Per il nostro sguardo retrospettivo su Bryan Singer, la mia disamina de "I Soliti Sospetti"
pubblicata su Positifcinema:
http://www.positifcinema.it/soliti-sospetti-di-bryan-singer
I Soliti Sospetti (The Usual Suspects) (1995)
L’importanza di chiamarsi Söze
“La beffa più grande che il Diavolo
abbia mai fatto è stata di convincere il mondo che lui non esiste”
(Charles Baudelaire)
Cinque criminali
in fila per un confronto all’americana: è partito tutto da lì, da quella che è
diventata l’immagine-simbolo de I Soliti Sospetti (The Usual Suspects), poiché
è proprio da quest’idea visiva balenata nella mente dello sceneggiatore Christopher
McQuarrie (collaboratore abituale di Singer in gran parte dei suoi lavori)
mentre si trovava in coda davanti al botteghino di un cinema, che è nato lo
spunto per quello che è considerato un film fondamentale nella cinematografia
statunitense degli ultimi anni, un’opera spartiacque che è divenuta modello di
un nuovo modo di rileggere (e stravolgere) le convenzioni del noir. Secondo
lungometraggio di Singer, dopo il buon risultato dell’esordio con Public Access
(1993), I Soliti Sospetti affonda le proprie radici nella tradizione, ossia nel
cinema americano classico, in quelle che sono le regole e gli stilemi della
sceneggiatura del noir hollywoodiano, per poi rimescolarle e collocarle in
maniera diversa, con un risultato che spiazza e sorprende lo spettatore.
Si vedano, in primis, le unità di tempo e
luogo, scandite da didascalie che collocano la narrazione in tre ambiti
spazio/temporali diversi: si comincia con “San Pedro, California – la scorsa
notte”, dunque da quello che in realtà scopriremo essere l’epilogo della
vicenda, ossia l’incendio al porto, cronologicamente vicinissimo, per proseguire
con la seconda, la più importante: “New York – sei settimane fa”, segmento
fondamentale nel quale ci viene mostrato il momento dell’arresto dei cinque
protagonisti, il confronto all’americana che è uno dei perni del narrato e la
presentazione dei personaggi tramite la voce narrante di Roger “Verbal” Kint
(un Kevin Spacey a dir poco strepitoso, attorno al quale si sviluppa l’intero
plot, che per il ruolo portò a casa un Oscar). L’ultima delle tre entità di
spazio/tempo ci riporta al qui e ora del racconto :”San Pedro – oggi” , con
quindici cadaveri carbonizzati e due superstiti, uno in coma, l’altro “uno
zoppo di New York” (inutile dirlo, Verbal Kint). Da questo momento in poi gli
snodi avvengono tra flashback e presente, senza bisogno di puntualizzazioni:
questa è la prima destrutturazione del meccanismo del classico gangster movie,
illudere lo spettatore di trovarsi di fronte a un’esposizione di stampo
tradizionale, nella quale i cambiamenti cronologici e di ambientazione sono chiaramente
sottolineati, un’ingannevole rassicurazione riguardo all’identità di ciò a cui
si sta assistendo. Uno dei punti cardine del cinema di Bryan Singer è che nulla
è ciò che sembra, e I Soliti Sospetti ne è l’esempio non solo più lampante ma
anche più scopertamente analizzabile: la carte vengono rimescolate di continuo,
in un gioco disorientante che può portare all’unica soluzione possibile, il
colpo di scena finale, uno dei twist narrativi più riusciti e meno prevedibili
che si siano visti sullo schermo da almeno trent’anni a questa parte.
L’altro
elemento portante del noir USA anni ‘40/’50 a cui McQuarrie si rifà nella
stesura dello script è la caratterizzazione dei personaggi, poichè ognuno di
loro incarna quello che potremmo definire un enneatipo filmico, una tipologia
psicologica (e fisica) precisa: “il capo” (Dean Keaton, un grande Gabriel Byrne),
“il pazzo” (McManus, interpretato da Stephen Baldwin), “il violento” (Todd
Hockney ossia Kevin Pollack), “il ribelle/disadattato” (Fred Fenster, il
magnifico Benicio Del Toro), e infine “l’outsider”, lo storpio e apparentemente
stupido, quel Roger “Verbal” Kint che sommessamente tira le fila di tutta la
narrazione. Anche in questo caso, lo sceneggiatore cambia le regole, tornando
al discorso Singeriano del “nulla è ciò che sembra”: il capo è solo
un’apparenza e chi rimaneva nell’angolo, con la sua camminata claudicante,
fingendo paura, stupore, idiozia, diventa l’elemento chiave, colui del quale nessuno
avrebbe mai sospettato.
Kayser Söze è nome profondamente
evocativo costruito da McQuarrie con l’ausilio di un dizionario inglese/turco: il suono germanico rimanda al concetto di
sovrano assoluto, imperatore, e quel Söze è di per sé indizio, in quanto l’appellativo
del personaggio può essere a grandi linee tradotto come “imperatore
chiacchierone”, e Kint si è guadagnato il soprannome di Verbal per la sua
tendenza a parlare troppo. Parola come simbolo, significante supremo in una
pellicola in cui il linguaggio assume una valenza concreta, che si può definire
fisica nella delineazione dei caratteri e delle situazioni (le parole di Fenster,
ad esempio, sono quasi incomprensibili nel suo continuo bofonchiare): la figura
di Kayser Söze acquista un’aura mitologica nel corso del plot, che si rafforza
semplicemente con l’uso dell’espressione verbale, alla stregua delle leggende
tramandate oralmente, radicandosi in modo inesorabile nel nostro immaginario.
Un appellativo, due semplici sostantivi, che stanno a rappresentare il concetto
centrale della poetica del regista, vale a dire il Male, nella sua accezione
più profonda e definitiva. Il cinema di Bryan Singer, infatti, è un ampio e
approfondito discorso sul coté maligno dell’essere umano, sull’oscurità che
permea quelle zone dell’anima che cerchiamo sempre di celare agli sguardi
altrui. Un Male già presente in Public Access, che in seguito assumerà le
spoglie del diabolico storico per eccellenza, il nazismo, ne L’Allievo (1998) e
in Operazione Valchiria (2008), e che in questa pellicola raggiunge la sua
apoteosi espressiva, dipingendo Kayser Söze come “il diavolo in persona”,
mitizzandone le gesta attraverso un flashback che lo vede guerriero epico,
personaggio che è probabilmente solo una leggenda tramandata tra criminali ma
che è terrificante sopra ogni altra cosa ("Non credo in Dio ma ne ho
paura. Beh, a dire il vero ci credo, ma l’unica cosa che mi spaventa è Kayser
Söze”, dice Verbal al detective Kujan, l’ottimo Chazz Palminteri, nel corso
dell’interrogatorio che attraversa il film e che è primo, grande indizio di
quello che sarà il twist dell’epilogo) .
Emblematica la citazione da Charles
Baudelaire, che dona ulteriore vigore alla natura demoniaca e sovrannaturale
del personaggio di Söze, ambiguo fin da prima della sua rappresentazione: Singer
disse a ognuno degli attori principali che avrebbe interpretato il ruolo
cardine, con successivo grande disappunto di Byrne; la mitizzazione ha dunque
luogo a partire dall’extradiegetico, dagli albori della lavorazione, generando
così il medesimo senso di spiazzamento provato dallo spettatore.
Il celeberrimo
finale, la rivelazione che rovescia il modo in cui l’intero film è percepito
(le visioni successive alla prima, infatti, saranno inevitabilmente
condizionate dalla consapevolezza) è da manuale di cinema, in un gioco di campi
e controcampi, parole che tornano alla mente di Kujan, la geniale chiusura di
un cerchio costruita anch’essa sull’espressione verbale, su singoli vocaboli
apparentementi insignificanti che, improvvisamente, assumono un’importanza
assoluta.
Una pellicola che può essere definita seminale
nella concezione del noir moderno, modello visivo e narrativo che ha influenzato
molti epigoni successivi, spesso definito “meccanismo a orologeria”, in realtà
composto da cerchi concentrici che conducono a quello che è il cuore oscuro
dell’opera: l’identità di Kayser Söze.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Titolo originale: The Usual Suspects
USA - 1995
Regia: Bryan Singer
Data di uscita italiana: 30 Novembre 1995
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