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lunedì 13 febbraio 2012

La mia recensione di "Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne" (2011) di David Fincher per Horror.it

pubblicata su Horror.it:





 

Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne (2011)

“Se una donna si accosta a una bestia per accoppiarsi con essa, ucciderai la donna e la bestia e il loro sangue ricadrà su di loro”
                                                                       (Levitico , 20:16)

In questo ed altri versetti del Levitico, non a caso il più fondamentalista fra i libri della Bibbia , è contenuta la chiave di volta per la risoluzione del caso sul quale indagano i due protagonisti di Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne  (“The Girl With The Dragon Tattoo”), l’ ultima e complessa opera di David Fincher. Etichettato in modo sbrigativo come remake dell’ omonima pellicola del 2009, firmata dal danese Niels Arden Oplev e, com’è ormai arcinoto, basata sul primo dei tre romanzi dello scrittore svedese Stieg Larsson, il film di Fincher è assai più di un semplice rifacimento. Innanzitutto, per la stratificazione del narrato: si mette in scena ciò che il cinema ha già mostrato e che, a sua volta, era trasposizione della parola scritta. Fincher, seguendo come sempre la sua visione, si appropria del testo di Larsson, lo reinterpreta, senza snaturarlo, mantenendone inalterati gli equilibri ma, al tempo stesso, offrendone un’ interpretazione completamente altra, inedita, diversa. Una sceneggiatura solida e dal meccanismo perfetto, firmata da Steven Zaillian (“Gangs Of New York”, “Schindler’ s List”) è fondamento indispensabile al lavoro del regista, accompagnandolo ad arte e regalando un risultato al di sopra di ogni aspettativa. E dire che è stato un film su commissione, a detta dello stesso Fincher, dunque non fortemente voluto; ma anche in questo tipo di operazione, il regista non riesce a non essere se stesso, a non infondere gocce della propria poetica tra le righe di un pensiero altrui.

“The Girl With The Dragon Tattoo”, a differenza della maggioranza delle rivisitazioni yankee di film stranieri, è girato nelle locations originali, nell’ algida Svezia, tra Stoccolma ed Hedestad, il luogo immaginario creato da Larsson dove sorge l’ isola di proprietà dei Vanger: dunque, non vi è stato lo sradicamento dalle origini culturali del testo, e ciò ha contribuito non poco al valore del film.
Il cinema di Fincher è da sempre fatto di dettagli, del  piccolo che diventa fondamentale, dei tanti tasselli sparsi che si uniscono a formare un’ incastro inevitabilmente perfetto.  Di tutto questo si compone l’ indagine condotta da Mikael Blomkvist (un efficace Daniel Craig), giornalista della rivista indipendente Millennium, caduto in disgrazia dopo aver tentato di smascherare gli affari sporchi di un miliardario: viene incaricato dal ricchissimo ed anziano industriale Henrik Vanger (Christopher Plummer) di indagare sulla scomparsa della nipote Harriett, avvenuta molti anni prima; l’ uomo è certo che il responsabile della probabile morte della ragazza, sia proprio un Vanger: “ si troverà ad indagare su ladri, avari, prepotenti, la più detestabile collezione di individui che lei abbia mai conosciuto: la mia famiglia”.

Non ha tutti i torti, Henrik Vanger: due nazisti in famiglia non sono esattamente motivo di vanto. Proprio su questo tasto, la sceneggiatura di Zaillian, memore di “Schindler’s List”, spinge particolarmente, mostrando così il marcio dei potenti dietro la patina di perbenismo, un feroce ritratto famigliare nel quale emergono scheletri tenuti nascosti troppo a lungo. Ma non è solo il fine che conta in questo film, è soprattutto il mezzo: è il modo in cui l’ indagine sviene svolta, e qui si torna all’ importanza del particolare, del mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle apparentemente irrisolvibile. La ricerca di Mikael è ossessivamente meticolosa, ricostruisce il giorno della scomparsa di Harriett mediante delle immagini, un susseguirsi di fotografie gelidamente immobili, ma che sono le sole ad essere in grado di dirgli qualcosa (“dove sei finita, Harriett?”, chiede Mikael guardandola stampata su carta).

Ed ecco che subentra lei. Lisbeth Salander. Personaggio già noto al pubblico sia per la trilogia letteraria, sia per il film precedente , grazie all’ ottima interpretazione di Noomi Rapace, a detta di molti ineguagliabile; invece, la scelta di Rooney Mara, già vista in “The Social Network”, si è rivelata assai più che vincente: lei è Lisbeth, in tutto e per tutto. Il personaggio Fincheriano è fisicamente più infantile e fragile, in apparenza indifeso, diafano e dal volto quasi alieno. Recita con gli occhi, con i gesti, resta stampata nella memoria fin dalla sua prima apparizione: convocata per incontrare Frode (Steven Berkoff), l’ avvocato di Vanger, al fine di affidarle il compito di indagare su Blomkvist a titolo cautelativo, prima di investirlo dell’ incarico riguardante Harriett (dunque le ricerche si fanno molteplici, si avvolgono l’ una attorno all’ altra), si siede di profilo, quasi senza guardarli, le sue risposte sono brusche, brevi, sfuggenti. Lisbeth indaga sulle persone senza avere contatti con a loro, a distanza, intrufolandosi nei loro computer, spiandole; è il suo modo di conoscere gli altri, senza che loro debbano vederla. Non permette a nessuno di avvicinarsi troppo a lei: il suo abbigliamento, i tatuaggi, i piercing, fanno parte della sua corazza.
Lisbeth viene ferita, anche davanti a noi, la scena dello stupro da parte del suo nuovo tutore non si dimentica facilmente. Ma la sua vendetta è catarsi pura , una sequenza di malata bellezza, nella quale da vittima diventa carnefice per riprendersi semplicemente ciò che le spetta, poiché quell’ uomo aveva congelato i suoi guadagni, costringendola a rivolgersi a lui per ogni esigenza economica, in cambio di favori sessuali. Il favore diventa aggressione e la risposta di Lisbeth è un occhio per occhio che consacra, definitivamente, la nostra completa empatia verso di lei.
Fincher è comunque attento a fare in modo che il personaggio non fagociti completamente il film: infatti, l’attenzione si focalizza sul rapporto con Mikael, e sul suo graduale scongelarsi di fronte a quest’ uomo. Al loro primo incontro, la Salander è come sempre sulla difensiva, ha con sé l’ inseparabile taser, l’ immobilizzatore: “se mi tocchi, ti ritrovi più che allarmato”; nel condurre le indagini fianco a fianco la ragazza accorcia le distanze, dapprima sessualmente, poi a livello umano, fino ad accennare a Blomkvist del proprio passato, di cui non è difficile intuire la tragicità.
Le ricerche si snodano attraverso quel covo di serpenti qual è la famiglia Vanger, passando per la folle solitudine di un criminale nazista passando per Martin (Stellan Skarsgård), erede dell’ impero industriale e fratello di Harriett.

Il finale, è la vera sorpresa: slegato sia dal libro che dal film precedente, è puro cinema di emozioni senza essere patetico o dai facili sentimentalismi. Una chiusa perfetta, sulle note della cover di “Is Your Love Strong Enough?” di Bryan Ferry riveduta dai How To Destroy Angels, progetto di Trent Reznor e Atticus Ross, autori dell’ intera colonna sonora del film; si inizia col lungo urlo digitalizzato dei titoli di testa e si conclude nel silenzio e in un interminabile sguardo ad occhi sgranati.

Eccellente il cast, la già citata Rooney Mara su tutti, il buon Daniel Craig a tenerle testa, i magnifici Christopher Plummer e Steven Berkoff, Robin Wright, nel ruolo un po’ sommesso di Erika Berger, socia di Blomkvist nella rivista Millennium e sua amante, ed il superbo Stellan Skarsgård.

I luoghi, gli spazi, sono anch’ essi protagonisti del film: l’ isola, la casa di Martin, interamente fatta di vetrate, dunque (in apparenza) del tutto visibile allo sguardo, la dimora di Henrik Vanger, triste dimensione di una solitaria memoria ed il cottage dove vive Mikael, in seguito raggiunto da Lisbeth: le pareti tappezzate da fotografie, appunti, vero spazio-testimonianza di ciò che sta venendo a galla.

Il montaggio è affidato ancora una volta ad Angus Wall (insieme a Kirk Baxter), già premio Oscar per “The Social Network”, e la fotografia è opera di Jeff Cronenweth, alla sua terza collaborazione con Fincher (“Fight Club”, “The Social Network”), capace di dare all’ immagine una qualità empatica, in linea con i differenti toni emotivi della pellicola.
Ottimo lo score, del già citato duo Reznor/Ross, ma su questo punto il film precedente era nettamente superiore, con le superbe partiture orchestrali scritte da Jacob Groth.
Un’ opera importante questo “Girl With The Dragon Tattoo”, da vedere a mente libera, cercando di mettere da parte sia il libro che l’ altro film, per considerarla ciò che è in realtà, un’ opera a sé stante: rilettura di qualcosa di già scritto ma filtrata attraverso l’ occhio di un talento non comune.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne
Titolo Originale: The Girl With The Dragon Tattoo
Usa/Svezia/Uk/Germania - 2011
Regia: David Fincher











giovedì 2 febbraio 2012

Il mio articolo su David Fincher per Nocturno.it

pubblicato su Nocturno.it:

http://www.nocturno.it/news/david-fincher-regista-del-millennium




David Fincher 


Il cinema di David Fincher ha spesso cambiato pelle nel corso degli anni, spaziando nei generi e nelle soluzioni stilistiche, reinventandosi ed evolvendosi ma rimanendo sempre fedele a se stesso, alla propria identità. E quella dell’ identità è una delle tematiche centrali non solo del suo cinema ma anche del suo essere cineasta: Fincher si appropria completamente di ogni testo che porta sullo schermo, lo rende suo,  infondendovi il proprio essere. Il regista statunitense ha sempre lavorato su sceneggiature firmate da altri, che ha reso proprie effettuandone una sorta di seconda scrittura tramite la sua, personalissima, visione. La scelta dei testi non è mai stata casuale, ha sempre seguito la sua personale poetica: piuttosto che adattarsi agli script, ha sempre fatto in modo che essi si adattassero a lui e ai discorsi fondamentali della sua cinematografia.
Troviamo così tematiche ricorrenti in film, in apparenza, molto diversi tra loro: a cominciare dagli universi a maggioranza maschile, nei quali il rapporto uomo/uomo è in molti casi conflittuale ( per poi evolversi, come per Mills/Somerset in Seven ), vedendo spesso un dominante e un dominato scambiarsi vicendevolmente i propri ruoli nel corso del racconto ( The Social Network, Zodiac, nella correlazione Graysmith/Avery, e ovviamente, in modo più complesso, Fight Club ) ; la già citata identità, uno dei perni del suo discorso cinematografico: dal film d’ esordio Alien 3,  soffermandosi su Seven, con un killer dal nome John Doe in una città anonima, nella quale l’ apatia e l’ indifferenza (altre tematiche basilari) tentano di soffocare ogni traccia d’ umanità. Fight Club ne è il manifesto, con la ricerca del proprio io che diventa ossessione: dalle molteplici, finte identità assunte nei gruppi di auto-aiuto fino all’ incarnazione di ciò che si vorrebbe essere in un doppio dalla personalità debordante, e un’ identità collettiva, il Progetto Mayhem, che è prigionia travestita da libertà.
Lo scavare verso le proprie profondità passa attraverso un’ ossessionarsi  (Zodiac), che è consunzione di sè e del proprio corpo, autodistruzione come metodo costruttivo che porta allo stravolgimento di una vita ordinaria: in apparenza rovina, in realtà rinascita.
La paura, in Fincher: di se stessi, e soprattutto degli altri. I suoi personaggi sono soli, isolati. La Lisbeth di Millennium aggredisce perché teme di essere ferita, allontana il prossimo ma si avvicina ad esso attraverso il suo lavoro: indagare sugli altri è il suo modo di conoscerli, più a fondo di chiunque altro, senza che lei debba lasciarsi conoscere da loro.
Gli elementi visivi sono fondamentali: la fotografia  (negli ultimi due film ritroviamo Jeff Cronenweth, già mago dell’ immagine in Fight Club), fortemente connotata, che passa da toni seppiati e intimisti a colori gelidi, vero termometro degli umori narrativi;  le trovate registiche innovative, come il particolare uso della soggettiva, abilissime, talvolta geniali. Le musiche: per anni affidate al grande Howard Shore, nelle ultime due pellicole godono del felice sodalizio con Trent Reznor e Atticus Ross.
Fincher ha spesso lavorato su script tratti da testi letterari: Fight Club, Zodiac, Il Curioso Caso di Benjamin Button, The Social Network e il recentissimo e splendido Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne. Non semplici trasposizioni ma reinterpretazioni dello scritto in chiave Fincheriana, riuscendo, talvolta, nella difficile impresa di migliorarlo attraverso le immagini.
Il suo discorso sul romanzo di Stieg Larsson è uno scavare più a fondo, un’ indagine su un testo che parla, esso stesso, dell’ indagare alla ricerca della verità.  Il film è l’ ennesimo mutamento di pelle, ritroviamo uno stile più lineare a rappresentare una narrazione complessa, stratificata e dal meccanismo perfetto.
Nove film nell’ arco di vent’ anni esatti, nove capitoli di una poetica che è mutevole nella forma ma non nella propria e prepotentemente unica identità.

Chiara Pani
(araknex@email.it)