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Django Unchained (2012)
La D, è muta
Django
Unchained, ultima, attesissima fatica filmica di Quentin Tarantino, è stata
preceduta dal solito vespaio di critiche, smisurati entusiasmi anticipatori,
stroncature che vorrebbero essere profetiche, in poche parole l’usuale ciarpame
da cortile che fa da preambolo ad ogni pellicola del cineasta italo-americano.
Sono pochi i registi che suscitano reazioni così diametralmente opposte, dalla
passione totalizzante all’odio senza compromessi, non soltanto tra il pubblico
ma anche nel milieu della critica, creando ovviamente una crepa in quella dose
di obbiettività che chi scrive di cinema dovrebbe possedere. Lasciando da parte
i chiacchiericci fastidiosi e sostanzialmente inutili, si comincerà col dire
che Django Unchained è un film che non delude. Nei suoi 165 minuti di durata,
che trascorrono agevolmente, non manca qualche inevitabile caduta, ma la
pellicola riesce a volare alto, regalando anche impennate non indifferenti.
Il
Django di Sergio Corbucci, atipico spaghetti western del 1966 interpretato da
Franco Nero (qui presente in un cameo auto-citazionista: alla battuta “La D, è
muta”, riferita all’iniziale del nome, risponde con un laconico “Lo so”) è mero
spunto di partenza per un’opera che imbocca una strada autoctona, divenendo
anarchica e goduriosamente schizofrenica, assumendo così la medesima valenza che
Quel Maledetto Treno Blindato di Castellari (titolo internazionale:The
Inglorious Bastards) aveva per il precedente Bastardi Senza Gloria (Inglorious
Basterds): un tributo che è espresso a chiare lettere nel titolo, senza mezzi
termini, per poi aleggiare sul film come uno spettro, senza rendersi troppo
palpabile. In Django Unchained si ritrovano,
in quanto caratteristiche in comune con la pellicola nostrana, oltre al
sottotesto antirazzista che qui è palesato fino a diventare uno dei cardini, la
tematica del sentimento amoroso come motore della vendetta, benchè sia
declinato in modi diversi: il Django di Franco Nero era ormai inaridito dopo
l’uccisione della moglie da parte dei sudisti, mentre il personaggio
interpretato da Jamie Foxx desidera, più di ogni altra cosa, di ricongiungersi
con la sua Broomhilda (Kerry Washington). Al tempo stesso, l’anelito di vendicarsi è bruciante:fondamentale, dunque, l’incontro col Dottor King Schultz (un superlativo Christoph Waltz), dentista tedesco divenuto cacciatore di taglie, che compra lo schiavo Django rendendolo libero poiché egli è in grado di identificare l’aspetto dei Brittle Brothers, sulle cui teste pende una sostanziosa ricompensa e con i quali anche il protagonista ha un pesante conto in sospeso.
Il
personaggio di Schultz è forse il più importante del film, insieme a quello di
Calvin Candie (un Leonardo DiCaprio semplicemente perfetto per la parte), su
cui si tornerà più avanti: speculare ed opposto all’ Hans Landa di Bastardi
Senza Gloria, assai simile nella levità dei modi, nell’incarnare l’astuzia
intellettuale mitteleuropea, qui contrapposta alla grossolanità degli
schiavisti del Sud degli Stati Uniti, è solo apparentemente personaggio
positivo a tutto tondo; in un certo qual modo egli usa Django pur essendone il
mentore, “lo sporca”, per usare le parole dello stesso ex-schiavo. Ma più di
ogni altra cosa Schultz, attraverso di lui, compie virtualmente un eccezionale
gesto: la leggenda teutonica di Sigfrido e Brunilde (da qui Broomhilda, moglie
di Django), che l’uomo narra al suo compagno di viaggio, rappresenta ciò che il
dottore vorrebbe essere, ossia un eroe, mentre Django è nel mezzo della quest
che lo renderà tale. Tarantino sbeffeggia nuovamente la Storia, prendendo a
calci le assurdità ariane ed identificando Sigfrido con un uomo di colore.
Broomhilda
si trova in condizione di schiavitù a Candie Land, la proprietà di Calvin
Candie, schiavista spietato che organizza combattimenti tra mandingo. In questa
seconda parte del film si assiste ad un decollo decisivo, entrando nella
dimensione più congeniale a Tarantino, ossia quella degli interni, confini
entro i quali si svolge il gioco di dialoghi tra personaggi che è
caratteristica fondamentale del suo cinema. Schultz e Django si fingono
negrieri interessati ai combattimenti, dunque inscenano una recita, incarnano
dei ruoli, il che rappresenta il climax di ciò che hanno fatto per l’intera
durata della narrazione, poiché fin dall’inizio si sono presentati come
“qualcun altro” per poter proseguire nella loro ricerca. Calvin Candie gioca in
casa, ha dalla sua il fido Stephen (strepitoso Samuel Jackson), schiavo
perfettamente integrato con i bianchi, la tensione sale e come in una pentola a
pressione la deflagrazione è l’unico esito possibile.
Parlando
delle pellicole tarantiniane si insiste spesso sugli aspetti visivi, ma è
giusto ricordare che restano, fondamentalmente, film d’attori: anche in questo
caso, le prove recitative sono in alcuni casi straordinarie, con un
efficacissimo Jamie Foxx e molti camei d’eccezione (su tutti, Don Johnson, che
pare preso di peso da un western di casa nostra).
Da
un punto di vista squisitamente filmico, Tarantino punta più che mai sulla
mescolanza, citando a piene mani dagli ambiti più disparati, dal cartoon alla
blaxploitation (il personaggio di Foxx ne sarebbe perfetta icona), fino ai
telefilm anni ’70 o a sceneggiati come Roots (Radici). Impossibile non notare
alcuni tratti presenti in Sukyiaki Western Django dell’immenso Takashi Miike,
del 2007, nel quale Tarantino compariva in un cameo: si rivedono i colori violenti virati in giallo e verde dei
flashback, ed alcune trovate visive, ad esempio i riferimenti in puro stile
cartoon.
Notevole
la colonna sonora, che riprende il main theme cantato da Rocky Roberts per il
film del 1966, ed aggiunge altri score classici nostrani (su tutti I giorni
dell’Ira di Riz Ortolani, già presente in Kill Bill) , alternandoli a pezzi originali.
Django
Unchained è sostanzialmente melting-pot di generi diversi, lungi dall’essere un
western, bensì mescolanza eterogenea che diventa ibrido anarchico, non
incasellabile e prepotentemente al di fuori di ogni schematismo.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Django Unchained
USA - 2012
Regia: Quentin Tarantino
L'ennesimo capolavoro di Quentin, con un Waltz da (di nuovo!!) Oscar!
RispondiEliminamagnifico Waltz ma anche diCaprio questa volta ha davvero brillato!
EliminaUn film grandissimo, ulteriore dimostrazione della grandezza di Tarantino, come ho scritto da me, Sono d'accordo quando dici che quelli di Quentin sono, fondamentalmente, film d'attori: sono loro a reggere quasi sempre la pellicola, e questa non fa eccezione (il top qui però secondo me non è waltz, ma di caprio).
RispondiEliminaUn saluto
Letta la tua bella recensione! :)
EliminaWaltz secondo me è immenso anche qui,ma DiCaprio di rivela davvero eccellente: un ruolo che sembra gli abbiano cucito addosso.