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giovedì 5 gennaio 2012

Per le "Grandi Saghe" di Horror.it : Venerdì 13 (1980)


pubblicata su Horror.it:

http://www.horror.it/a/2012/01/venerdi-13-1980/



Venerdì 13  (1980)

Film a suo modo atipico, nel filone degli slasher movies, questo primo capitolo della lunga saga di Venerdì 13, firmato da Sean S. Cunningham, già produttore del cult “L’ Ultima Casa a Sinistra” (1972), di Wes Craven. Atipico, poiché segna la nascita di un “nuovo mostro”, senza mai mostrarlo. L’ icona Jason Voorhees, infatti, si manifesterà, così come noi la conosciamo, monolitica nella sua maschera da hockey, solo dal secondo film, il sequel  “Venerdì 13: L’ Assassino Ti Siede Accanto” (1981), per la regia di Steve Miner (qui nelle vesti di produttore associato) . Il primo capitolo narra la storia, l’antefatto, getta le basi per quella che diventerà una delle saghe più lunghe, e discontinue, della cinematografia orrorifica odierna. Pellicola dunque, assai più complessa di quel che possa sembrare a primo acchito, che acquista fascino se rivista dopo anni, e dopo gli innumerevoli e spesso inutili sequel; in realtà, la lunga serie non era nei progetti dei produttori della pellicola: Jason doveva solo essere una sorta di elemento accessorio nella trama, la motivazione a monte degli omicidi compiuti dalla madre, la folle Mrs. Voorhees.
Come molte pellicole dell’ epoca, venne girato in tempi brevissimi, 28 giorni, e con un budget basso, 550.000 dollari, registrando poi vertiginosi incassi al botteghino.
Il film segue dichiaratamente la scia del successo di “Halloween” di John Carpenter, per ammissione dello sceneggiatore Victor Miller: oltre che proseguire nell’ ottica slasher inaugurata dal capolavoro Carpenteriano, anche qui ritroviamo la soggettiva dell’ assassino, dunque la messa in moto del processo di identificazione da parte dello spettatore, in maniera meno raffinata rispetto al suo predecessore, ma in ogni caso efficace.
Gli effetti speciali sono opera del grande Tom Savini, chiamato dai produttori entusiasmati dal suo lavoro in “Dawn Of The Dead” di Romero: anche qui l’ artista dell‘ effetto gruesome non si smentisce, rendendo le uccisioni credibili, senza eccedere nello splatter.
Gli attori sono per lo più sconosciuti al grande pubblico, ad eccezione di Kevin Bacon, qui in una delle sue primissime pellicole: spontaneo il paragone con l’esordio di Johnny Depp in Nightmare, altra star lanciata da un horror low budget.
Il plot è semplice, nel suo seguire le linee guida di molti horror tradizionali ma al tempo stesso ridettandole: moltissimi slasher successivi infatti, si ispirano dichiaratamente a questo film, sia nell’ impianto narrativo che nelle ambientazioni; un capostipite dunque, spesso ingiustamente sottovalutato.
Il film è ambientato in un campeggio, l’ ormai famigerato Camp Crystal Lake (che nel doppiaggio  italiano diventa l’ improbabile “Campo Lago Cristallo”, spingendoci a chiederci perché gli adattatori dei dialoghi non riescano a cogliere il semplicissimo concetto di lasciare i nomi propri delle cose così come sono), e si apre con un flashback che ci riporta al 1958, con l’ uccisione di due ragazzi ospiti del campo. L’antefatto suggerisce ma non svela, gettando un’ aura macabra sul luogo, visto come maledetto e “jellato” dagli abitanti del paese vicino; la riapertura del campeggio, ad opera di  Steve Christy (Peter Brouwer) , è considerata un’ impresa folle e scellerata.
La lunga serie di uccisioni inizia quasi subito, a partire dalla ragazza che si sta recando a Crystal Lake per lavorare come cuoca (la stessa mansione ricoperta, anni prima, dalla Signora Voorhees), e passando in rassegna, uno alla volta, come in una macabra parata, gli ospiti del Camp, un gruppo di ragazzi anch’ essi andati lì per lavorare, poiché la struttura ancora non è stata inaugurata.
La tensione è alta, merito anche di una buona regia e di una sceneggiatura comunque efficace nella sua semplicità: il largo uso della soggettiva del killer ci mostra le vittime perennemente osservate, rendendo assai bene il senso di minaccia incombente, di presagio sinistro. Gli omicidi sono ripresi in modo originale (si pensi a quello del personaggio di Kevin Bacon, infilzato da sotto il letto, a suggerirci che l’assassino si trovava lì da chissà quanto tempo), e a volte con grande tecnica: l’ uccisione della ragazza in bagno, proprio nel momento in cui pensa che la sua paura sia solo autosuggestione, omicidio preannunciato dall’ ombra dell’ ascia alle sue spalle, e reso in maniera eccellente dal montaggio che alterna la messa in campo della morte all’ inquadratura del lampadario ciondolante, come ad illudere lo spettatore che nulla verrà mostrato, ma è illusione breve, poiché l’immagine dell’ ascia conficcata in pieno volto  si staglia rapida ed impietosa sullo schermo.
Ci sono i pattern tipici dell’ horror, ad esempio nella figura del pazzo del paese, Ralph, che si presenta al campeggio annunciando sciagure e morte certa, ed ovviamente non viene ascoltato. L’ uccisione dei protagonisti è spesso immediatamente successiva all’ atto sessuale, anche questo stereotipo della maggioranza delle produzioni horror degli anni ’80: come già detto in altre occasioni, sarebbe inutile e noioso perdersi in disquisizioni teoriche sull’ argomento. Va detto però che in questo caso il concetto è funzionale alla storia, poiché lo ritroviamo, a fine film, nelle parole della stessa signora Voorhees :”si erano distratti dalla sorveglianza perché stavano facendo l’ amore mentre quel povero bambino annegava”.
Proprio nel finale troviamo il nodo principale del plot, la spiegazione di ciò che è accaduto, non solo lo svelarsi dell’ identità del killer e le sue motivazioni ma anche un accenno a ciò che è avvenuto prima, e che segnerà lo svolgersi dei successivi capitoli della serie. Si getta dunque il seme per l’ intera saga, qui ancora più marcatamente rispetto alle altre produzioni seriali, poiché il protagonista non è ancora fisicamente presente bensì, come già detto, rappresenta soltanto un pretesto narrativo che acquisterà forma e forza nei film successivi. Ma è un pretesto fondamentale: Mrs Voorhees (interpretata da Betsy Palmer) è folle per la perdita del figlio, avvenuta nel 1958, anno dell’ antefatto mostrato a inizio film. Dalle sue parole, apprendiamo che Jason è annegato nel lago, poiché nessuno sorvegliava a dovere: la rabbia, il dolore, l’hanno resa ciò che è. Alcuni nodi fondamentali  ancora non ci vengono svelati, ed in questo il secondo capitolo può essere visto come necessario, per dare completezza alla storia (così come è avvenuto in “Halloween”: apprendiamo del legame parentale tra Laurie e Myers solo nel secondo film, e ciò spiega molto di ciò che nel primo era rimasto insoluto): elementi importanti come la macabra dinamica della morte di Jason e la sua condizione mentale restano per ora nascosti.
Questo importante sottotesto va molto al di là del prototipo slasher e di ciò che il povero Jason è diventato nei film successivi, ossia un personaggio ai limiti del ridicolo, che si limita ad ammazzare a colpi di machete, senza una spiegazione, spesso senza una trama degna di questo nome. Il seme della storia era dunque importante e assai ben congegnato: come troppo spesso accade nelle saghe filmiche, il tutto si è perso, rendendo Jason icona del genere anche nel senso negativo del termine, sterile prototipo del killer in maschera che agisce per vendetta in film che si basano solo sul bodycount, dunque sulla quantità di cadaveri accumulati nel corso della narrazione.
Il finale è inquietante (tra l’altro frutto di un’ idea di Tom Savini), non è smaccatamente aperto ma comunque non chiude definitivamente la storia. E’, a suo modo, ambiguo.
Importante la figura di Alice (una brava Adrienne King), unica sopravvissuta al massacro e anche lei, come la Laurie di Halloween e la Nancy di Nightmare, coraggiosa e giovane eroina che rappresenta la forza del Femminile, qui in lotta non contro un minaccioso Maschile bensì con l’altra faccia della stessa forza, ossia un Femminile deviato e reso folle dal desiderio di vendetta. Uno spunto assai interessante, purtroppo poco sviluppato.
Bellissimo e disturbante lo score musicale, ad opera di Harry Manfredini: un minimale vocalizzo con un effetto delay, che viene percepito come “chi chi chi, ha ha ha”, ma che in realtà, stando alle parole dello stesso compositore, suona come “ki ki ki, ma ma ma”, in richiamo al tormentone sonoro che sentiamo a fine film per bocca della Signora Voorhees, in originale “Kill kill kill, mom mom mom”, ossia quell’ inquietante “Uccidila mamma uccidila!” che la donna recita in falsetto, come se le parole del figlio morto uscissero dalle sue labbra.
Un film dunque importante, più di quanto comunemente si pensi; la percezione della pellicola da parte dello spettatore cambia con gli anni: visto in età adolescenziale molti significati non vengono colti, la visione in età adulta lo valorizza, e permette di comprenderlo in maniera più completa ed articolata. Un ottimo inizio successivamente svilito da un numero impressionante di seguiti (attualmente,la saga conta ben 10 film, più il divertente spin-off  “Freddy Vs Jason” ed il debolissimo remake del primo film, realizzato nel 2009 dall’ “operaio specializzato in rifacimenti” Marcus Nispel), che ancora una volta hanno spremuto il personaggio fino all’ osso, collocandolo nelle situazioni più improbabili, dall’ Inferno allo spazio. L’ ennesima lezione sull’ inutilità di collezionare sequel col solo fine di fare un po’ di bottino al box office, lezione che ovviamente non viene mai seguita a dovere. Perseverare, si sa, non è umano.

Chiara Pani
(araknex@email.it)



Titolo Originale: Friday The 13th  
USA - 1980
Regia: Sean S. Cunningham


domenica 25 dicembre 2011

Horror.it Speciale Horror Natale: "Black Christmas" (1974)



pubblicata su Horror.it:


nel nostro Speciale Horror Natale:

www.horror.it/a/category/cinema/speciale-natale-2/



Black Christmas (1974)

Questa bella pellicola di Bob Clark, di cui ricordiamo l ‘inquietante  “La Morte Dietro La Porta”, anch’ esso targato 1974, è da considerarsi a tutti gli effetti non solo uno dei prototipi dello slasher così come lo conosciamo ma anche il precursore di molti film successivi: impossibile, infatti, non pensare all “Halloween” di Carpenter (1980) ma soprattutto a Dario Argento, nelle soluzioni visive, in alcuni passaggi narrativi, nell’ uso dei suoni e delle voci ed in intere sequenze che sembrano prese di peso dai primi film del regista romano. Vista la coincidenza cronologica delle opere, è difficile dire chi abbia copiato chi, anche se in “Profondo Rosso”, realizzato nell’ anno successivo, c’è davvero molto di questo  Black Christmas (e qualche traccia la si nota anche in “Suspiria”, 1977). D’ altro canto, lo stile di Argento era già riconoscibile a partire dalla sua prima pellicola, “L’ Uccello dalle Piume di Cristallo”, datata 1970, dunque ci si trova davanti al classico dilemma se sia nato prima l’ uovo o la gallina. E’ curioso comunque notare che il personaggio dell’ assassino/ombra sia stato interpretato, in alternanza con un altro attore, dallo stesso Clark, ed entrambi abbiano anche prestato le loro voci per i monologhi telefonici, dunque,un’ altra, seppur minore, similitudine con le opere di Argento.
Con Carpenter si va su lidi più sicuri, visto che si parla del 1980 e nel film di Clark abbiamo un killer in perenne soggettiva, accompagnata da un pesante respiro; inoltre, alcune idee a livello di messa in scena a narrazione sarnno presenti nel capolavoro del regista statunitense.  L’ intero filone slasher è, come si diceva, fortemente debitore verso quest’ opera, per quanto essa si differenzi notevolmente, a livello di profondità narrativa e caratterizzazione dei personaggi, dalla maggioranza delle successive produzioni “bodycount” ; la casa delle studentesse, la classica “sorority” americana, per intenderci, l’ uccidere senza movente ed in maniera seriale, la modalità brutale degli omicidi, le allusioni sessuali, e la già citata soggettiva dell’ assassino sono tutte caratteristiche presenti in Black Christmas, mescolate alla già citate soluzioni tipicamente argentiane ma soprattutto ad una propria originalità. Prototipo, modello, forse ispirato da un certo cinema ma di certo non copia o clone, il film resta un capitolo a sé stante nell’ horror della prima metà degli anni ’70, nel suo puntare più sulle atmosfere, sulle suggestioni, sull’ uso del suono e sulla minaccia invisibile e incombente piuttosto che sul mostrare tout-court oppure sul gore, a dispetto del brutto titolo italiano, “Un Natale Rosso Sangue”. Di plasma, infatti, ne vediamo ben poco ma è proprio ciò che viene lasciato fuori dal nostro sguardo ad inquietarci, ad instillare una tensione persistente, che non ci abbandona nemmeno a film terminato.
La storia si svolge durante la notte di Natale, in una casa studentesca per ragazze, sotto la bonaria sorveglianza dell’ eccentrica Mrs Mac (Marian Waldman), personaggio interessante, estroverso e malinconico al tempo stesso, che annega la sua sostanziale solitudine in furtive sorsate di cherry. Fin dall’ inizio del fim, tramite la soggettiva ed il respiro, si manifesta la presenza/assenza del maniaco, che fisicamente si muove in quei luoghi ma che non è quasi mai mostrato in terza persona, se non in pochissimi momenti della narrazione. Dunque, più vicino ad un’ entità che ad un essere in carne ed ossa, lontano anni luce dalla massiccia fisicità di un Jason o di un Michael Myers. Egli è fortemente presente con la voce, anzi, le molteplici e schizofreniche voci con le quali perseguita telefonicamente le ragazze, passando dagli insulti ai deliri, dal tono gutturale al falsetto, in monologhi genuinamente disturbanti ed efficaci.  La minaccia viene in un primo momento sottovalutata e presa come uno scherzo, soprattutto da Barb (l’ ottima Margot Kidder, che ritroveremo protagonista di "Amityville Horror" e, molti anni più tardi, in un ruolo secondario in “Halloween II” di Rob Zombie), personaggio disinibito, sfrontato, trasgressivo, il cui omicidio nel film rappresenta forse la sequenza in assoluto più vicina al cinema di Argento: l’inquadratura dell’ occhio dell ‘assassino in penombra, il montaggio che alterna la scena di morte a quella di un coro natalizio di bambini, l’ uso della voce, i movimenti di macchina e soprattutto gli animaletti di cristallo in primissimo piano, sui quali schizza il sangue della vittima. Tutto ciò rimanda in modo assai evidente a quelle soluzioni visive che sono ormai diventate un marchio di fabbrica.
Ogni ragazza è un mondo a sé e lo studio sui personaggi è compiuto in modo accurato e non superficiale: l’indipendente e riflessiva  Jess (una giovanissima Olivia Hussey) si ritroverà a diventare protagonista nel corso del racconto, coraggiosa e un po’ incosciente eroina che apre la strada non solo alle successive Nancy Thompson e Laurie Strode ma anche alle virginali icone argentiane quali Jennifer Connelly e Jessica Harper. Restando in tema di rimandi, impossibile non notare la presenza di John Saxon, il padre di Nancy in “Nightmare”, anche qui nel ruolo del tutore dell’ ordine.
Il terrore comincia a rendersi manifesto con scomparsa di Clare (Lynne Griffin), dapprima minimizzata come una scappatella, per poi assumere toni più realisticamente drammativi in seguito alla sparizione di una tredicenne, e conseguente ritrovamento del suo cadavere. In realtà, Clare è assai vicina a tutte loro: il suo corpo è in soffitta, con la testa avvolta nel cellophane che l’ha soffocata, su di una sedia a dondolo che il killer si diverte a cullare. Le protagoniste, compresa Mrs Mac, cominciano a sfoltirsi sotto l’ implacabile mano del maniaco omicida, lasciando dunque Jess al centro della scena e alle prese con un pesante sospetto nei confronti del proprio fidanzato, il nevrotico Peter (Keir Dullea, che ricordiamo come protagonista/accessorio in un film di quasi totale azzeramento recitativo quale è  “2001: Odissea Nello Spazio”).
La pellicola si chiude in modo meno prevedibile e scontato di quanto possa apparire a primo acchito, con una sorta di “doppio finale”, ambiguo ed aperto.
La messa in scena è pervasa da una tensione costante, suspense allo stato puro, e da una vena di humor nero non demenziale che la rende ancora più unica nel suo genere; alcune sequenze sono sinceramente memorabili (il già citato omicidio di Barb ma anche la scena finale), e il killer come minaccia apparentemente impalpabile ma proprio per questo ancor più pericolosa, è trovata geniale e resa in modo assolutamente efficace. L’ uso del suono è fondamentale, anche nel disturbante score ad opera di Shirley Walker, e la fotografia cupa dona un grosso contributo all’ atmosfera tetra del narrato. Il plot presenta tuttavia alcune incoerenze, con qualche caduta e sfilacciamenti della trama che rendono la narrazione a tratti poco convincente. Nonostante questo, Black Christmas rimane un gioiello del genere orrorifico, storpiato da un inutile remake del 2006, che si spera abbia almeno contribuito a far ricordare il film originale, quel “Nero Natale” diventato “Rosso” per il pubblico italiano ma che proprio nel funereo non-colore trova la propria anima pulsante.

Chiara Pani
(araknex@email.it)






Black Christmas
Canada - 1974
Regia: Bob Clark

giovedì 3 novembre 2011

giovedì 19 maggio 2011

Promenons nous dans les bois - Deep In The Woods (maggio 2008)



Riesco finalmente a mettere le mani e soprattutto gli occhi su questo film dopo un bel po' di tempo dalla sua uscita (2002) e dopo averne sentito parlare un gran bene;provvidenziale ebay e il dvd import,visto che nelle nostre sale e videoteche non ha mai visto la luce,ed è un peccato,per chi ha fame di horror recenti e originali questo poteva essere un piatto gustoso.

I film d'oltralpe di genere immancabilmente incuriosicono,visto che è un paese che pare piuttosto allergico all'horror (se si escludono pochissime chicche tipo Haute Tension,che stilisticamente ricorda comunque questo film) e tende comunque a virarlo più verso il thriller e il dramma che verso il terrore o il gore fine a se stesso.

Il film non è perfetto,a volte si dilunga troppo,ma è interessante e visivamente bello,merita una visione:un gruppetto di giovani attori viene chiamato in una *sperduta dimora* per fare uno spettacolo privato:nella trama l'originalità non regna,ma alcune trovate sono decisamente brillanti,con sequenze psicologicamente disturbanti poichè dilatate all'eccesso.Una pellicola che riesce a dare un senso di disagio senza un uso eccessivo di effettacci,che comunque sono presenti ma con una certa misura ed impiegati ad arte.

Se il cinema è uno dei prodotti di una data cultura,prendendo l'horror come genere-campione,analizzare le produzioni di paesi solitamente avari nel settore può dirci qualcosa in più sul *cosa c'è dietro*,visto che notoriamente e dalla sua nascita l'horror rispecchia le paure e le ferite di un determinato paese in un dato periodo storico....

In ogni caso,un film misconosciuto,dal titolo inglese negativamente ingannevole ma che far venir voglia di vedere qualcosina in più in tema di pellicole orrorifiche per quanto riguarda il paese *della nouvelle vague*,che ormai è un 'etichetta ancora più trita che pizza-spaghetti-mandolino e da cui il cinema d'oltralpe potrebbe - e dovrebbe - finalmente affrancarsi.











Titolo Originale:Promenons Nous Dans Les Bois


Titolo Internazionale:Deep In The Woods


Francia - 2000


Regia:Lionel Delplanque