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L’
Alba Dei Morti Viventi (2004)
“And I heard
a voice in the midst of the four beasts
And I looked and behold, a pale horse
And his name that sat on him was Death
And Hell followed with him”
And I looked and behold, a pale horse
And his name that sat on him was Death
And Hell followed with him”
(“The Man Comes
Around” – Johnny Cash)
Sulle note del magnifico pezzo di Johnny Cash, scelta inconsueta ma quanto mai azzeccata, scorrono i titoli di testa de “L’ Alba Dei Morti Viventi”, a film già iniziato, dopo un prologo che ci mostra un primo sviluppo di narrazione.
Realizzata
nel 2004, con un budget di 28 milioni di dollari e distribuita dalla Universal,
la pellicola segna l’ esordio su grande schermo del regista Zack Snyder, che in
seguito dirigerà titoli come “300” (2006) e “Sucker Punch” (2011).
Teoricamente,
il film è remake del capolavoro di George A. Romero, “Zombi” (1978): impresa
non solo ambiziosa ma quantomeno titanica, considerando che si sta parlando di
un esordiente. Quello dei rifacimenti è terreno ormai sfruttato all’
esasperazione in campo horror: negli Stati Uniti, negli ultimi dieci anni, è stato
rifatto quasi ogni classico del genere, con esiti a volte disastrosi, altre
risibili ma in ogni caso noiosi e standardizzati, lasciando sempre lo
spettatore con l’ interrogativo “ Ce n’ era davvero bisogno? ”. No, se non per
ingrassare i botteghini e, cercando di essere ottimisti, far conoscere alle
giovani generazioni i film originali da cui questi cloni malriusciti sono stati
tratti.
Cimentarsi
con remake di capolavori è compito ovviamente assai rischioso, e riservato
solitamente a registi blasonati e coraggiosi: solo un Gus Van Sant poteva
essere in grado di replicare “Psycho” di Hitchcock, rifacendolo inquadratura
per inquadratura e dandogli una chiave visiva pop; non ha preteso di imitare un
modello inarrivabile ma ne ha fatto una copia esatta, rendendolo al tempo
stesso completamente personale dal punto di vista stilistico. Vette ancora più
alte sono state toccate da Werner Herzog con il suo “Nosferatu” (1979),
rilettura del classico di Murnau nella magnificenza della Visione del regista
tedesco contemporaneo.
Si sono
citate punte elevatissime in tema di rifacimenti filmici, giusto per
esemplificare il fatto che, per rifare ad arte una grande pellicola, è
necessario reinventarla, col tocco di un vero Maestro.
Dunque, un’
operazione potenzialmente suicida questo “Dawn Of The Dead”, basato sulla
sceneggiatura di Romero ma con uno script ex-novo ad opera di James Gunn (già
writer per la Troma), e con la regia affidata ad un giovane entusiasta ma
comunque un debuttante. Si resta, invece, piacevolmente sorpresi dal risultato,
a patto di accettare il film per quello che è in realtà: non un remake bensì
una rilettura del classico Romeriano.
Sebbene siano inevitabili i paragoni tra
le due opere, è necessario sganciare questa Alba dalla precedente, considerandola
film a sè stante, con i suoi pregi, difetti e le differenze che essa introduce.
Affiancarla in modo strettamente comparativo al “Dawn Of The Dead” del 1978
significherebbe non solo tagliarle le gambe in partenza, ma soprattutto osservarla
da un punto di vista in parte errato. Il film si ispira, fortemente, al suo
illustre predecessore ma al tempo stesso riesce a prendere una strada “altra”
ed indipendente. Qui troviamo l’ astuzia e l’ abilità del regista e dello
sceneggiatore: l’ imitazione sarebbe stata una sconfitta cocente, un misero
scimmiottamento; si è partiti dal film di Romero, per poi reinventare (almeno
in parte), decorando il tutto di (doverosi) omaggi, citazioni e camei.
Ciò non
significa che questo film sia perfetto, tutt’ altro: ma riesce comunque a
convincere e non lascia con l’ amaro in bocca. Lo stesso Romero, per quanto non
soddisfatto di alcuni punti, si è detto piacevolmente sorpreso dal risultato,
il che deve aver fatto tirare un bel sospiro di sollievo agli autori.
Nel dvd è
presente la versione uncut, introdotta dallo stesso Snyder, che spiega le
motivazioni dei tagli per le sale, dovuti a ovvi e risaputi motivi di censura.
Il film
inizia in sordina, da una situazione di calma, in cui il caos si insinua
dapprima lentamente fino ad esplodere di colpo: vediamo l’ infermiera Ana (la
convincente Sarah Polley) tornare a casa in quella che sembra una giornata
qualsiasi, accolta dal marito Luis; durante la notte, l’ uomo viene aggredito e
morso dalla bambina dei vicini ormai “trasformata” (chiaro riferimento a “Night
Of The Living Dead”, una delle numerose citazioni sparse nel corso del
racconto): anch’ egli diventa in breve un “infetto” (al pari del film in bianco
e nero di Romero, non si utilizza mai la parola “zombie”) e tenta di aggredire
Ana, che riesce a fuggire in strada, sgomenta e terrorizzata. Ecco che davanti
a lei esplode il Caos, di fronte al quale non può far altro che salire in auto,
e fuggire. Qui si nota la prima, fondamentale differenza rispetto all’ opera
ispiratrice: in “Zombi”, ci si ritrovava scaraventati nel Disordine Assoluto
fin dai primissimi minuti, partendo dalla tragedia collettiva per poi arrivare
a quelle individuali; in questo caso, il percorso è inverso, affrontando
dapprima il dramma di Ana e, in un secondo tempo, quello che coinvolge il mondo
intero.
La donna
incontra Kenneth (il sempre efficace Ving Rhames), un poliziotto che vuole
raggiungere il campo di Fort Pastor per ritrovare il fratello; a loro si
uniscono altri tre personaggi: la giovane coppia formata da Luda (Inna
Korobkina), incinta, e Andre (Mekhi Phifer), nonché Michael (Jake Weber).
Il gruppo
si avvia verso il centro commerciale del luogo, il “Crossroads Shopping Mall”,
in cerca di rifugio: si scontra immediatamente con l’ ostilità delle tre guardie
giurate, capeggiate da CJ (Michael Kelly), il quale mostra la medesima
“territorialità” verso gli intrusi già vista nel personaggio di Stephen nella
pellicola del 1978: “questo è il nostro
posto”. Uno scambio di posizione , nel quale i protagonisti (per dirla
schematicamente, i “buoni”) sono gli “invasori” mentre gli “ostili” sono i
padroni del territorio.
Tuttavia,
si riesce a stabilire una coabitazione all’ interno dello shopping mall, nel
quale arriveranno altri personaggi, a bordo di un camion: ci si trova dunque di
fronte a un film di stampo decisamente più corale e meno claustrofobico.
Anche qui abbiamo
i momenti ludici, gli scontri, le inevitabili perdite; la delineazione dei
personaggi è quasi sempre attenta , sebbene alcuni di loro siano eccessivamente
a tutto tondo oppure, non completamente sviluppati, poiché, come si diceva,
sono numerosi dunque sarebbe stato difficile presentare ognuno di loro in modo
completo. In ogni caso, ogni individuo è riconoscibile per una caratteristica
peculiare e le sfumature vengono rese in modo abbastanza efficace, così come le
tensioni ed i rapporti di forza all’ interno del microcosmo che si è venuto a
creare.
Il film si
conclude in modo originale e con una certa dose di potenza visiva: in
alternanza ai titoli di coda, scorrono i fotogrammi finali, sull’ isola che
dovrebbe rappresentare la salvezza dei sopravvissuti; una sorta di gioco
metacinematografico, poiché il tutto ci viene mostrato attraverso le riprese
effettuate con una videocamera dagli stessi protagonisti. Anche in questo caso la musica gioca
un ruolo importante: esplode il nu-rock di “Down With The Sickness” dei
Disturbed, anch’ essa scelta assai azzeccata nel contesto. E’ curioso notare
che sia questo pezzo, quanto la sua versione swing, nonchè quello iniziale di
Johnny Cash, sono stati inseriti per assoluto volere di Snyder, nonostante l’ iniziale rifiuto dei produttori.
In questa
pellicola, si diceva, i morti viventi vengono denominati “infetti”, sebbene l’
origine del contagio non venga mai spiegata; nei plot summaries riportati sui
dvd box, si parla di un virus, mentre lo sceneggiatore James Gunn, durante un’
intervista, dà una spiegazione di natura sovrannaturale al fenomeno,
paragonandolo al “morso di un vampiro”. In ogni caso, non vi è traccia alcuna
di tradizioni voodoo, che nel film originale erano comunque appena
accennate; la celebre frase “Quando non vi sarà più posto all’ Inferno i morti cammineranno
sulla Terra” è qui inserita in un contesto completamente diverso: è
pronunciata dallo stesso attore del film di Romero, Ken Foree, che vediamo nel
ruolo di un predicatore televisivo, col conservatore CJ che ascolta attento le
sue parole attraverso lo schermo. “L’
Inferno è straripato e Satana ci sta mandando i suoi morti. Perché?” e parte l’ elenco dei “peccati mortali” quali
omosessualità, aborto, sesso al di fuori del matrimonio, e via discorrendo.
Secondo quest’ ottica integralista, gli
zombies sarebbero una punizione divina verso noi disgustosi peccatori.
Un sovvertimento piuttosto coraggioso da parte della narrazione, che sposta il
personaggio originale “dalla sponda opposta”, dai racconti sul voodoo al
fondamentalismo cattolico. Una chiara stilettata al bigottismo americano, forse
un po’ ruffiana, ma comunque ben piazzata.
Troviamo,
come in molte produzioni recenti, i morti viventi veloci, dunque non più lenti
e catatonici come quelli Romeriani bensì adrenalici, furibondi, ansiogeni,
molto vicini agli infetti (in senso stretto) di “28 Giorni Dopo” (2002); Snyder
giustificò la scelta dicendo che si è in questo modo evitata la comicità
involontaria dovuta alle tradizionali movenze rallentate e ciondolanti.
Affermazione assai discutibile, poiché c’è ben poco di comico nei passi pesanti
ed inesorabili dei living dead che ben conosciamo. E’ più corretto dire che,
come nel resto del film, si sono attualizzati parecchi elementi, aggiungendo
anche una maggiore spettacolarizzazione ed azione, per renderlo più appetibile
al pubblico odierno. Potrebbero esserci anche altre chiavi di lettura riguardo a
questo “cambio di marcia zombie”, ormai diffuso: volendo spingersi oltre in
sentieri interpretativi, può essere vista come metafora di una società che
corre a ritmi sempre più sincopati oppure, tornando a termini più prosaici, si
vuole semplicemente creare un maggiore impatto a livello di azione e di ritmica
visivo/narrativa.
In un
preciso momento della narrazione, relativo all’ eliminazione di ciò che un
tempo era Ben Cozine, anche lui guardia giurata nello shopping mall, ad opera
dei suoi stessi ex-compagni, troviamo la curiosa definizione di “tarantolato”,
relativa al morto vivente. E’ stata una buona scelta del doppiaggio italiano
(il termine inglese è “twitcher”, da “twitch”, spasmo), con i suoi rimandi
antropologici (forse involontari) al tarantismo (ossia le conseguenze del morso
di una tarantola) e ai relativi esorcismi, rituali assai affascinanti, che
mescolano tradizione cattolica e paganesimo. Accostamento magari puramente
casuale ma per certi versi calzante, a maggior ragione con questa tipologia di
zombie, che presenta caratteristiche simili a quelle di un posseduto. Nell’
uccisione di Cozine, notiamo un altro particolare , che ritroveremo in Luda:
poco prima di “morire” definitivamente, nel suo sguardo compare un’ ombra di
paura. Ciò è in stridente contrasto con la natura stessa dell’ essere, che è
cadavere, dunque non senziente: in questo film, si lascia qualche labile
traccia di umanità allo zombie, seppur attraverso un dettaglio quasi
impercettibile che può essere notato ascoltando il commento audio del regista.
Ciò che è interessante non è tanto la caratteristica in sé quanto la modalità
quasi subliminale con cui viene resa, che è comunque recepita dal pubblico, pur
se in modo inconsapevole.
Anche qui troviamo il dilemma dell’ uccidere coloro
ai quali si è legati ma che non sono più ciò che erano: questo è
particolarmente evidente nella vicenda della giovane Nicole (Lindy Booth) e di
suo padre Frank (Matt Frewer): fanno parte del secondo gruppo giunto al centro
commerciale, e l’ uomo è stato morso. Michael e Kenneth sostengono la necessità
di ucciderlo, mentre Ana difende la posizione “emotiva”, rifiutando l’ idea di eliminare
qualcuno che è ancora, a tutti gli effetti, un essere umano. E’ importante
notare che in questo film la “trasformazione” non è lenta bensì quasi
istantanea: ai primi sintomi, segue subito la morte ed immediatamente il
“risveglio”.
Nicole
reagisce alla notizia in modo straziante, poiché suo padre è l’ unica persona
che le è rimasta al mondo, e i due si salutano con un lungo abbraccio: qui i
legami umani sono maggiormente accentuati, scadendo talvolta in sentimentalismi
un po’ scontati.
Sarà
Kenneth a prendersi carico del compito, attendendo il risveglio di Frank: la
scena viene tenuta fuori campo, e lasciata nel solo ambito sonoro.
Entra
immediatamente in gioco il contrasto di registri, così come accadeva nel film
originario: la sequenza successiva, parte con l’ allegro swing di “Down With
The Sickness” rifatta da Richard Cheese, che fa da sfondo a momenti di
intrattenimento del gruppo. Se in Romero si trovava l’ accostamento musiche
comiche/scene cruente, qui abbiamo il montaggio che accosta scene drammatiche
ad altre in cui il tono emotivo si alza di colpo, disorientando lo spettatore.
Una delle
variazioni più interessanti e riuscite del film può essere trovata nell’
introduzione del personaggio di Andy (Bruce Bohne): i sopravvissuti infatti,
passano molto del loro tempo sul tetto (anche
in questo, abbiamo una diminuizione dell’ impatto claustrofobico), dove hanno
piazzato scritte di S.O.S, ed è così che, sulla sommità di un palazzo vicino,
vedono quest’ uomo, proprietario di un negozio di armi; la comunicazione tra loro avviene unicamente a distanza, scrivendo
su cartelloni e leggendo tramite cannocchiale. Kenneth, in particolare,
stabilisce un’ amicizia con Andy, intrattenendosi in lunghe partite a scacchi o
in divertimenti più puerili, come tiri al bersaglio sugli zombies che vagano al
di sotto degli edifici.
E’ elemento
particolare, non banale e che sottolinea il valore dei legami umani in
condizioni estreme, relazioni che si stringono sebbene non ci si rivolga mai
una parola.
La
coabitazione forzata dei componenti del gruppo provoca, inevitabilmente, l’
esplosione di conflitti e tensioni, alcuni di loro si sopportano a malapena. CJ
rappresenta il principale elemento di disturbo, “l’ ostile” per eccellenza il
quale, insieme all’ altra guardia giurata (il terzo, Terry, si è invece
amalgamato con gli altri poiché diverso dai suoi colleghi), finirà per essere
messo sotto chiave per poter essere arginato. La scoperta di un altro
sopravvissuto, rappresenta, in particolar modo per Kenneth, uno spiraglio al di fuori di un’ aggregazione
forzata e a lui non congeniale.
Il tipo di rapporto interpersonale che si stabilisce con Andy può essere letto in modo ambivalente, seguendo la
strada della "libera interpretazione": da un lato, è possibile
inserirlo nel contesto della comunicazione nell' epoca di internet, tramite
messaggistica testuale, con quella “distanza di sicurezza”
che in un certo qual modo protegge da un reale interscambio. Dall' altro, in
modo diametralmente opposto, rimanda alle forme non-verbali primitive, antecedenti all' esistenza della parola e basate su
simboli e gesti. In entrambi i casi, si tratta di un modo di comunicare
che va a formare un legame amichevole che nasce in condizioni estreme, tra
sopravvissuti, Kenneth e Andy. In un momento cruciale, nel quale Kenneth si
trova davanti all' uomo, si rivolge a lui chiamandolo “fratello”: un legame "d' emergenza" ma non per
questo meno reale, cresciuto attraverso l' unirsi di due solitudini in un’
ideale fratellanza, che in
condizioni normali non si sarebbe mai creata.
Dunque, non vi sono solo i lati negativi della lotta per sopravvivere, come la
territorialità o il conflitto, ma anche un polo positivo, quello
di una solidarietà altrimenti impensabile che nasce dal bisogno di aggrapparsi
alla propria umanità.
I personaggi hanno dunque una grossa importanza
in questo “Dawn Of The Dead”, così come
l’ avevano in Romero: qui si
mette più carne al fuoco, e, come già si accennava, non tutti i protagonisti
sono presentati in modo sfaccettato: CJ, ad esempio,
nonostante il “riscatto” finale, è il classico conservatore, patriottico,
ignorante e maschilista, quasi del tutto privo di sfumature. La scena della cena, che vede il
gruppo riunito, è occasione per presentare meglio le varie individualità, ma
finisce per diventare un monologo di Michael (il quale peraltro, nel corso del
film, sviluppa una reciproca “simpatia” per Ana) sulla propria inutilità come
marito e l’ ennesima occasione per Steve (Ty Burrell) di guadagnarsi il marchio
di “antipatico” della situazione.
Durante la
cena, notiamo l’ assenza di due personaggi, Andre e Luda: la ragazza è stata
morsa, cosa che il resto del gruppo ignora, ed il marito sembra non voler
accettare la realtà che ha davanti; dettaglio non trascurabile, visto che si è
ormai arrivati al momento del parto. Nella cornice di una cameretta da
esposizione , con la fotografia virata lievemente in verde a dare un tono
allucinato alla scena, troviamo la giovane legata al letto, e un Andre ormai prossimo
alla follia. Luda muore ed il pancione inizia a muoversi: la puerpera zombie si
risveglia inferocita, quando nella stanza entra Norma (Jayne Eastwood), solida
donna di mezza età. Ciò che le si para davanti è una sorta di incubo, con Andre
che tiene in mano un fagottino in fasce grondante sangue e Luda zombie legata
al letto.
La sequenza
successiva è efficace e assai ben montata (ottimo il lavoro di Niven Howie):
Norma spara alla ragazza, e Andre spara alla donna. Un duello in puro stile
western, lento, a più riprese, nel quale non si muore subito.
Il resto
del gruppo interviene ed ecco la macabra scoperta: il neonato zombie. Questo
elemento è in realtà piuttosto controverso: se, ad un primo impatto, può
risultare anche impressionante, finisce per essere piuttosto ridicolo, visto nel
complesso.La sceneggiatura, assai più coraggiosamente, prevedeva che il bambino
uccidesse la madre, ma la scelta fu scartata poiché considerata troppo estrema.
Sarà Ana a
sparare al piccolo, ovviamente sempre in fuori campo, il tutto seguito da
silenzio, una sorta di pausa di riflessione su quel che abbiamo immaginato che
sia appena accaduto.
Non è la
prima volta che compare un neonato mostruoso sullo schermo, basti pensare al
cult “Baby Killer” (1974) di Larry
Cohen, nel quale, nonostante gli effetti assolutamente low budget, ci veniva
mostrato (assai poco, in realtà, e lì stava la sua forza) un baby-mostro magari
improbabile, ma ferocemente inquietante. L’ obbiettivo non è stato centrato in
“Dawn Of The Dead”, sprecando un’ idea potenzialmente buona e di impatto
notevole.
Il finale,
come si diceva, è sufficientemente robusto e amaro. Si è scampati ai facili
“happy ending” hollywoodiani, senza chiuse comodamente consolatorie.
Oltre al
cameo di Ken Foree, troviamo anche quello di Scott H. Reiniger, il Roger del
film originale: anch’ egli compare in televisione, nel ruolo di un capo dell’
esercito che invita la cittadinanza a rifugiarsi a Fort Pastor (il quale si scoprirà,
in seguito, essere popolato solo più da zombies). Un negozio dello shopping
mall è intitolato a Gaylen Ross, in omaggio all’ attrice che interpretava Fran,
dunque un tributo solo nominale poiché l’ interprete è stata impossibilitata a
partecipare al film. David Emge, l’ attore che ricopriva il ruolo di Stephen, è
invece risultato irrintracciabile.
Anche qui,
come nella pellicola “madre”, la presenza del mezzo televisivo è massiccia, ma
in questo caso lo è proprio in senso fisico: infatti, le guardie giurate
tengono perennemente accesi più maxi-schermi contemporaneamente e di continuo,
in modo ossessivo ed incessante. I notiziari scorrono uno dietro l’ altro, col
sottofondo delle proteste di CJ: “sempre le stesse cose, ditemi qualcosa che
non so!”. Una ridondanza di informazioni sempre uguali, reiterate, esasperanti,
ua potenza mediatica che, negli anni, si è ingigantita fino a diventare più
spaventosa dei mostri stessi.
Tecnicamente,
la pellicola è di ottima fattura, sebbene eccessivamente patinata: il montaggio
è ottimo, sebbene talvolta troppo serrato, prediligendo l’ azione a scapito di tempi
più lenti; interessante il lavoro sul colore, con tonalità fredde e livide che
rendono bene l’ atmosfera all’ interno del complesso di negozi diventato rifugio/prigione.
Buoni gli
effetti speciali a cura di David LeRoy Anderson, che per la realizzazione del
trucco dei cadaveri si è basato su fotografie e documentazione di carattere
scientifico, in modo da ottenere un maggior realismo ed efficacia.
Il film è
ambientato a Milwaukee e girato in Canada, in parte in un centro commerciale in
fase di chiusura, che venne demolito subito dopo il termine delle riprese.
Un bilancio
dunque complessivamente positivo per questa rilettura, ed è giusto sottolineare
il termine, del cult di Romero, che ha fatto comunque storcere il naso a molti,
e non sempre a torto: ci sono molte strizzate d’ occhio al botteghino, nelle
numerose scene d’ azione, l’ apparato patinato, i facili sentimentalismi e
soluzioni troppo accattivanti. Si è attualizzato il punto di partenza
tradizionale, col quale è impossibile fare confronti diretti. Quindi, come già
detto, se preso isolatamente e solo come interpretazione del grande classico,
il film di Snyder resta davvero un buon prodotto, intrattenimento non banale e
con spunti realmente interessanti.
Affiancarlo per paragoni ad una “madre” tanto ingombrante,
significherebbe non solo stroncarlo sul nascere ma anche snaturarlo delle
proprie idee. Da vedere a mente sgombra dunque, e possibilmente lontano da “pasti
Romeriani”.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
L' Alba Dei Morti Viventi
Titolo Originale: Dawn Of The Dead
Usa/Canada/Giappone/Francia -2004
Regia: Zack Snyder
Altro superpost!
RispondiEliminaFilm niente male, con un pezzo d'apertura fantastico! :)
grazie :)
Eliminaalla fine, ho fatto che dedicarmi ad entrambi, anche se ovviamente non si possono paragonare in senso stretto, sarebbe una battaglia persa in partenza. Ma il film di Snyder davvero non è male, riesce a ritagliarsi un suo spazio e l' impresa non era affatto facile. Il pezzo di Johnny Cash è qualcosa di assoluto :)
Ben fatto, un' altra ottima recensione.:)
RispondiEliminail post è grandioso, come al solito. Il film l'ho visto l'altro giorno e ti confesso che non mi ha convinto per niente....
RispondiEliminagrazie :* sì, il film può non convincere, è molto action e comunque mira al botteghino. ma ci ho visto delle buone idee. come dico sempre, de gustibus, sempre e comunque ;)
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