il mio sguardo retrospettivo su "Kairo" (2001), caposaldo del j-horror, di Kiyoshi Kurosawa
pubblicato su Point Blank:
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Kairo (2001)
La spettrale solitudine di una Stanza Proibita
Kairo (che tradotto letteralmente
significa “circuito”), pellicola del 2001 dunque ormai risalente a ben dodici
anni fa, si staglia nella filmografia di Kiyoshi Kurosawa come una sorta di
corpo estraneo, ectoplasmico come le inquietanti entità che lo popolano. Presentato
nella sezione Un Certain Regard al 54
° Festival di Cannes, resta punto cardine del J-Horror, che al tempo viveva il
suo periodo più fulgido per poi esaurirsi in una ripetitività per molti versi preannunciata,
reiterando stilemi di base che si sono, inevitabilmente, auto-fagocitati fino a
rasentare il grottesco o il macchiettistico. Tuttavia, se oggi si sorride
davanti all’ennesima ragazzina con i capelli lunghissimi sul volto, uno dei retaggi/debiti
del genere verso il teatro Kabuki, antica forma di rappresentazione popolare che
è radice dell’horror nipponico, un decennio fa si veniva inesorabilmente
colpiti, e terrorizzati, da quest’orrorifico rarefatto, costruito sulla
gestualità, la mimica facciale, lo spavento-effetto mostrato prima della
paura-causa, in un meccanismo dunque esattamente contrario a quello della messa
in scena occidentale.
Kurosawa esordì nel 1975, spaziando tra tipologie filmiche assai diverse tra loro,
dal pinku-eiga (l’erotico soft-core)
alla commedia passando per il gangster-yakuza: è nel 1997, con l’ormai celebre
thriller Cure, che la sua poetica
prende forma e direzione precise, nell’essere metafisica, sospesa nel tempo e
nello spazio, ed essenziale nel suo lavorare di sottrazione. Cure inaugurò, in un certo qual modo, la
corrente j-horror contemporanea, un anno prima del celeberrimo Ringu, di Hideo Nakata, che ne consacrò
le caratteristiche fondamentali, divenendone manifesto vero e proprio. Kairo, per molti versi, rimanda al suo
illustre predecessore, manifestando al tempo stesso un’identità propria e
peculiare che l’ha reso pellicola di culto, al punto da venire eletto “il
miglior horror orientale del millennio” dagli utenti di Asian Feast, sito
dedicato alla cinematografia del Sol Levante.
Ghost-story
figlia della tradizione dei kwaidan,
i racconti di fantasmi risalenti al periodo Edo (1603-1868) e al periodo Meiji
(1868-1913) che si presentano come basi primordiali dell’orrorifico giapponese,
la pellicola è fautrice di un discorso
assai più ampio e profondo, che va al di là della pura narrazione spaventevole
di stampo sovrannaturale, basandosi su paure ancestrali reiterate nel mondo
moderno, divenendone prole legittima. La solitudine, infatti, insieme alla sostanziale
incapacità di comunicare tipica della società odeirna, è la vera protagonista
del plot, che usa la figura dello spettro in quanto metafora di un’umanità
disperata e votata a un isolamento dal quale non vi sono vie di fuga. Il
concetto di aldilà viene prepotentemente inserito nel nostro mondo, nel
contesto del reale, trovando incarnazione nello spazio delle stanza proibita, luogo-simbolo nel quale
i morti si manifestano, il cui uscio è sigillato da nastro isolante rosso e che
attira irresistibilmente i vivi in un continuo interscambio tra le due
dimensioni. E’ proprio nella labilità di questo confine e nella
fusione/identificazione tra il regno dei defunti e la realtà così come la
conosciamo che il film diventa oggetto a sé, discostandosi dalle altre
produzioni di genere e presentando una poetica del tutto innovativa; nella
pellicola di Kurosawa, infatti, le entità appaiono tramite i computer e la rete
Internet, utilizzando un mezzo-macchina
così come accadeva in Ringu con
l’apparecchio televisivo, diffondendosi come vero e proprio contagio
nell’invadere il mondo dei vivi che è simile e speculare al proprio.
Defunti
che infestano la Rete, qui portale di passaggio, sconfinando nel nostro territorio
poiché “quando l’aldilà è zeppo, le anime
sono obbligate a spostarsi nella nostra realtà”, concetto,
inequivocabilmente, di Romeriana memoria. Le entità che vediamo in Kairo, terrificanti nelle loro movenze
lentissime che le rendono eternamente sospese e presenti, sono spettri atipici,
figure di raccordo tra Morte e Vita: si
materializzano, per poi scomparire lasciando una macchia sul muro, un segno
tangibile, organico, materiale e percepibile così come il loro agghiacciante
chiedere “aiuto” attraverso un monitor o tramite un apparecchio telefonico. A
differenza dei fantasmi tradizionali, che lasciavano volatili scritte sugli
specchi rimanendo dunque relegati a un beyond
quasi rassicurante poiché separato da questo mondo, gli umani ectoplasmi di
Kurosawa comunicano con la voce e si muovono nello spazio, in una mortale pandemia
che altro non è che specchio riflettente della vita stessa. “Le persone e i fantasmi sono la stessa
cosa, che siano vive o no”, dice la giovane Harue, studentessa di
informatica, a Kawashima, che a differenza degli altri personaggi del film
rifiuta l’idea di thanatos, in uno
slancio verso il vitale che lo porterà al tentativo disperato di strappare la
ragazza al non-luogo di un morire eterno, nel quale ella vede i defunti come
esseri che vogliono, semplicemente, renderci immortali.
Kairo dipinge dunque un cosmo a metà, recante
una frattura tra vita e morte che è solo crepa sottilissima, un territorio di confine in cui chi è vivo
vorrebbe morire e chi è morto desidera tornare, alla perenne ricerca di
qualcosa che non si riesce ad afferrare: da qui la solitudine, dei viventi e
dei defunti, e l’incomunicabilità simboleggiata da quell’interazione fittizia
di cui la Rete è portatrice.
L’ectoplasma
diviene dunque corpo fisico, restando fedele all’eredità del già citato teatro Kabuki, basato, come del resto l’intero corpus stilistico del J-Horror, sulla
mimica facciale e sulla gestualità, in una rarefazione del dialogo spesso trasformata
in assoluto silenzio, spezzato soltanto da rumori di interferenza e sinistri
lamenti. Lo scream che caratterizza
l’orrorifico occidentale è qui sostituito da espressioni terrorizzate, ben più
evocative di qualsiasi urlo lancinante, che nella messa in scena sono spesso
mostrate prima della causa della paura, creando così quella disturbante
inquietudine anticipativa propria del genere, che si riscontra, in Kairo, in soluzioni visive frutto di una
meticolosa attenzione per l’inquadratura, vero e proprio studio la cui
conseguenza sono personaggi sovente mostrati di spalle oppure parzialmente, in
un terrore sussurrato e suggerito che si fa forte dell’attesa di un movimento,
un gesto, un voltarsi. Nessun spavento facile in quest’opera, a differenza dei
numerosi epigoni che giocheranno su apparizioni improvvise e prepotenti: qui
domina una lentezza che agghiaccia ben più del balzo repentino, indugiando al
fine di costruire un terrore basato anche sulla dilatazione temporale.
Il suono, e
la sua natura sinistra e spaventevole, ha un ruolo preponderante,
caratteristica comune a altri horror nipponici, Ringu in primis: è proprio la parsimonia con la quale l’elemento
sonoro è utilizzato a renderlo così destabilizzante, l’alterazione e
distorsione di voci e rumori che si insinuano nel silenzio del reale,
risultando sconcertanti. Tòpos
filmico che trova una delle sue origini anche nel cinema di genere italiano
anni ’70, in special modo quello Argentiano.
Kairo è film che resta opera centrale nel
panorama orrorifico orientale, pellicola cardinale in virtù del suo risultare,
anche a distanza di anni, atipica e genuinamente spaventosa nell’ambito di un
filone che, tra remake hollywoodiani e stilemi ripetuti all’eccesso, si è
esaurito in modo naturale, seguendo un ciclo spontaneo: ha concluso,
semplicemente, il proprio discorso, scegliendo di tacere poiché non restava
altro da aggiungere.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Kairo
Giappone - 2001
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Data di uscita italiana: inedito in sala