuità tematica tra le
pellicole in oggetto, apparendo profetica alla luce di Django Unchained, e
sottolinea la mutua influenza tra i due registi, un palesare su pellicola la
stima reciproca che intercorre tra loro. Come in Kill Bill si erano visti
elementi del cinema di Miike, allo stesso modo in quest’opera ritroviamo alcune
sequenze tarantiniane che si mescolano fluidamente alle innumerevoli altre
influenze visive che contemplano il cartoon classico così come il manga, in una
stilizzazione assoluta con scenografie palesemente finte, virate sul verde e
sul giallo, in special modo nel prologo e nei flashback, colori violenti con la
predominanza del rosso e del bianco, soluzioni visive e narrative del tutto
spiazzanti, in un’accellerazione del ritmo che diventa puramente delirante.
Omaggio fatto di molteplici citazioni, ma di fondo resta Miike allo stato puro,
con un’ironia macabra e dissacrante, mutilazioni in inquadratura ravvicinata
(qui maggiormente fumettistiche che in altre sue opere), il tutto alternato a momenti
drammatici, lirici oppure brutali.
L’anello di
congiunzione perfetto, dunque, tra il film di Corbucci e Django Unchained, una
pellicola simbolica nel saper legare tradizioni diversissime in un’ottica che
diventa a tutti gli effetti lisergica, quindi rivoluzionaria nel suo
rielaborare.
La rilettura
innovativa, il destrutturare senza distruggere è la chiave di volta del cinema
di Tarantino: con Django Unchained si va ancora oltre, prendendo la pellicola
italica come semplice spunto di partenza, per imboccare una direzione assolutamente
anarchica e multiforme. Dopo Inglorious Basterds, il regista affronta
nuovamente un lato feroce della Storia, lo schiavismo, conservando dunque il
sottotesto antirazzista del Django originario ed approfondendolo in maniera
estrema, mutando il protagonista da eroe dallo sparo infallibile in schiavo
affrancato alle prese con una quest lunga
e travagliata, non a caso sovrapposta alla leggenda teutonica di Sigfrido e
Brunilde. Tarantino ancora una volta gioca con i generi, con una maestria
tale da rendere Django Unchained
difficilmente classificabile, magnifico ibrido davanti al quale non resta che
abbandonarsi alla potenza della visione.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Ottima cavalcata tra i generi e tra gli anni,as usual.
RispondiEliminaForse dovremmo ricominciare anche noi in Italia a prodirre film di genere,lasciando perdere le varie menate sull' aderenza alla realtà,sulla verosimiglianza, il politicamente corretto nonchè i vari cinepanettoni e vite di santi che hanno fatto solo male al nostro cinema e alla nostra fiction televisiva.
Tu cosa ne pensi?
Grazie davvero Nick :) Lo penso anch'io, ma credo che oggi come oggi sarebbe impossibile. Il nostro cinema è ormai troppo "corrotto" e contaminato dalla televisione, non ha più l'artigianalità di quei tempi, e la genuinità. Se tentassero questo tipo di operazioni sarebbero forse artefatte, e si verrebbe accusati di clonare Tarantino -__- Temo che quei bei tempi siano passati, almeno per quanto riguardo la grossa distribuzione. Sul lato indipendente, cinema di genere ce n'è ancora molto, horror per lo più. Il western è stato lasciato un po' da parte, ed è un peccato. Ma sono film che non emergono, che restano nel sottobosco dei festival e , nella migliore delle ipotesi, vengono distribuiti in dvd. La logica del politicamente corretto, dei cinepanettoni e delle vite dei santi sta bene a molti poichè pulisce le coscienze di chi tiene il proprio marciume ben chiuso nell'armadio. Ipocrisia, il vessillo degli italiani.
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