Una settimana prima della morte del grande Kôji Wakamatsu, in seguito ad un incidente stradale, andava online la mia recensione del suo magnifico "Caterpillar" (2010). La pubblico qui solo ora, come mio piccolo tributo al suo grande Genio. Riposa in pace, ovunque tu sia.
pubblicata su Positifcinema:
Caterpillar (2010)
Il Dio Larva
Caterpillar (Kyatapirâ), letteralmente bruco, larva, è pellicola cardine nella
filmografia di Kôji Wakamatsu, regista nipponico principalmente noto per le produzioni di genere pinku eiga (porno softcore), fondatore,
nel 1965, della factory Wakamatsu
Production, al fine di poter lavorare in piena libertà espressiva, seppur
con povertà di mezzi.
Quest’opera, presentata alla Berlinale
del 2010 e che valse L’Orso d’Argento come Miglior Attrice alla protagonista Shinobu Terajima, è successiva a un altro
film fondamentale di Wakamatsu, United Red Army (2007), racconto epico
in tre atti sulla nascita delle violente contestazioni armate della sinistra
giovanile negli anni ‘60 che segnò la rinascita artistica del regista nel mezzo
di un declino che pareva essere inesorabile.
Caterpillar, parzialmente tratto dal racconto
breve di Edogawa Rampo, è un film
incompreso e volutamente respingente: stroncato da gran parte della critica, è dunque
outsider e fiero di essere tale;
dietro al paravento di una messinscena apparentemente semplice e dimessa,
con un narrato che si svolge per gran parte in un ambiente domestico, prende
vita un racconto complesso e disturbante, nel quale l’attacco feroce al
militarismo dell’Impero nipponico e ai crimini di guerra compiuti durante il secondo
conflitto Sino-Giapponese (1937-1945), scorre in parallelo con una storia di
abusi domestici, dunque un dominio psicologico e sessuale. In Caterpillar, l’uno è metafora dell’altro
nel loro intrecciarsi, rafforzando così, inquadratura dopo inquadratura, il
potenziale disturbante del messaggio che Wakamatsu riesce a far giungere allo spettatore , un
crescendo che si trasforma in un vero e proprio pugno nello stomaco.
Il tenente Kyuzo Kurokawa (notevole
l’interpretazione di Keigo Kasuya, che
recita soltanto tramite le espressioni facciali) fa ritorno a casa, in un
villaggio alla periferia di Tokyo: sono gli anni ’30 e il conflitto tra Cina e
Giappone è ancora ben lungi dal terminare. Kurokawa
è orribilmente mutilato, privo di braccia e gambe, sfigurato in volto e
incapace di articolare le parole. “Un
pezzo di carne”, lo definisce il padre, un mezzo uomo davanti al quale la
moglie Shigeko (un’eccezionale Shinobu Terajima) reagisce con un misto
di raccapriccio, repulsione e disperazione.
Per gli abitanti del
villaggio, Kyuzo è un eroe, è il Dio della Guerra: sulla sua divisa sono
appuntate tre medaglie, conferite dall’Imperatore in persona.
I concetti di Patria e
Impero, nei quali l’individuo (maschile) è degno di essere tale solo se adatto
a servire, in quanto soldato, l’entità imperiale divinizzata, vengono mostrati
da Wakamatsu nella loro spiazzante e
assoluta cecità, nella totale spersonalizzazione dell’Uomo che diventa solo e
unicamente braccio armato.
Poco importa se il
loro Dio della Guerra sia ridotto a
un tronco umano e non riesca più a proferire parola, e se la moglie debba
portare il gravoso fardello di accudirlo: ai loro occhi, è giusto che sia così,
in nome di una patria sanguinaria che divora i propri e gli altrui figli, in un
Paese dove la donna è per tradizione sottomessa ai voleri del proprio sposo.
La giovane Shigeko si ritrova dunque a prendersi
cura del tanto osannato eroe, il quale, in realtà, di eroico ha ben poco: già
marito violento e abusivo, nel corso del conflitto si è macchiato di orrendi
crimini di guerra; la sua menomazione altro non è che il risultato di una
rappresaglia da parte dell’armata cinese. La narrazione si concentra
sull’evoluzione del rapporto Kyuzo/Shigeko, dunque tra carnefice e vittima,
dominante e dominato: l’uomo, nonostante la sua infermità, tenta ancora di
imporre il suo predominio, anche sessualmente, con continue richieste di
rapporti carnali alle quali la moglie acconsente provando repulsione, riluttanza,
e un’esasperazione sempre più insopportabile.
Il rapporto di forza Kyuzo/Shigeko si trasforma, muta lentamente nel corso del narrato: in un
primo tempo la donna acquisisce il dominio poiché il marito è inerme e non può
più farle del male, per quanto lei stessa acconsenta a soddisfare i suoi
incontenibili appetiti sessuali.
Tuttavia, Shigeko giunge a prendere il controllo
in modo sempre più sottile, con armi mentali e non soltanto fisiche, portando
il Dio della Guerra in giro per il
villaggio, al pari di un fenomeno da baraccone, provocando in lui ira nel
fargli ascoltare i tronfi bollettini di guerra alla radio (che Wakamatsu visivamente sottolinea con
scritte, e contrasta con immagini di violenza), “prodezze belliche” alle quali lui non può più prendere parte: Shigeko, dunque, strumentalizza a suo
favore quel conflitto che lei odia.
“Tu
devi solo dormire e mangiare, mangiare e dormire, come un grasso verme”: in queste parole si concentra la
catarsi di Shigeko, la rivalsa del
dominato su un dominante ormai ridotto a un “pezzo di carne”.
In Caterpillar non ci sono vincitori, la
conquista di Shigeko è in ogni caso
amara e dolorosa, sofferta come ogni battaglia.
Kôji
Wakamatsu ci dona
dunque un capolavoro potente, che resta indelebilmente impresso e brucia come
un marchio a fuoco: in una guerra, di qualsiasi tipo essa sia, non ci sono
vincitori, né vinti, e soprattutto, non può esserci un Dio.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Caterpillar (Kyatapirâ)
Giappone -2010
Regia: Kôji Wakamatsu