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martedì 25 giugno 2013
domenica 31 marzo 2013
Il mio articolo su "I Soliti Sospetti" (1995) per Positifcinema
Per il nostro sguardo retrospettivo su Bryan Singer, la mia disamina de "I Soliti Sospetti"
pubblicata su Positifcinema:
http://www.positifcinema.it/soliti-sospetti-di-bryan-singer
I Soliti Sospetti (The Usual Suspects) (1995)
L’importanza di chiamarsi Söze
“La beffa più grande che il Diavolo
abbia mai fatto è stata di convincere il mondo che lui non esiste”
(Charles Baudelaire)
Cinque criminali
in fila per un confronto all’americana: è partito tutto da lì, da quella che è
diventata l’immagine-simbolo de I Soliti Sospetti (The Usual Suspects), poiché
è proprio da quest’idea visiva balenata nella mente dello sceneggiatore Christopher
McQuarrie (collaboratore abituale di Singer in gran parte dei suoi lavori)
mentre si trovava in coda davanti al botteghino di un cinema, che è nato lo
spunto per quello che è considerato un film fondamentale nella cinematografia
statunitense degli ultimi anni, un’opera spartiacque che è divenuta modello di
un nuovo modo di rileggere (e stravolgere) le convenzioni del noir. Secondo
lungometraggio di Singer, dopo il buon risultato dell’esordio con Public Access
(1993), I Soliti Sospetti affonda le proprie radici nella tradizione, ossia nel
cinema americano classico, in quelle che sono le regole e gli stilemi della
sceneggiatura del noir hollywoodiano, per poi rimescolarle e collocarle in
maniera diversa, con un risultato che spiazza e sorprende lo spettatore.
Si vedano, in primis, le unità di tempo e
luogo, scandite da didascalie che collocano la narrazione in tre ambiti
spazio/temporali diversi: si comincia con “San Pedro, California – la scorsa
notte”, dunque da quello che in realtà scopriremo essere l’epilogo della
vicenda, ossia l’incendio al porto, cronologicamente vicinissimo, per proseguire
con la seconda, la più importante: “New York – sei settimane fa”, segmento
fondamentale nel quale ci viene mostrato il momento dell’arresto dei cinque
protagonisti, il confronto all’americana che è uno dei perni del narrato e la
presentazione dei personaggi tramite la voce narrante di Roger “Verbal” Kint
(un Kevin Spacey a dir poco strepitoso, attorno al quale si sviluppa l’intero
plot, che per il ruolo portò a casa un Oscar). L’ultima delle tre entità di
spazio/tempo ci riporta al qui e ora del racconto :”San Pedro – oggi” , con
quindici cadaveri carbonizzati e due superstiti, uno in coma, l’altro “uno
zoppo di New York” (inutile dirlo, Verbal Kint). Da questo momento in poi gli
snodi avvengono tra flashback e presente, senza bisogno di puntualizzazioni:
questa è la prima destrutturazione del meccanismo del classico gangster movie,
illudere lo spettatore di trovarsi di fronte a un’esposizione di stampo
tradizionale, nella quale i cambiamenti cronologici e di ambientazione sono chiaramente
sottolineati, un’ingannevole rassicurazione riguardo all’identità di ciò a cui
si sta assistendo. Uno dei punti cardine del cinema di Bryan Singer è che nulla
è ciò che sembra, e I Soliti Sospetti ne è l’esempio non solo più lampante ma
anche più scopertamente analizzabile: la carte vengono rimescolate di continuo,
in un gioco disorientante che può portare all’unica soluzione possibile, il
colpo di scena finale, uno dei twist narrativi più riusciti e meno prevedibili
che si siano visti sullo schermo da almeno trent’anni a questa parte.
L’altro
elemento portante del noir USA anni ‘40/’50 a cui McQuarrie si rifà nella
stesura dello script è la caratterizzazione dei personaggi, poichè ognuno di
loro incarna quello che potremmo definire un enneatipo filmico, una tipologia
psicologica (e fisica) precisa: “il capo” (Dean Keaton, un grande Gabriel Byrne),
“il pazzo” (McManus, interpretato da Stephen Baldwin), “il violento” (Todd
Hockney ossia Kevin Pollack), “il ribelle/disadattato” (Fred Fenster, il
magnifico Benicio Del Toro), e infine “l’outsider”, lo storpio e apparentemente
stupido, quel Roger “Verbal” Kint che sommessamente tira le fila di tutta la
narrazione. Anche in questo caso, lo sceneggiatore cambia le regole, tornando
al discorso Singeriano del “nulla è ciò che sembra”: il capo è solo
un’apparenza e chi rimaneva nell’angolo, con la sua camminata claudicante,
fingendo paura, stupore, idiozia, diventa l’elemento chiave, colui del quale nessuno
avrebbe mai sospettato.
Kayser Söze è nome profondamente
evocativo costruito da McQuarrie con l’ausilio di un dizionario inglese/turco: il suono germanico rimanda al concetto di
sovrano assoluto, imperatore, e quel Söze è di per sé indizio, in quanto l’appellativo
del personaggio può essere a grandi linee tradotto come “imperatore
chiacchierone”, e Kint si è guadagnato il soprannome di Verbal per la sua
tendenza a parlare troppo. Parola come simbolo, significante supremo in una
pellicola in cui il linguaggio assume una valenza concreta, che si può definire
fisica nella delineazione dei caratteri e delle situazioni (le parole di Fenster,
ad esempio, sono quasi incomprensibili nel suo continuo bofonchiare): la figura
di Kayser Söze acquista un’aura mitologica nel corso del plot, che si rafforza
semplicemente con l’uso dell’espressione verbale, alla stregua delle leggende
tramandate oralmente, radicandosi in modo inesorabile nel nostro immaginario.
Un appellativo, due semplici sostantivi, che stanno a rappresentare il concetto
centrale della poetica del regista, vale a dire il Male, nella sua accezione
più profonda e definitiva. Il cinema di Bryan Singer, infatti, è un ampio e
approfondito discorso sul coté maligno dell’essere umano, sull’oscurità che
permea quelle zone dell’anima che cerchiamo sempre di celare agli sguardi
altrui. Un Male già presente in Public Access, che in seguito assumerà le
spoglie del diabolico storico per eccellenza, il nazismo, ne L’Allievo (1998) e
in Operazione Valchiria (2008), e che in questa pellicola raggiunge la sua
apoteosi espressiva, dipingendo Kayser Söze come “il diavolo in persona”,
mitizzandone le gesta attraverso un flashback che lo vede guerriero epico,
personaggio che è probabilmente solo una leggenda tramandata tra criminali ma
che è terrificante sopra ogni altra cosa ("Non credo in Dio ma ne ho
paura. Beh, a dire il vero ci credo, ma l’unica cosa che mi spaventa è Kayser
Söze”, dice Verbal al detective Kujan, l’ottimo Chazz Palminteri, nel corso
dell’interrogatorio che attraversa il film e che è primo, grande indizio di
quello che sarà il twist dell’epilogo) .
Emblematica la citazione da Charles
Baudelaire, che dona ulteriore vigore alla natura demoniaca e sovrannaturale
del personaggio di Söze, ambiguo fin da prima della sua rappresentazione: Singer
disse a ognuno degli attori principali che avrebbe interpretato il ruolo
cardine, con successivo grande disappunto di Byrne; la mitizzazione ha dunque
luogo a partire dall’extradiegetico, dagli albori della lavorazione, generando
così il medesimo senso di spiazzamento provato dallo spettatore.
Il celeberrimo
finale, la rivelazione che rovescia il modo in cui l’intero film è percepito
(le visioni successive alla prima, infatti, saranno inevitabilmente
condizionate dalla consapevolezza) è da manuale di cinema, in un gioco di campi
e controcampi, parole che tornano alla mente di Kujan, la geniale chiusura di
un cerchio costruita anch’essa sull’espressione verbale, su singoli vocaboli
apparentementi insignificanti che, improvvisamente, assumono un’importanza
assoluta.
Una pellicola che può essere definita seminale
nella concezione del noir moderno, modello visivo e narrativo che ha influenzato
molti epigoni successivi, spesso definito “meccanismo a orologeria”, in realtà
composto da cerchi concentrici che conducono a quello che è il cuore oscuro
dell’opera: l’identità di Kayser Söze.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Titolo originale: The Usual Suspects
USA - 1995
Regia: Bryan Singer
Data di uscita italiana: 30 Novembre 1995
Etichette:
Bryan Singer,
cinema americano,
cult movies,
I Soliti Sospetti,
Positifcinema
giovedì 21 febbraio 2013
La mia recensione di "Promised Land " (2012) di Gus Van Sant per Positifcinema
pubblicata su Positifcinema:
http://www.positifcinema.it/promised-land-di-gus-van-sant
Promised
Land (2012)
Not the Bad Guy
Ripercorrendo
la filmografia di Gus Van Sant, dagli esordi nel 1986 col low-budget Mala Noche
fino a L’Amore Che Resta (2011), non si può fare a meno di immaginarlo
eternamente giovane, immutato ribelle di Hollywood, per quanto abbia indugiato
in qualche concessione al box-office (il comunque splendido Will Hunting). Se si ripensa a quello che è con ogni
probabilità il suo capolavoro, Elephant (2003), strozzato urlo di dolore per la
strage di Columbine, alla freschezza inventiva delle sue opere migliori, si
fatica a credere che il cineasta abbia ormai varcato la soglia dei sessant’anni
di età, o meglio, si faticava: Promised Land, distribuito nelle sale italiane in
contemporanea alla presentazione nel corso della 63ma Berlinale, ci riporta con
i piedi per terra, accompagnati dall’amara constatazione che anche Gus Van Sant
è inesorabilmente invecchiato. La pellicola si fonda su premesse allettanti:
torna Matt Damon, sia nei conflittuali panni del protagonista Steve Butler che
nelle vesti di sceneggiatore, a quattro mani con John Krasinski (suo
antagonista nel film, nel ruolo di Dustin Noble) da un soggetto del celebre
scrittore Dave Eggers (L’Opera Struggente di un Formidabile Genio).
La storia
di Butler, trentottenne con aspirazioni carrieriste in seguito alla promozione
ottenuta presso la Global, multinazionale dal nome-simbolo (tratto ricorrente
nel film) che trivella terreni per estrarne gas naturale, mette in gioco una
tematica fondamentale ossia la crisi
economica, sfondo dell’intera narrazione, senza però sfruttarne appieno il
potenziale e finendo per concentrarsi su aspetti secondari e sostanzialmente
retorici. Steve e la collega Sue (magnifica Frances McDormand, per quanto sia
ormai quasi inutile sottolinearlo) hanno l’incarico di convincere gli abitanti
di una cittadina rurale della Pennsylvania, messa in ginocchio dalla mancanza
di risorse, a vendere la propria terra, ricorrendo a false promesse di
ricchezza: Steve è cresciuto in una fattoria, in un piccolo centro molto simile
a quello in cui devono muoversi e ritiene dunque di conoscere “questa gente”,
di potersi agevolemente mescolare a loro nella presunzione della propria
superiorità culturale, commettendo l’errore di identificarla con quella
intellettuale. Lo sbaglio è palese fin dal suo arrivo, a partire dal cartellino
del prezzo dimenticato su una camicia di flanella acquistata per “sembrare uno
di loro”, e che proprio uno di loro staccherà al primo sguardo, smascherando
subito la goffa intenzione; ciò che non va, ovviamente, si trova più a fondo,
nell’animo e nella coscienza del protagonista e, in primis, nella memoria della
propria provenienza e delle proprie radici, che entra inevitabilmente in
conflitto con un’identità presente tanto posticcia quanto fragile. E’ anche in
questo che ritroviamo uno dei passi falsi di Promised Land, nel suo scivolare verso
una retorica superficiale e un tantino demagogica, troppo scontata e già vista.
Per quanto il regista e gli autori dello script si concentrino, legittimamente,
sul travaglio interiore di Butler e sulla sua mancanza di autostima (dovuta, in
modo fin troppo ovvio, al non credere davvero in ciò che fa), finiscono per
arenarsi sui buoni sentimenti e sulla tematica di una ritrovata consapevolezza
delle proprie origini, perdendo di vista altri spunti potenzialmente
interessanti. Si punta su una rappresentazione che è anche simbolica
(caratteristica del cinema di Van Sant), dagli stivali del nonno, elementi
chiave in quanto significanti di una figura parentale determinante nella vita
di questo “yuppie sbagliato”, fino ai nomi dei personaggi: Butler, ossia
maggiordomo, dunque servo di un potere più grande, Dustin Noble,
l’ambientalista che darà filo da torcere ai due venditori, dal cognome troppo
smaccatamente immacolato per poter convincere e soprattutto la Global, emblema
di tutte quelle multinazionali che proprio dalla crisi tentano di trarre il
maggior profitto possibile, senza curarsi delle conseguenze. Ingiustamente poco
approfondita la figura di Frank Yates (un grande Hal Holbrook), anziano
insegnante per passione, in realtà fregiato da prestigiosi titoli accademici:
ben lungi dall’essere un bifolco facilmente raggirabile con qualche chiacchiera,
uomo la cui profonda dignità rappresenta quella della comunità intera.
Promised
Land regala alcuni buoni momenti, tra cui il monologo di Steve sui “Fuck you
money”, ossia il denaro come “liberatore definitivo” e alcuni dialoghi arguti,
un ottimo cast e il sapiente talento di Van Sant per l’immagine in quanto tale,
complice la bellissima fotografia di Linus Sandgren e riprese paesaggistiche di
indubbia suggestione. Tuttavia, il film resta irrisolto e complessivamente un
po’ monotono nonostante qualche efficace scossone.
La
pellicola avrebbe dovuto segnare l’esordio registico di Damon, che rinunciò a
causa di tempi troppo stretti e divergenze creative, passando il testimone a Van
Sant, il quale probabilmente non è entrato del tutto in sintonia con l’opera: ciò
che manca davvero a Promised Land, come del resto al suo protagonista, è
proprio una ben definita personalità. Ed è un vuoto che si avverte.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Promised Land
USA - 2012
Regia: Gus Van Sant
Data di
Uscita in Italia: 14 Febbraio 2013
Etichette:
63ma Berlinale,
cinema americano,
Gus Van Sant,
Positifcinema,
Promised Land
lunedì 28 gennaio 2013
Il mio articolo su "Il Buio Si Avvicina" (1987) per Positifcinema
per lo speciale C(o)unt to Zero Dark Thirty di Positifcinema, dedicato a Kathryn Bigelow, il mio articolo sullo splendido Near Dark (Il Buio Si Avvicina)
pubblicato su Positifcinema:
http://www.positifcinema.it/count-to-zero-dark-thirty-il-buio-si-avvicina-di-kathryn-bigelow
Il Buio Si Avvicina (Near Dark) (1987)
La Carne e il Sangue
Il Buio Si
Avvicina (Near Dark) è film fondamentale, sia nella carriera di Kathryn Bigelow
che nella rappresentazione cinematografica dell’ormai esasperatamente sfruttata
figura del Vampiro; la pellicola è, in primis, il primo lungometraggio diretto unicamente
dalla regista (il precedente The Loveless, del 1982, l’aveva vista collaborare
a quattro mani con Monty Montgomery): fu una vera sfida per la Bigelow, alla
quale il produttore Edward S. Feldman diede cinque giorni di tempo per
dimostrare di essere in grado di portare avanti il lavoro, altrimenti sarebbe
stata sostituita.
Inutile dire che la scarsa fiducia di Feldman subì un
meritato smacco, poiché Near Dark non solo rappresenta una punta altissima
nella filmografia della cineasta californiana, bensì ha segnato un punto di
svolta all’interno della ciclopica mole di opere riguardanti le creature della
notte. Sceneggiato dalla stessa Bigelow insieme ad Eric Red, già regista ed autore dello
script di The Hitcher, il quale riporta l’orrore on the road anche in questo
contesto, il film era inizialmente nato in
quanto western, per poi aggiungervi la tematica vampiresca al fine di renderlo
più appetibile per il pubblico; gli anni ’80, infatti, videro un riflusso del
cinema dei succhiasangue, a partire da Ragazzi Perduti, di Joel Schumacher,
anch’esso del 1987, simile nelle linee guida del plot ma sostanzialmente opposto
nel risultato finale: se The Lost Boys conservava una patina modaiola,
sfruttando vecchi cliché tra cui quello dei vampiri belli e dannati, il film della
Bigelow va ben oltre, slegandosi completamente da strutture pre-esistenti e
re-inventando il non-morto, partendo però dalla sua origine primaria, ossia il Dracula
di Bram Stoker.
E’ proprio da lì, infatti, che proviene l’idea, fino a quel
momento assai poco sfruttata, della reversibilità del contagio vampirico (drenare
completamente il sangue della vittima per poi eseguire una trasfusione di
plasma sano), che qui diventa centrale, determinando così la scelta di Caleb
(Adrian Pasdar) nell’ abbandonare la sua nuova condizione per tornare umano,
nonostante il sentimento che ormai lo lega a Mae (Jenny Wright), colei che l’ha
trasformato, con un bacio che è divenuto un morso. La diversità di “specie” non
è un ostacolo, lo stereotipo del vampiro che non può amare poiché privo
dell’anima è qui demolito insieme a tutti gli altri residui del vecchio
immaginario: l’Amore è pulsante, presente anche e soprattutto in quanto
carnalità (per usare le parole della regista, una “sessualizzazione della
violenza”), non soltanto in Mae e Caleb ma in ogni componente del clan/famiglia
di vampiri-nomadi che dà vita alla storia: il patriarca Jesse (perfetto Lance
Henriksen) e la sua compagna Diamondback (Jennette Goldstein), il sensuale e
violento Severen (uno dei personaggi più riusciti, insieme a Jesse,
interpretato magnificamente da Bill Paxton), che rappresenta il puro istinto
senza freni, e Homer (Joshua Miller), adulto intrappolato per sempre nel corpo
di un ragazzino, le cui pulsioni premono per esplodere.
Il clan è
al tempo stesso famiglia e gang, ostile verso Caleb in quanto non vi è la certezza
che sia già diventato uno di loro, e soprattutto pienamente appagato dalla propria
condizione: la scena del bar è esemplare in tal senso, nel contrapporre
l’autocompiacimento dell’essere vampiri, dell’uccidere, del giocare con le
vittime che caratterizza il resto del gruppo
(Severen in particolare) al conflitto interiore di Caleb, il rifiuto verso ciò
che sta diventando (tormento simile a quello del Louis di Intervista col
Vampiro, che, insieme al Dracula di Stoker, all’epoca delle riprese era l’unico
romanzo sul tema letto dalla Bigelow): questo contribuisce a rendere il
personaggio del giovane “umano” assai meno attraente, quasi pedante e noioso,
mentre non si può non essere irresistibilmente affascinati dai magnetici e
seducenti villains proprio in ragione del loro essere tali.
La caduta
degli stereotipi: qui i vampiri non hanno canini aguzzi, non si trasformano
assumendo fattezze mostruose, non temono aglio o acqua santa e, quel che è più
importante, la parola vampiro non viene mai pronunciata per tutta la durata
della narrazione. Si parla di malattia, di paura per ciò che si sta diventando,
ma per quanto possa essere palese cosa siano i personaggi del film, non si
traccia la netta linea di confine verbalizzando ciò che marca la differenza. C’è
un perenne senso di indeterminatezza e di incertezza, ma soprattutto si evidenzia
la vulnerabilità dei protagonisti: Near Dark, come già si diceva, è
fondamentalmente un western, con tutti i tòpoi del genere, dal duello fino alle
colt passando per l’ambientazione in un’Arizona bruciata dal sole, dunque il
luogo meno adatto per coloro che bruciano non appena vengono avvolti dalla
luce. Questo li rende nomadi, perpetuamente in fuga, schermando i vetri
dell’auto nel momenti in cui la temuta palla infuocata compare in cielo:
proprio in questo senso, assumono l’aspetto di fuorilegge on the run. Lo scorrere
dei giorni è visivamente scandito da inquadrature dell’alba, che compaiono
sullo schermo come minacciosi moniti. Potentissimi, eppure fragili nel loro
unico punto debole.
Il
sottofinale è un susseguirsi di esplosioni, che corrispondono alla
deflagrazione della carica emotiva del racconto, per poi quietarsi nella parte
conclusiva, sostanzialmente positiva ma sempre sottesa da quel senso di
incertezza e dubbio che permeano l’intero narrato.
Lo score,
firmato dai Tangerine Dream, accompagna le immagini in maniera suggestiva ed
empatica, passando dalla pacatezza ipnotica ad un ritmo ossessivo e convulsivo
per le scene più cruente. La sequenza nel bar è graziata dalla magnifica cover
di Fever, di Elvis Presley, ad opera degli immensi Cramps, scelta quanto mai
azzeccata per quello che è uno dei momenti in assoluto più notevoli e incisivi
del film. Da ricordare anche la splendida sparatoria tra la gang asserragliata
nel motel e i poliziotti all’esterno, nella quale ogni foro di proiettile nel
muro ferisce non per il piombo, ma per la luce che fa trapelare: gli echi del Mucchio
Selvaggio di Peckinpah sono presenti, memoria storica fulgida, altissima e non
sradicabile.
Near Dark è
dunque un film-impronta nell’ormai consolidata carriera della Bigelow, regista
che si è appropriata di un genere da sempre considerato patrimonio maschile,
l’action, sfaccettandolo con ritratti
umani (o non-umani, come in questo caso) difficili da dimenticare, pellicola
che, al tempo stesso, ha rivoltato come un calzino i luoghi comuni sui vampiri
spogliandoli dalle polverose vesti di dandy gentiluomini, togliendo loro ogni leziosità
manieristica, e rendendoli mai come ora così vicini agli umani.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Titolo originale: Near Dark
USA - 1987
Regia: Kathryn Bigelow
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