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Call
Girl (2012)
L’ipocrisia
della libertà
Ispirata al
fatto di cronaca noto come lo scandalo Bordellhärvan, che scosse la Svezia nel
1977, Call Girl, co-produzione
nordeuropea diretta da Mikael Marcimain, al suo esordio nel lungometraggio, è
un’opera affascinante, complessa e stratificata, in cui i forti echi di un
certo cinema americano politicamente impegnato (in primis Tutti Gli Uomini Del Presidente, di Alan J. Pakula, del 1976) si
mescolano in modo assai efficace a un dramma personale, con una cifra
stilistica peculiare che dimostra una grande padronanza del mezzo filmico,
sebbene si tratti di un’opera prima.
Lo svedese Marcimain ha al suo attivo
un’importante esperienza come regista di seconda unità in La Talpa (2011), di Tomas Alfredson, altra pellicola che è
influenza tangibile, sia dal punto di vista del narrato che a livello visivo, per
la ricostruzione impeccabile delle ambientazioni dell’epoca, perizia che al
Torino Film Festival è valsa il Premio Bassan – Arti e Mestieri alla scenografa
Lina Nordqvist, che ha svolto un lavoro eccelso nel ricreare minuziosamente le
atmosfere del decennio ‘70, in modo così efficace da far credere allo
spettatore di trovarsi di fronte ad un girato realmente realizzato in quegli
anni.
La storia
di Iris (Sofia Karemyr, splendida esordiente)
e di sua cugina Sonja (Josefin Asplund, già vista nel Fincheriano Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne),
quattordicenni dai trascorsi famigliari travagliati, affidate alla casa
minorile Alsunda, sorta di struttura-modello che ha il reale scopo di
proteggere i propri ospiti, oltre che tenerli sotto sorveglianza, lasciando
loro nel contempo una certa dose di libertà. E’ proprio tramite alcune compagne
dell’Alsunda che, durante una serata in città, le due ragazze si ritrovano in
un ambiguo festino nel corso del quale incontrano Dagmar Glans, interpretata da
una superlativa Pernilla August (Gli
Innocenti, Star Wars – La Minaccia Fantasma), carismatica maîtresse a capo di un grosso giro di prostituzione d’alto bordo. La
donna è abile nel far presa sulle due giovani, sostanzialmente ingenue,
coprendole di attenzioni (con una spiccata preferenza per Iris) e
auto-definendosi “mamma”, in un gioco ipocrita e meschino, nel quale le neo-squillo sono
soltanto pregiata carne fresca per i suoi facoltosi e potenti clienti.
Clientela che vanta nomi
altisonanti, tra cui il Ministro della Giustizia ed altre personalità politiche
piuttosto in vista; tra denaro facile ,feste di lusso e hotel a cinque stelle,
per Iris e Sonja è facile perdere il contatto con la realtà che le circondava
fino a poco tempo prima. Le fughe notturne da Casa Alsunda diventano una
prassi, ma l’ebbrezza della nuova vita dura poco, poiché l’altra faccia di una
medaglia perversa non tarda a manifestarsi: sesso svogliato e squallido con
uomini viscidi e attempati, droga e alcool che diventano coadiuvanti necessari
e la Glans che da pigmaliona fintamente affettuosa e protettiva arriva a
mostrare il suo vero volto di donna tirannica e priva di qualsiasi scrupolo.
La vicenda personale di Iris
e Sonja è soltanto uno dei binari percorsi da Marcimain nel suo racconto ad
incastri, ingrandimento di un dettaglio interno ad una narrazione ramificata,
nella quale ogni elemento è perfettamente funzionale agli altri, anche per
merito dell’eccellente e robusta sceneggiatura firmata da Marietta
von Hausswolff von Baumgarten, al suo primo script cinematografico. Due
minorenni in un giro di prostitute frequentato da uomini potenti: l’ispettore
di polizia Sandberg (John Berger), è determinato a portare avanti le indagini
sul caso, scontrandosi con un muro di
ostracismo da parte dei superiori non appena vengono alla luce i grossi nomi
coinvolti. Lo attenderà una fine
tragica, per essersi spinto troppo oltre.
Call Girl non si limita a ricordare, denunciandolo, un
episodio scomodo della recente storia svedese, ma mette alla berlina l’intero
sistema sociopolitico della nazione in una data epoca, mostrando, con malcelato
sarcasmo, sia le campagne elettorali a favore della parità dei sessi, che le
dichiarazioni di proposte di leggi che depenalizzano stupro e pedofilia, il
tutto come background del narrato principale, ossia lo sfruttamento della
prostituzione: il paese-simbolo della liberalizzazione sessuale mostra dunque
il suo volto ipocrita e segnato da troppe cicatrici.
Lo stile di Marcimain è raffinatissimo, non esente da qualche virtuosismo
di troppo ma estremamente abile nell’affrescare un racconto che si dipana con
un ritmo lento ed inesorabile (lodevole il montaggio, ad opera di Kristofer
Nordin) per ben 140 minuti, senza mai annoiare lo spettatore, riuscendo sempre
a sorprenderlo e ad ancorarlo a ciò a cui sta assistendo.
Graziato da alcune trovate visive di rara efficacia (tra cui l’uccisione
di Sandberg, e il zoom out d’apertura, che da uno schermo televisivo catapulta
il racconto nella dimensione del reale), con la magnifica fotografia vintage di
Hoyte Van Hoytema ed un ossessivo score elettronico composto da Mattias Bärjed,
Call
Girl segna dunque l’esordio di un
cineasta da tenere d’occhio, dal talento non comune e capace di orchestrare un
apparato visivo potente e rigoroso.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
messo in lista anche questo! ^_^
RispondiEliminasperando che esca in sala :)
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