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mercoledì 5 dicembre 2012

La mia recensione di "Call Girl" di Mikael Marcimain per CineClandestino - Torino Film Festival XXX edizione


pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/call-girl.html










Call Girl (2012)


L’ipocrisia della libertà



Ispirata al fatto di cronaca noto come lo scandalo Bordellhärvan, che scosse la Svezia nel 1977, Call Girl, co-produzione nordeuropea diretta da Mikael Marcimain, al suo esordio nel lungometraggio, è un’opera affascinante, complessa e stratificata, in cui i forti echi di un certo cinema americano politicamente impegnato (in primis Tutti Gli Uomini Del Presidente, di Alan J. Pakula, del 1976) si mescolano in modo assai efficace a un dramma personale, con una cifra stilistica peculiare che dimostra una grande padronanza del mezzo filmico, sebbene si tratti di un’opera prima. 

Lo svedese Marcimain ha al suo attivo un’importante esperienza come regista di seconda unità in La Talpa (2011), di Tomas Alfredson, altra pellicola che è influenza tangibile, sia dal punto di vista del narrato che a livello visivo, per la ricostruzione impeccabile delle ambientazioni dell’epoca, perizia che al Torino Film Festival è valsa il Premio Bassan – Arti e Mestieri alla scenografa Lina Nordqvist, che ha svolto un lavoro eccelso nel ricreare minuziosamente le atmosfere del decennio ‘70, in modo così efficace da far credere allo spettatore di trovarsi di fronte ad un girato realmente realizzato in quegli anni.

La storia di  Iris (Sofia Karemyr, splendida esordiente) e di sua cugina Sonja (Josefin Asplund, già vista nel Fincheriano Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne), quattordicenni dai trascorsi famigliari travagliati, affidate alla casa minorile Alsunda, sorta di struttura-modello che ha il reale scopo di proteggere i propri ospiti, oltre che tenerli sotto sorveglianza, lasciando loro nel contempo una certa dose di libertà. E’ proprio tramite alcune compagne dell’Alsunda che, durante una serata in città, le due ragazze si ritrovano in un ambiguo festino nel corso del quale incontrano Dagmar Glans, interpretata da una superlativa Pernilla August (Gli Innocenti,  Star Wars – La Minaccia Fantasma), carismatica maîtresse a capo di un grosso giro di prostituzione d’alto bordo. La donna è abile nel far presa sulle due giovani, sostanzialmente ingenue, coprendole di attenzioni (con una spiccata preferenza per Iris) e auto-definendosi “mamma”, in un gioco ipocrita e meschino, nel quale le neo-squillo sono soltanto pregiata carne fresca per i suoi facoltosi e potenti clienti.

Clientela che vanta nomi altisonanti, tra cui il Ministro della Giustizia ed altre personalità politiche piuttosto in vista; tra denaro facile ,feste di lusso e hotel a cinque stelle, per Iris e Sonja è facile perdere il contatto con la realtà che le circondava fino a poco tempo prima. Le fughe notturne da Casa Alsunda diventano una prassi, ma l’ebbrezza della nuova vita dura poco, poiché l’altra faccia di una medaglia perversa non tarda a manifestarsi: sesso svogliato e squallido con uomini viscidi e attempati, droga e alcool che diventano coadiuvanti necessari e la Glans che da pigmaliona fintamente affettuosa e protettiva arriva a mostrare il suo vero volto di donna tirannica e priva di qualsiasi scrupolo.

La vicenda personale di Iris e Sonja è soltanto uno dei binari percorsi da Marcimain nel suo racconto ad incastri, ingrandimento di un dettaglio interno ad una narrazione ramificata, nella quale ogni elemento è perfettamente funzionale agli altri, anche per merito dell’eccellente e robusta sceneggiatura firmata da Marietta von Hausswolff von Baumgarten, al suo primo script cinematografico. Due minorenni in un giro di prostitute frequentato da uomini potenti: l’ispettore di polizia Sandberg (John Berger), è determinato a portare avanti le indagini sul caso, scontrandosi con  un muro di ostracismo da parte dei superiori non appena vengono alla luce i grossi nomi coinvolti. Lo  attenderà una fine tragica, per essersi spinto troppo oltre.
 
Call Girl non si limita a ricordare, denunciandolo, un episodio scomodo della recente storia svedese, ma mette alla berlina l’intero sistema sociopolitico della nazione in una data epoca, mostrando, con malcelato sarcasmo, sia le campagne elettorali a favore della parità dei sessi, che le dichiarazioni di proposte di leggi che depenalizzano stupro e pedofilia, il tutto come background del narrato principale, ossia lo sfruttamento della prostituzione: il paese-simbolo della liberalizzazione sessuale mostra dunque il suo volto ipocrita e segnato da troppe cicatrici.
 
Lo stile di Marcimain è raffinatissimo, non esente da qualche virtuosismo di troppo ma estremamente abile nell’affrescare un racconto che si dipana con un ritmo lento ed inesorabile (lodevole il montaggio, ad opera di Kristofer Nordin) per ben 140 minuti, senza mai annoiare lo spettatore, riuscendo sempre a sorprenderlo e ad ancorarlo a ciò a cui sta assistendo.
 
Graziato da alcune trovate visive di rara efficacia (tra cui l’uccisione di Sandberg, e il zoom out d’apertura, che da uno schermo televisivo catapulta il racconto nella dimensione del reale), con la magnifica fotografia vintage di Hoyte Van Hoytema ed un ossessivo score elettronico composto da Mattias Bärjed, Call Girl segna dunque l’esordio di un cineasta da tenere d’occhio, dal talento non comune e capace di orchestrare un apparato visivo potente e rigoroso.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

 

mercoledì 1 agosto 2012

La mia recensione di "Headhunters" (2011) per CineClandestino.it



pubblicata su CineClandestino.it:

http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=10&art=9645





 
Headhunters (Hodejegerne) (2011)



Cacciatori e Prede


“Mi chiamo Roger Brown. Altezza: un metro e 68 centimetri. Capirete che devo compensare la mia altezza”. Così inizia Headhunters (Hodejegerne), pellicola del 2011 co-prodotta da Norvegia e Germania, vincitrice della più recente edizione del Noir InFestival di Courmayeur; diretta con mano sapiente da Morten Tyldum  (“Buddy”, “Varg Veum”), è tratta dall’omonimo romanzo (ancora non distribuito in edizione italiana) dell'ormai celebre scrittore norvegese Jo Nesbø, autore di noir come “L’Uomo Di Neve”(2010) e “La Ragazza Senza Volto”(2009).


Il film può dare l’impressione di seguire la scia del successo editoriale di Stieg Larsson e delle trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi, ma è influsso soltanto apparente, poiché le differenze sono notevoli sotto molti punti di vista. Si può comunque parlare a pieno titolo di una rinascita nordeuropea anche dal punto di vista letterario, poiché in campo cinematografico, dal Dogma di Von Trier fino a Nicholas Winding Refn, l’ estremità più fredda del nostro continente si è già confermata culla di un nuovo corso tra i più fulgidi che si siano visti sui grandi schermi da molti anni a questa parte.

La pellicola mescola noir, thriller e ironia, sebbene la chiave umoristica possa risultare, a volte, un po’ fuori luogo, quasi una forzatura non necessaria in un contesto che avrebbe potuto essere più puramente cupo: l’umorismo nordico è forse per noi non immediatamente comprensibile, ma ciò non inficia il buon risultato complessivo del’opera, seppur essa non sia esente da qualche scivolone di sceneggiatura (adattata dal romanzo di Nesbø per mano di Lars Gudmestad e Ulf Ryberg). Il meccanismo a incastro del plot ogni tanto si inceppa, generando dei vuoti che possono lasciare interdetti; il noir è genere che va maneggiato con cura ,Tyldum guarda a modelli assai elevati ossia nientemeno che al Maestro Hitchcock, in primis nelle tematiche, ad esempio il deflagrante potere distruttivo di un individuo sull’ordinaria vita altrui.
Il compito è ben svolto, la macchina da presa è agile e sicura e il montaggio ha un ruolo fondamentale nel dare un ritmo fin troppo accellerato alla vicenda, al punto che in alcuni momenti si fatica quasi a seguirla; la fredda e netta fotografia di John Andreas Andersen (“King Of Devil’s Island”) rende perfettamente l’atmosfera del racconto, e le musiche accompagnano armoniosamente l’insieme, ma a fine visione, per quanto nel complesso soddisfatti, si rimane con la sensazione di aver percepito qualche nota stonata in una sinfonia per altri versi ben riuscita.

Queste pecche possono essere ritrovate, come si diceva, nelle falle del plot, e nella varietà di registri che non sempre riescono a sposarsi in modo armonioso. Tuttavia, il valore della pellicola riesce a restare al di sopra della media, seppur paghi lo scotto dei suoi errori, soprattutto in un finale poco credibile.
Il protagonista, Roger (ottima l’interpretazione di Aksel Hennie, che regala al personaggio il suo volto al tempo stesso algido e infantile), subisce una trasformazione nel corso del narrato: da cinico uomo d’affari il cui unico punto debole è la bellissima moglie Diana (Synnøve Macody Lund), che ha il terrore di perdere e che crede di tenere legata a sé accontentandola in tutto tranne che nel suo unico e reale desiderio, ossia la maternità, si trasforma in preda, paranoico fuggiasco dopo l’incontro col fascinoso Clas Greve (Nikolaj Coster-Waldau, noto per la serie televisiva “Game Of Thrones”) , manager olandese a capo di una società leader nel rintracciamento tramite gps. Per mantenere il suo dispendioso tenore di vita, dettato dall’insicurezza di fondo dell’avere una moglie così “bella e intelligente” e dalla materialistica ingenuità del credere che sia sufficiente il denaro a non farla scappare, Roger si dedica ai furti d’arte, usando la sua attività di recruiter del personale per raccogliere informazioni sulle sue potenziali vittime. Egli è dunque un uomo fragile, Diana è il suo tallone d’Achille e l’astuto Clas lo colpisce proprio nel vivo, scatenando l’istinto più malsano: la gelosia. Un Rubens custodito in casa di Greve, i pensieri ossessivi di Roger, ma soprattutto la sete di potere dell’olandese che sfocerà in follia, daranno vita a una caccia all’uomo che vedrà Brown in situazioni talvolta tragicomiche, che smorzano, purtroppo, il potenziale alto voltaggio di tensione del racconto.

Il rapporto Roger/Clas/Diana è un triangolo interessante e reso in maniera anche piuttosto efficace, nel suo essere terreno di scontro di possesso, conflitto e rabbia; si pecca però di un buonismo eccessivo, una dose di cattiveria in più avrebbe reso il tutto assai più godibile, in special modo nella parte finale.

Nel complesso, una pellicola interessante, senza dubbio originale, e di buona fattura; tuttavia,  una maggiore destrezza nel maneggiare registri diversi e l’aggiunta di un cucchiaio di cinismo avrebbero regalato un risultato decisamente superiore.    

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Titolo Originale: Hodejegerne
Norvegia/Germania - 2011
Regia: Morten Tyldum