pubblicata su Positifcinema:
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Promised
Land (2012)
Not the Bad Guy
Ripercorrendo
la filmografia di Gus Van Sant, dagli esordi nel 1986 col low-budget Mala Noche
fino a L’Amore Che Resta (2011), non si può fare a meno di immaginarlo
eternamente giovane, immutato ribelle di Hollywood, per quanto abbia indugiato
in qualche concessione al box-office (il comunque splendido Will Hunting). Se si ripensa a quello che è con ogni
probabilità il suo capolavoro, Elephant (2003), strozzato urlo di dolore per la
strage di Columbine, alla freschezza inventiva delle sue opere migliori, si
fatica a credere che il cineasta abbia ormai varcato la soglia dei sessant’anni
di età, o meglio, si faticava: Promised Land, distribuito nelle sale italiane in
contemporanea alla presentazione nel corso della 63ma Berlinale, ci riporta con
i piedi per terra, accompagnati dall’amara constatazione che anche Gus Van Sant
è inesorabilmente invecchiato. La pellicola si fonda su premesse allettanti:
torna Matt Damon, sia nei conflittuali panni del protagonista Steve Butler che
nelle vesti di sceneggiatore, a quattro mani con John Krasinski (suo
antagonista nel film, nel ruolo di Dustin Noble) da un soggetto del celebre
scrittore Dave Eggers (L’Opera Struggente di un Formidabile Genio).
La storia
di Butler, trentottenne con aspirazioni carrieriste in seguito alla promozione
ottenuta presso la Global, multinazionale dal nome-simbolo (tratto ricorrente
nel film) che trivella terreni per estrarne gas naturale, mette in gioco una
tematica fondamentale ossia la crisi
economica, sfondo dell’intera narrazione, senza però sfruttarne appieno il
potenziale e finendo per concentrarsi su aspetti secondari e sostanzialmente
retorici. Steve e la collega Sue (magnifica Frances McDormand, per quanto sia
ormai quasi inutile sottolinearlo) hanno l’incarico di convincere gli abitanti
di una cittadina rurale della Pennsylvania, messa in ginocchio dalla mancanza
di risorse, a vendere la propria terra, ricorrendo a false promesse di
ricchezza: Steve è cresciuto in una fattoria, in un piccolo centro molto simile
a quello in cui devono muoversi e ritiene dunque di conoscere “questa gente”,
di potersi agevolemente mescolare a loro nella presunzione della propria
superiorità culturale, commettendo l’errore di identificarla con quella
intellettuale. Lo sbaglio è palese fin dal suo arrivo, a partire dal cartellino
del prezzo dimenticato su una camicia di flanella acquistata per “sembrare uno
di loro”, e che proprio uno di loro staccherà al primo sguardo, smascherando
subito la goffa intenzione; ciò che non va, ovviamente, si trova più a fondo,
nell’animo e nella coscienza del protagonista e, in primis, nella memoria della
propria provenienza e delle proprie radici, che entra inevitabilmente in
conflitto con un’identità presente tanto posticcia quanto fragile. E’ anche in
questo che ritroviamo uno dei passi falsi di Promised Land, nel suo scivolare verso
una retorica superficiale e un tantino demagogica, troppo scontata e già vista.
Per quanto il regista e gli autori dello script si concentrino, legittimamente,
sul travaglio interiore di Butler e sulla sua mancanza di autostima (dovuta, in
modo fin troppo ovvio, al non credere davvero in ciò che fa), finiscono per
arenarsi sui buoni sentimenti e sulla tematica di una ritrovata consapevolezza
delle proprie origini, perdendo di vista altri spunti potenzialmente
interessanti. Si punta su una rappresentazione che è anche simbolica
(caratteristica del cinema di Van Sant), dagli stivali del nonno, elementi
chiave in quanto significanti di una figura parentale determinante nella vita
di questo “yuppie sbagliato”, fino ai nomi dei personaggi: Butler, ossia
maggiordomo, dunque servo di un potere più grande, Dustin Noble,
l’ambientalista che darà filo da torcere ai due venditori, dal cognome troppo
smaccatamente immacolato per poter convincere e soprattutto la Global, emblema
di tutte quelle multinazionali che proprio dalla crisi tentano di trarre il
maggior profitto possibile, senza curarsi delle conseguenze. Ingiustamente poco
approfondita la figura di Frank Yates (un grande Hal Holbrook), anziano
insegnante per passione, in realtà fregiato da prestigiosi titoli accademici:
ben lungi dall’essere un bifolco facilmente raggirabile con qualche chiacchiera,
uomo la cui profonda dignità rappresenta quella della comunità intera.
Promised
Land regala alcuni buoni momenti, tra cui il monologo di Steve sui “Fuck you
money”, ossia il denaro come “liberatore definitivo” e alcuni dialoghi arguti,
un ottimo cast e il sapiente talento di Van Sant per l’immagine in quanto tale,
complice la bellissima fotografia di Linus Sandgren e riprese paesaggistiche di
indubbia suggestione. Tuttavia, il film resta irrisolto e complessivamente un
po’ monotono nonostante qualche efficace scossone.
La
pellicola avrebbe dovuto segnare l’esordio registico di Damon, che rinunciò a
causa di tempi troppo stretti e divergenze creative, passando il testimone a Van
Sant, il quale probabilmente non è entrato del tutto in sintonia con l’opera: ciò
che manca davvero a Promised Land, come del resto al suo protagonista, è
proprio una ben definita personalità. Ed è un vuoto che si avverte.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Promised Land
USA - 2012
Regia: Gus Van Sant
Data di
Uscita in Italia: 14 Febbraio 2013
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