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sabato 8 dicembre 2012

La mia recensione di "Maniac" (2012) di Franck Khalfoun per CineClandestino - Torino Film Festival XXX edizione



pubblicata su CineClandestino:

http://www.cineclandestino.it/it/altrocinema/2012/maniac.html





Maniac (2012)


Timid Man




Aveva tutta l’aria di una scommessa persa in partenza questo remake del cult movie di William Lustig, Maniac, pellicola di per sé non riproducibile per l’unicità delle atmosfere malsane e di un protagonista/simbolo, l’indimenticabile Joe Spinell (anche co-sceneggiatore e co-produttore del film) nel ruolo di Frank Zito, personaggio che si era cucito addosso alla perfezione e al quale aveva donato sfumature e caratteristiche divenute perno centrale dell’opera. La pachidermica fisicità dell’attore italo-americano (il cui vero nome era Joseph J. Spagnuolo, morto nel 1989 a soli a 52 anni) entrava in netto contrasto con la debolezza interiore di Frank, oppresso dall’immaginaria voce della madre defunta in schizofrenici e conflittuali dialoghi/monologhi che erano la spinta primaria delle sue pulsioni omicide.

Maniac rappresenta tuttora, per Lustig (che è tra i produttori del remake), il lavoro più riuscito in una carriera mediocre, frutto dell’alchimia di una serie di fattori felici che diedero vita a un vero e proprio oggetto di culto per schiere di appassionati. Rifare una pellicola del genere era dunque impresa non facile, assai diversa dalla produzione seriale di brutti film fotocopia dei classici horror e slasher ad uso e consumo di un pubblico di adolescenti troppo occupati a masticare popcorn: il remake di Maniac era atteso al varco con una buona dose di pregiudizi negativi, che lo vedevano già sconfitto in partenza, anche per la scelta del nuovo protagonista, un Elijah Wood troppo vicino al cinema mainstream e lontano anni luce da ciò che Joe Spinell ha rappresentato per il personaggio.


Contro ogni aspettativa, invece, il film riesce a soprendere, rivelandosi rilettura intelligente e riuscita. Diretta da Franck Khalfoun (suo il non eccelso -2 Livello del Terrore) e prodotta dall’ex-enfant prodige Alexandre Aja, anche autore dello script insieme al fidato Grégory Levasseur e a C.A. Rosenberg, l’opera evita abilmente le trappole più insidiose, accantonando la pretesa di essere replica dell’originale bensì imboccando una strada diversa, che si rivela azzeccata.
Maniac versione 2012, presentato con successo alla 30° edizione del Torino Film Festival all’interno della sezione Rapporto Confidenziale, quest’anno densa di horror, non possiede la carica malsana del film di Lustig poiché l’atmosfera è qualcosa di non ripetibile: l’intelligenza dell’operazione si ritrova nel creare dei differenti punti di forza, dando vita ad una pellicola che omaggia l’originale rendendosi al tempo stesso autonoma. La scelta di Wood per il ruolo di Frank Zito si rivela ottima, in quanto il suo aspetto fragile ed indifeso esteriorizza ciò che il massiccio corpo di Spinell teneva nella sfera interiore: entrambi, infatti, sono visti come “anime gentili” dal personaggio di Anna (qui interpretata da Nora Arnezeder), e in questo film tale caratteristica è accentuata; l’aspetto del nuovo Frank, inoltre, ispira fiducia nelle sue vittime, che non lo temono, creando così un contrasto maggiore tra apparenza e reale personalità del killer.


La narrazione viene attualizzata in modo non posticcio, senza mai scadere nell’imitazione fine a se stessa, citando la pellicola-genitrice con trovate efficaci e talvolta sorpredenti, calando la vicenda ai nostri giorni e rendendola del tutto credibile.
La vera innovazione del Maniac di Khalfoun si denota nella tecnica di ripresa: il film è girato per gran parte in soggettiva, dunque dal punto di vista di Zito, mostrato raramente  in terza persona e il più delle volte riflesso da specchi, a rappresentare la pallida proiezione di una personalità disgregata. Il P.O.V. del killer, a differenza di quanto accade nella maggioranza delle pellicole orrorifiche, crea in questo caso un intervallo di distacco emotivo tra spettatore e personaggio, poiché mostra l’efferatezza dei crimini commessi dissociandoli dalla sua figura: la fisicità fanciullesca di Elijah Wood infatti, unita alla parte di narrato sulla sua infanzia, provoca empatia da parte di chi guarda, una sorta di pietà indulgente verso un individuo che è criminale, ma al tempo stesso dilaniato da sensi di colpa e schiacciato da una vita orribile.


L’elemento dei manichini ricopre un ruolo ancora più centrale rispetto al film di Lustig, rendendoli compagni di vita quasi umanizzati, e assai importanti nel legame che si instaura tra Frank e Anna. La relazione tra i due è rappresentata in modo non superficiale e senza lesinare cinismo, attraverso la lente deformante del punto di vista di Zito, dunque col filtro della sua mente disturbata.


Maniac ha un ritmo lento, poco accattivante, con alcuni tempi morti che contribuiscono tuttavia a renderlo ancora più disturbante e paranoico; il gore è offerto a giuste dosi, sempre funzionale alla narrazione e mai gratuito, in un film che unisce un plot robusto a un visivo affascinante e non patinato, grazie alla fotografia volutamente sporca ad opera di Maxime Alexandre, anche lui presenza fissa nello staff di Aja. Una nota a parte merita il magnifico score, composto da Rob, pseudonimo del francese Robin Coudert, il quale dà vita ad un tappeto sonoro elettronico perfetto per le immagini, ulteriore valore aggiunto in una pellicola assolutamente notevole.


Una prova ampiamente superata a dispetto delle scarse aspettative, la dimostrazione di come dovrebbe essere realizzato un remake, rendendolo oggetto a sé stante senza sganciarlo dalle proprie origini ed evitando, soprattutto, di cadere nella facile trappola della ridicola imitazione.  

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Maniac
Francia/USA - 2012
Regia: Franck Khalfoun

mercoledì 28 novembre 2012

La mia recensione di "Holy Motors" (2012) di Leos Carax per Positifcinema - Torino Film Festival XXX edizione


Continua la carrellata all'ombra della Mole col magnifico Holy Motors, di Leos Carax, per Positifcinema


http://www.positifcinema.it/holy-motors-di-leos-carax-festival-cannes-torino 









Holy Motors (2012)


La Bellezza Del Gesto

“La Bellezza è nell’occhio di chi guarda”
“e se non ci fosse più nessuno a guardare?”


La Visione pura diventa Cinema, nella sua accezione più alta, in Holy Motors, l’ultimo capolavoro di Leos Carax, giunto dopo ben tredici anni di inattività in una carriera complessa ed atipica. La giornata inaugurale della trentesima edizione del Torino Film Festival si apre dunque con uno dei film più attesi, un titolo che, dopo la presentazione al Festival di Cannes, si temeva potesse finire nell’antro dei tesori celati, poiché ignorati da una distribuzione ottusa. Il dono, per ora, ha graziato il pubblico all’ombra della Mole, fagocitando il buio della sala e suscitando le (prevedibili) reazioni contraddittorie.

Una pellicola che oppone resistenza ai tentativi di analisi critica, in quanto Visione allo stato puro, disseminata da segni e simboli che poco per volta strutturano un narrato che si offre alla totale libertà di interpretazione; una riflessione sul mezzo filmico in se stesso, metacinema sotto mentite spoglie e al tempo stesso opera metavitale, in quanto ciò che vediamo scorrere sullo schermo è la sublimazione dell’esistenza stessa.

Il Sé e i propri doppi, che in questo caso diventano molteplici declinazioni della magnifica ed elfica maschera attoriale di Denis Lavant, icona di Carax, un Monsieur Oscar  il cui lavoro è recitare ruoli, cambiando vesti a bordo di una Limousine bianca guidata dall’affascinante Céline, nome che è ovviamente simbolo. Vediamo Oscar diventare, di volta in volta, zingara, padre di famiglia alle prese con la figlia adolescente, anziano in punto di morte; assistiamo al suo calarsi in una realtà virtuale per una sequenza di sesso mimato, nel quale i corpi sono avvolti da tute in pvc, barriere che impediscono il contatto. Ritorna nei memorabili panni di Monsieur Merde, già visto nel magnifico segmento del film a episodi Tokyo!, in una delle caratterizzazioni più surreali ed emblematiche dell’intera opera. L’essere mostruoso incontra la statuaria modella Kay M (Eva Mendes), in un set fotografico al Père Lachaise, donandoci una scena di suggestione pittorica squisitamente iconoclasta, con un Monsieur Merde completamente nudo che dorme in grembo alla donna/Madonna, novello Gesù col valore aggiunto di un’evidente erezione.

Oscar nel corso del film uccide un uomo, sempre interpretato da Lavant, per poi prenderne le sembianze: Carax gioca con lo spettatore, mettendo in palio una posta sempre più alta. La vita come un susseguirsi di ruoli e maschere, talmente vorticoso e asfissiante da perdere la percezione del proprio vero volto, confondendo se stessi con l’altro, uccidendolo per poi trasformarsi in lui.

L’Amore è rappresentato da Eva Grace/Jean (un’efficace Kylie Minogue), anche lei interprete di ruoli “su misura”: un incontro fugace, con i minuti contati, ed una conclusione tragica.

Holy Motors unisce il poetico al grottesco senza nessuna stonatura, in una sinfonia stilistico/narrativa che rasenta la perfezione. Riflessione sul cinema (evidente nel prologo, in cui Carax stesso si regala un’apparizione), e sull’esistenza mediante una rappresentazione che fa del visivo un’arma splendida e mesmerizzante.

Un’inizio in grande stile dunque, per questa edizione/anniversario del Festival torinese, e una pellicola che vale ogni minuto dei tredici, lunghissimi, anni di attesa. 


Chiara Pani
(araknex@email.it)


Holy Motors
Francia/Germania - 2012
Regia: Leos Carax


lunedì 6 agosto 2012

La mia recensione di "The Divide" (2011) per Positifcinema



pubblicata su Positifcinema:











The Divide (2011)


Dietro La Porta Chiusa


Gruppo di estranei in un interno angusto, costretti a una convivenza forzata da circostanze estreme: da questo spunto ormai ampiamente sfruttato parte The Divide, pellicola del 2011 firmata dal francese Xavier Gens, già noto per il non eccelso e derivativo Frontiers (2007) e l’action-movie Hitman, dello stesso anno.

Il progetto è ambizioso, a partire dalla durata: 112 minuti per un film di genere sono inconsueti, se a ciò si aggiunge che il narrato si svolge in un’unica, claustrofobica ambientazione sotterranea; Gens dunque mira in alto, con l’autocompiacimento che gli è proprio, offrendo un risultato contraddittorio e altalenante. La prima parte della pellicola è dominata dal tedio, eccessivamente verbosa, e intrappolata in luoghi comuni verso i quali lo spettatore ha ormai sviluppato una sorta di allergia. Il blocco tematico del gruppo di condomini capeggiati dal manutentore dello stabile, il rude e brutale Mickey (ottima prova attoriale di Michael Biehn), che si rifugia nel sotterraneo a forza, accolto controvoglia dall’uomo, dopo che un’esplosione nucleare ha fatto tabula rasa di tutto ciò che sta attorno, rimanda inevitabilmente a classici come Dawn Of The Dead di Romero, dunque lo spettro del già visto è biglietto da visita stropicciato e poco invitante. Dopo l’impasse iniziale, The Divide si impenna verso la metà, in modo non graduale, di colpo: si passa così da una lentezza eccessiva a una bulimia visivo-narrativa nella quale si mescolano momenti decisamente riusciti, cadute vistose, stereotipi risaputi, buone delineazioni di alcuni personaggi contrapposte ad altre in cui i characters  sono soltanto abbozzati. Tutto, e il contrario di tutto, in un bombardamento di immagini e situazioni che lascia storditi e perplessi al tempo stesso.

Gens è abile con la macchina da presa, e ne è ben consapevole: si pecca, come nel precedente Frontiers, di virtuosismo fine a se stesso, e talvolta di eccessiva frenesia ritmica, dovuta anche al montaggio, per altri versi egregio e sapiente, del suo collaboratore abituale Carlo Rizzo.
La pellicola presenta del resto innegabili pregi, dall’incantevole score classico, firmato da Jean-Pierre Taieb, passando per la come sempre magnifica fotografia di Laurent Barès, nome ormai affermato della nuova scena francese (Livide, La Meute), che dona il suo inconfondibile tocco, forse troppo patinato, ma affascinante nei toni cupi, quasi marcescenti, nei colori virati.

Dal punto di vista narrativo l’attenzione è focalizzata sul deterioramento, fisico e morale, dei personaggi, sull’abbruttimento derivante dalla cattività, sui rapporti di forza che, inevitabilmente, vengono a crearsi; quest’ultimo è argomento-trappola, in quanto già ampiamento illustrato dalla cinematografia. The Divide ne dà un punto di vista che risulta alterno, per alcuni versi originale e provocatorio, per altri legato a forme appartenenti a vecchi territori. Si assiste al passaggio di consegne della tirannia (per molti versi solo apparente) di Mickey a quella dei personaggi di Josh e Bobby, che da bulli diventano sadici sessuali, veri e propri mostri anche nel fisico, poiché le radiazioni sono penetrate nel rifugio provocando così una progressiva marcescenza dei corpi. Il discorso sull’uomo che diventa carnefice, tirando fuori il peggio di se stesso, è esasperato ai massimi livelli, privando i singoli caratteri delle sfumature necessarie, con figure spesso eccessivamente a tutto tondo: da Mickey, americano patriottico e razzista ma in fondo non così cattivo, fino a Eva (unica donna del gruppo insieme a Marilyn), personaggio troppo retto e lineare, passando per Sam, potenzialmente interessante ma rappresentato in modo confuso e superficiale. 

In Marilyn (una meravigliosamente sfatta Rosanna Arquette) ritroviamo una delle figure meglio delineate del film: madre di Wendi, la bambina che viene rapita in un momento narrativo poco credibile, risultando quasi estraneo al resto del plot, è donna fragile e senza dignità, vittima consenziente dei pesanti giochi sessuali dei due nuovi villains del gruppo.
Xavier Gens cerca lo shock facile, con sequenze piuttosto pesanti, alcune delle quali riuscite, altre troppo studiate e artificiose per convincere. The Divide si è in questo modo guadagnato aggettivi come “disturbante”, “difficilmente sopportabile”, e via discorrendo, riversando quindi il focus sulle dinamiche violente, quasi dimentico del fatto che, al di fuori di quel sotterraneo, c’è un mondo devastato: nessuno dei personaggi pare preoccuparsene, forse troppo infiammati dai loro impulsi.

Il finale è per certi versi prevedibile tuttavia, non privo di fascino.
Pellicola dunque dalle molte contraddizioni, eccessiva, ambiziosa, che può definirsi riuscita solo in parte. Tutto questo ricordando che il cinema realmente disturbante, e sincero nel suo intento, è ben altra cosa.

Chiara Pani
(araknex@email.it)



The Divide
Germania/USA/Canada - 2011
Regia: Xavier Gens

giovedì 7 giugno 2012

La mia recensione de "La Guerra E' Dichiarata" (La Guerre Est Déclarée) (2011) per Nocturno.it


pubblicata su Nocturno.it:






La Guerre Est Déclarée (La Guerra E’ Dichiarata) (2011)


La narrazione di un Dolore. E la voglia di vivere come suprema arma di battaglia. Di questo, e non solo, parla il magnifico “La Guerra E’ Dichiarata”, secondo lungometraggio della francese Valérie Donzelli dopo “La Reine Des Pommes” (2009), nel quale abbiamo visto la talentuosa attrice/regista/sceneggiatrice mettersi completamente in gioco, mostrando lati del suo essere in modo incredibilmente coraggioso. La specularità vita/schermo continua in questa seconda pellicola, scritta a quattro mani con l’ ex compagno di vita (e anche qui, come nell’ opera precedente, protagonista maschile) Jérémie Elkaïm, prendendo spunto da una dolorosa vicenda personale. C’ è molto del miglior Truffaut nel saper narrare di se stessi, anche nei momenti più tragici, con un tocco sempre lieve, delicato ,mai patetico. A differenza del grande François, la giovane regista non usa il filtro dell’ alter ego bensì entra in campo in prima persona, come in un gioco metacinematografico della vita; “La Guerra E’ Dichiarata” rapisce fin dai primissimi minuti, ci prende per mano e ci lascia innamorare dei suoi personaggi, veri, coraggiosi, imperfetti, reali, come noi stessi.

“La Guerre est déclarée” dice Juliette a Roméo (nomi-simbolo dell’ Amore Assoluto), sentendo alla radio l’ annuncio dell’ attacco missilistico sull’ Iraq, ed enunciando così la dichiarazione bellica con cui la coppia, e il cerchio protettivo degli affetti che si stringe intorno ad essa, sfida la malattia del figlio Adam, la bomba che la vita ha sganciato su di loro.
C’ è l’ Amore in ogni sua forma in questo film, un amore strillato, sussurrato, cantato, gioito e sofferto. Un inno alla vita, che coinvolge completamente lo spettatore avvolgendolo nel turbine emotivo della narrazione, portandolo dalla commozione al sorriso nel giro di pochi istanti, tenendo perfettamente in equilibrio registri molteplici e diversi tra loro, senza nessuna discrepanza.
L’ uso della musica ha un ruolo centrale, nell’ essere forma di espressione emotiva: esemplare la sequenza dell’ annuncio della malattia di Adam, su Le Quattro Stagioni di Vivaldi; non sentiamo nulla oltre alla magnifica melodia, se non l’ urlo disperato di Roméo, isolato e lancinante mentre tutto il resto è coperto dalle note musicali, che celano il dolore come un mantello pudico e rispettoso.
Una regia virtuosa e innovativa e prove attoriali assolutamente notevoli completano il quadro, donandoci così un film che non si dimentica facilmente e che resta letteralmente nel cuore.

Chiara Pani
(araknex@email.it)


Titolo Originale: La Guerre Est Déclarée
Francia - 2011
Regia: Valérie Donzelli




venerdì 27 aprile 2012

La mia recensione di Livid (Livide) - 2011 - di Alexandre Bustillo e Julien Maury

Dopo una lunga latitanza, tra tutte le mie felici collaborazioni, rieccomi a postare un recensione solo per il blog: Livid, l' ultima opera dei francesi Bustillo e Maury. Buona lettura :)







Livid (Livide) (2011)



Opera già molto discussa questo Livid, targata 2011 e firmata da Alexandre Bustillo e Julien Maury, autori del visionario ed interessante À L’ Intérieur (2007) ; oggetto di controversie, sebbene non ancora distribuita nelle sale italiane (non è prevista per il momento un’ uscita nel nostro Paese) e proiettata soltanto in alcuni festival internazionali.

Il secondo film dei due registi francesi esaspera il gusto visivo mostrato nella pellicola precedente, rasentando talvolta l’ autocompiacimento e rendendosi in tal modo più vicino alla videoarte, dunque all’ immagine fine a se stessa, piuttosto che funzionale alla narrazione. Il difetto principale di Livid sta nella sua colonna vertebrale, ossia la sceneggiatura, debole e talvolta sfilacciata: nonostante qualche buona trovata, il canovaccio narrativo presenta troppe incongruenze ed è troppo piegato ai voleri della Visione per poter essere considerato di buona fattura.

La pellicola parte bene, nella cornice di un suggestivo villaggio di pescatori, presentandoci la giovane infermiera Lucie (una brava Chloé Coulloud), alle prese col suo primo giorno di lavoro, guidata da Wilson (Catherine Jacob), donna all’ apparenza estroversa e dai modi decisi. Il compito non è dei più semplici, assistenza a domicilio di pazienti per lo più in stato vegetativo: è così che giungono alla villa di Madame Jessel (Maire-Claude Pietragalla), una magione spettrale che fu spauracchio d’ infanzia della ragazza e dei suoi amici. L’ anziana Jessel è ora in coma irreversibile, e nella stanza risuonano le parole di Wilson sul glorioso passato della donna come insegnante di danza classica, sulla misteriosa sparizione della figlia Anna, e soprattutto, sulla sua immensa ricchezza e sul tesoro che sarebbe celato in qualche recesso dell’ enorme tenuta.

Lucie racconta tutto al fidanzato che la convince ad introdursi nella casa, insieme ad un terzo amico, a caccia del misterioso tesoro. Inutile dire che per i tre giovani sarà l’ inizio del solito incubo.
Come si potrà notare, il plot è assai scontato, quasi elementare. Gli sviluppi successivi, ciò che avverrà ai tre giovani all’ interno di villa Jessel, mescolano spunti interessanti (i flashback su Madame e la figlia Anna) ad altri francamente improbabili, che sottraggono credibilità alla narrazione. Alcune sequenze sono pura meraviglia visiva, architettate ad arte, ed il talento di Bustillo e Maury esplode in maniera prepotente. Ma uno script robusto sarebbe stato ossatura indispensabile , e si finisce per trovarsi davanti ad una serie di magnifiche immagini con una base troppo fragile.

Ci sono rimandi all’ horror italiano anni ‘ 70, anche se i reiterati paragoni con Suspiria sono stati troppo facili e raffazzonati, basati unicamente sull’ elemento della scuola di danza: tolto questo, non vi sono molte similitudini col capolavoro argentiano. C’è anche qualche idea da Bava ma i due registi guardano più che altro a loro stessi, in una sorta di presunzione visiva che può dare fastidio a molti, ma piacere ad altri. L’ insieme è patinato e al tempo stesso malsano, può risultare terribilmente irritante per alcuni, ma stregare fatalmente una buona fetta di spettatori. Un impianto visionario da fiaba nerissima con pupazzi meccanici, carillon viventi, una donna/strega mostruosa, forse un po’ troppo “aliena” . Una superba prima scena di omicidio che ci riporta all’ immaginario argentiano e suggestioni steampunk che brillano di luce propria in una sequenza successiva che rappresenta una della maggiori cadute narrative del film.

La magnifica fotografia, firmata, come nel film precedente, da Laurent Barès, è uno dei punti di forza: livida, è la prima parola che salta in mente, scurita, seppiata in alcuni punti, fredda ed angosciante in altri.
La splendida Beatrice Dalle, che dominava, folle ed incontrastata, À L’ Intérieur, ci viene qui concessa solo per una manciata di secondi, in un ruolo minuscolo, che non può bastarci.

Il film purtroppo soffre di una brutta caduta nel finale: l’ oscurità, il malsano cercano di trovare un riscatto nel fiabesco positivo ma l’ esito risulta incongruente e quasi risibile.

Una pellicola dall’ impianto scenografico incredibile, che riempie gli occhi ed i sensi: se slegata dal narrato, diventa “art for art’s sake”, visione pura. Il cinematografico però, necessita di una storia sufficientemente forte a sorreggere immagini tanto potenti, ed in questa caso essa è troppo debole per adempiere a tal compito.

La sfida era ambiziosa, e non facile: Livid purtroppo non riesce a vincerla del tutto.

Un film dunque che non può dirsi completamente riuscito, nonostante emani un fascino unico e non comune e sia forte di alcuni buoni spunti: se il canovaccio narrativo fosse stato intessuto a dovere, ci si sarebbe trovati di fronte ad un autentico gioiello.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

 

Livid
Titolo Originale: Livide
Francia - 2011
Regia: Alexandre Bustillo e Julien Maury

 





lunedì 14 novembre 2011

giovedì 19 maggio 2011

Promenons nous dans les bois - Deep In The Woods (maggio 2008)



Riesco finalmente a mettere le mani e soprattutto gli occhi su questo film dopo un bel po' di tempo dalla sua uscita (2002) e dopo averne sentito parlare un gran bene;provvidenziale ebay e il dvd import,visto che nelle nostre sale e videoteche non ha mai visto la luce,ed è un peccato,per chi ha fame di horror recenti e originali questo poteva essere un piatto gustoso.

I film d'oltralpe di genere immancabilmente incuriosicono,visto che è un paese che pare piuttosto allergico all'horror (se si escludono pochissime chicche tipo Haute Tension,che stilisticamente ricorda comunque questo film) e tende comunque a virarlo più verso il thriller e il dramma che verso il terrore o il gore fine a se stesso.

Il film non è perfetto,a volte si dilunga troppo,ma è interessante e visivamente bello,merita una visione:un gruppetto di giovani attori viene chiamato in una *sperduta dimora* per fare uno spettacolo privato:nella trama l'originalità non regna,ma alcune trovate sono decisamente brillanti,con sequenze psicologicamente disturbanti poichè dilatate all'eccesso.Una pellicola che riesce a dare un senso di disagio senza un uso eccessivo di effettacci,che comunque sono presenti ma con una certa misura ed impiegati ad arte.

Se il cinema è uno dei prodotti di una data cultura,prendendo l'horror come genere-campione,analizzare le produzioni di paesi solitamente avari nel settore può dirci qualcosa in più sul *cosa c'è dietro*,visto che notoriamente e dalla sua nascita l'horror rispecchia le paure e le ferite di un determinato paese in un dato periodo storico....

In ogni caso,un film misconosciuto,dal titolo inglese negativamente ingannevole ma che far venir voglia di vedere qualcosina in più in tema di pellicole orrorifiche per quanto riguarda il paese *della nouvelle vague*,che ormai è un 'etichetta ancora più trita che pizza-spaghetti-mandolino e da cui il cinema d'oltralpe potrebbe - e dovrebbe - finalmente affrancarsi.











Titolo Originale:Promenons Nous Dans Les Bois


Titolo Internazionale:Deep In The Woods


Francia - 2000


Regia:Lionel Delplanque