domenica 31 marzo 2013

Il mio articolo su "Kairo" (2001), di Kiyoshi Kurosawa, per Point Blank


il mio sguardo retrospettivo su "Kairo" (2001), caposaldo del j-horror, di Kiyoshi Kurosawa

pubblicato su Point Blank:

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Kairo (2001)

La spettrale solitudine di una Stanza Proibita


Kairo (che tradotto letteralmente significa “circuito”), pellicola del 2001 dunque ormai risalente a ben dodici anni fa, si staglia nella filmografia di Kiyoshi Kurosawa come una sorta di corpo estraneo, ectoplasmico come le inquietanti entità che lo popolano. Presentato nella sezione Un Certain Regard al 54 ° Festival di Cannes, resta punto cardine del J-Horror, che al tempo viveva il suo periodo più fulgido per poi esaurirsi in una ripetitività per molti versi preannunciata, reiterando stilemi di base che si sono, inevitabilmente, auto-fagocitati fino a rasentare il grottesco o il macchiettistico. Tuttavia, se oggi si sorride davanti all’ennesima ragazzina con i capelli lunghissimi sul volto, uno dei retaggi/debiti del genere verso il teatro Kabuki,  antica forma di rappresentazione popolare che è radice dell’horror nipponico, un decennio fa si veniva inesorabilmente colpiti, e terrorizzati, da quest’orrorifico rarefatto, costruito sulla gestualità, la mimica facciale, lo spavento-effetto mostrato prima della paura-causa, in un meccanismo dunque esattamente contrario a quello della messa in scena occidentale. 

Kurosawa esordì nel 1975, spaziando tra  tipologie filmiche assai diverse tra loro, dal pinku-eiga (l’erotico soft-core) alla commedia passando per il gangster-yakuza: è nel 1997, con l’ormai celebre thriller Cure, che la sua poetica prende forma e direzione precise, nell’essere metafisica, sospesa nel tempo e nello spazio, ed essenziale nel suo lavorare di sottrazione. Cure inaugurò, in un certo qual modo, la corrente j-horror contemporanea, un anno prima del celeberrimo Ringu, di Hideo Nakata, che ne consacrò le caratteristiche fondamentali, divenendone manifesto vero e proprio. Kairo, per molti versi, rimanda al suo illustre predecessore, manifestando al tempo stesso un’identità propria e peculiare che l’ha reso pellicola di culto, al punto da venire eletto “il miglior horror orientale del millennio” dagli utenti di Asian Feast, sito dedicato alla cinematografia del Sol Levante.

Ghost-story figlia della tradizione dei kwaidan, i racconti di fantasmi risalenti al periodo Edo (1603-1868) e al periodo Meiji (1868-1913) che si presentano come basi primordiali dell’orrorifico giapponese,  la pellicola è fautrice di un discorso assai più ampio e profondo, che va al di là della pura narrazione spaventevole di stampo sovrannaturale, basandosi su paure ancestrali reiterate nel mondo moderno, divenendone prole legittima. La solitudine, infatti, insieme alla sostanziale incapacità di comunicare tipica della società odeirna, è la vera protagonista del plot, che usa la figura dello spettro in quanto metafora di un’umanità disperata e votata a un isolamento dal quale non vi sono vie di fuga. Il concetto di aldilà viene prepotentemente inserito nel nostro mondo, nel contesto del reale, trovando incarnazione nello spazio delle stanza proibita, luogo-simbolo nel quale i morti si manifestano, il cui uscio è sigillato da nastro isolante rosso e che attira irresistibilmente i vivi in un continuo interscambio tra le due dimensioni. E’ proprio nella labilità di questo confine e nella fusione/identificazione tra il regno dei defunti e la realtà così come la conosciamo che il film diventa oggetto a sé, discostandosi dalle altre produzioni di genere e presentando una poetica del tutto innovativa; nella pellicola di Kurosawa, infatti, le entità appaiono tramite i computer e la rete Internet,  utilizzando un mezzo-macchina così come accadeva in Ringu con l’apparecchio televisivo, diffondendosi come vero e proprio contagio nell’invadere il mondo dei vivi che è simile e speculare al proprio. 

Defunti che infestano la Rete, qui portale di passaggio, sconfinando nel nostro territorio poiché “quando l’aldilà è zeppo, le anime sono obbligate a spostarsi nella nostra realtà”, concetto, inequivocabilmente, di Romeriana memoria. Le entità che vediamo in Kairo, terrificanti nelle loro movenze lentissime che le rendono eternamente sospese e presenti, sono spettri atipici, figure di raccordo tra Morte e Vita: si materializzano, per poi scomparire lasciando una macchia sul muro, un segno tangibile, organico, materiale e percepibile così come il loro agghiacciante chiedere “aiuto” attraverso un monitor o tramite un apparecchio telefonico. A differenza dei fantasmi tradizionali, che lasciavano volatili scritte sugli specchi rimanendo dunque relegati a un beyond quasi rassicurante poiché separato da questo mondo, gli umani ectoplasmi di Kurosawa comunicano con la voce e si muovono nello spazio, in una mortale pandemia che altro non è che specchio riflettente della vita stessa. “Le persone e i fantasmi sono la stessa cosa, che siano vive o no”, dice la giovane Harue, studentessa di informatica, a Kawashima, che a differenza degli altri personaggi del film rifiuta l’idea di thanatos, in uno slancio verso il vitale che lo porterà al tentativo disperato di strappare la ragazza al non-luogo di un morire eterno, nel quale ella vede i defunti come esseri che vogliono, semplicemente, renderci immortali.

Kairo dipinge dunque un cosmo a metà, recante una frattura tra vita e morte che è solo crepa sottilissima,  un territorio di confine in cui chi è vivo vorrebbe morire e chi è morto desidera tornare, alla perenne ricerca di qualcosa che non si riesce ad afferrare: da qui la solitudine, dei viventi e dei defunti, e l’incomunicabilità simboleggiata da quell’interazione fittizia di cui la Rete è portatrice.

L’ectoplasma diviene dunque corpo fisico, restando fedele all’eredità del già citato teatro Kabuki, basato, come del resto l’intero corpus stilistico del J-Horror, sulla mimica facciale e sulla gestualità, in una rarefazione del dialogo spesso trasformata in assoluto silenzio, spezzato soltanto da rumori di interferenza e sinistri lamenti. Lo scream che caratterizza l’orrorifico occidentale è qui sostituito da espressioni terrorizzate, ben più evocative di qualsiasi urlo lancinante, che nella messa in scena sono spesso mostrate prima della causa della paura, creando così quella disturbante inquietudine anticipativa propria del genere, che si riscontra, in Kairo, in soluzioni visive frutto di una meticolosa attenzione per l’inquadratura, vero e proprio studio la cui conseguenza sono personaggi sovente mostrati di spalle oppure parzialmente, in un terrore sussurrato e suggerito che si fa forte dell’attesa di un movimento, un gesto, un voltarsi. Nessun spavento facile in quest’opera, a differenza dei numerosi epigoni che giocheranno su apparizioni improvvise e prepotenti: qui domina una lentezza che agghiaccia ben più del balzo repentino, indugiando al fine di costruire un terrore basato anche sulla dilatazione temporale.

Il suono, e la sua natura sinistra e spaventevole, ha un ruolo preponderante, caratteristica comune a altri horror nipponici, Ringu in primis: è proprio la parsimonia con la quale l’elemento sonoro è utilizzato a renderlo così destabilizzante, l’alterazione e distorsione di voci e rumori che si insinuano nel silenzio del reale, risultando sconcertanti. Tòpos filmico che trova una delle sue origini anche nel cinema di genere italiano anni ’70, in special modo quello Argentiano.

Kairo è film che resta opera centrale nel panorama orrorifico orientale, pellicola cardinale in virtù del suo risultare, anche a distanza di anni, atipica e genuinamente spaventosa nell’ambito di un filone che, tra remake hollywoodiani e stilemi ripetuti all’eccesso, si è esaurito in modo naturale, seguendo un ciclo spontaneo: ha concluso, semplicemente, il proprio discorso, scegliendo di tacere poiché non restava altro da aggiungere.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Kairo
Giappone - 2001
Regia: Kiyoshi Kurosawa
Data di uscita italiana: inedito in sala
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La mia recensione de "La Madre" (Mama) (2013) per Point Blank



pubblicata su Point Blank:

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La Madre (Mama) (2013)



Uscito nelle sale statunitensi il 18 Gennaio, con un repentino balzo in cima alle classifiche dei box office, La Madre (Mama) approda nel notro Paese portando con sé il biglietto da visita di ottimi incassi e di una produzione firmata Guillermo del Toro, attivissimo in queste vesti con titoli che spaziano da Lo Hobbit a pellicole meno conosciute come Splice (2009). Per il giovane regista spagnolo Andrés Muschietti, che con La Madre esordisce nel lungometraggio, del Toro è stato vero e proprio mecenate: nel 2008, Muschietti realizzò il corto Mamá, ottimo esempio di meccanismo orrorifico dall’idea fulminante e della durata di soli tre minuti , che impressionò il cineasta messicano al punto da volerne produrre una versione full-lenght, che risulta, purtroppo, indebolita proprio dalla dilatazione del narrato. Quelli che erano i punti di forza del cortometraggio, ossia l’angoscia, la tensione e l’effetto-sorpresa, finiscono inevitabilmente per smarrirsi sulla lunga durata, che diluisce lo spunto di partenza in una storia per molti versi risaputa e assai derivativa.


E’ proprio la mancanza di originalità la principale pecca dell’opera di Muschietti, già autore di spot pubblicitari e produttore dello short film d’origine insieme alla sorella Barbara: La Madre ripropone tutti gli stilemi dell’horror contemporaneo, pescando a piene mani da più fonti, a partire dal j-horror fino alla stessa poetica di del Toro, nel mostrare un universo infantile cupo e dominato da paure primordiali, la classica fiaba nera in cui latitano due componenti essenziali: uno script robusto e un reale senso di spavento.
Un peccato, poiché la tematica avrebbe potuto condurre a un risultato decisamente più efficace:  due bambine, Victoria e la sorellina Lilly, rimaste orfane in circostanze tragiche, vengono abbandonate a loro stesse in un capanno in mezzo ai boschi. Regredite a uno stato selvatico e animalesco, verranno ritrovate cinque anni dopo grazie alle ricerche dello zio Lucas (Nikolaj-Coster Valdau), il quale, insieme alla compagna Annabell (altra ottima prova di Jessica Chastain in vista della nomination all’Oscar per Zero Dark Thirty), ne ottiene la custodia, per intercessione dello psichiatra che le ha in cura, il Dottor Dreyfuss (Daniel Kash), il quale continuerà a monitorarne i progressi. 
 
La coppia e le bambine vengono così trasferiti in una casa protetta, un’abitazione/laboratorio che permetterà loro di proseguire la terapia, dunque un ambiente-ponte tra la solitudine selvaggia e il calore domestico vero e proprio. L’idea possiede dunque un ottimo potenziale, nel porre l’accento sulla natura puramente istintivo/animalesca dell’infanzia, osservando le reazioni aggressive di Victoria e Lilly, completamente disorientate dopo un isolamento che in realtà è stato solo apparente: nel corso delle sedute con Dreyfuss, infatti, si scoprirà che non erano sole. Mama, figura femminile mostruosa, spettro di una donna morta suicida col proprio neonato tra le braccia e dunque avida di riversare un istinto materno tragicamente sottrattole, è colei che le ha accudite durante quei cinque anni e, come in ogni ghost-story che si rispetti, vuole riprendere possesso degli affetti che ormai sente come propri: un rimando dunque, all’archetipo junghiano della “Grande Madre”, nel contempo “amorosa e terribile”, un “materno mostruoso” che ha dominato molte pellicole di genere, da Psycho in avanti.

La pecca principale del narrato si ritrova nel palesare in modo eccessivo la natura spaventevole di Mama, rendendola mostro tout-court senza lavorare su sfumature che sarebbero risultate sicuramente più degne di interesse. Le derivazioni dal j-horror sono evidenti nella figura ciondolante ed emaciata, che, sorprendentemente, non è soltanto artificio digitale bensì è interpretata da un attore in carne e ossa, lo scheletrico Javier Botet, già visto in [REC] nei panni della ragazzina demoniaca.  Interessante, per contro, il personaggio di Annabell, che vediamo evolversi da una sostanziale indifferenza iniziale a “nuova mamma” affettuosa e presente: è proprio questo passaggio, la minaccia rappresentata da una figura muliebre a scatenare le ire dello spettro.
Sottotesti non scontati, che vengono però appiattiti da una patinatezza eccessiva e troppe strizzate d’occhio al box-office. Muschietti si dimostra tuttavia abile nel gestire la tensione, che resta efficace per l’intera durata della pellicola, inficiata però da una sceneggiatura che presenta troppe falle per poter convincere appieno.

Il cortometraggio del 2008, che il regista definisce ora un “esercizio di stile”, possedeva una certa potenza che viene purtroppo a mancare ne La Madre, prodotto standard di livello medio, ben realizzato e confezionato ma privo di quel quid che avrebbe potuto renderlo un’opera interessante e peculiare nel panorama orrorifico odierno.




Chiara Pani
(araknex@email.it)

Titolo originale: Mama
Spagna/Canada - 2013
Regia: Andrés Muschietti
Data di uscita italiana: 21 Marzo 2013
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