martedì 7 febbraio 2012

La mia recensione di "We Are What We Are" (2010) per Horror.it


pubblicata su Horror.it:


http://www.horror.it/a/2012/02/we-are-what-we-are-2010/






We Are What We Are (2010)

Film difficile da definire questo “We Are What We Are” (Somos Lo Que Hay), lungometraggio d’ esordio del regista messicano Jorge Michel Grau (nessuna parentela col quasi omonimo autore de “Non Si Deve Profanare Il Sonno Dei Morti”), pellicola anomala sotto diversi aspetti. Ci si sradica completamente dall’ eredità horror del proprio Paese, sia quella più recente e nota (Guillermo del Toro ed il suo stile cupo e fiabesco), che quella ruspante e squisitamente di serie B degli anni ’50 / ’60, ricordata soprattutto per titoli come “El Vampiro” (1957) di Fernando Mendéz e le pellicole di René Cardona (“La Horripilante Bestia Humana”, del 1969, e la serie di film sull’ eroe mascherato Santo, alle prese di volta in volta con vari ed assortiti mostri). Da non dimenticare anche il figlio di Cardona, René Jr: tra i quasi cento titoli della sua produzione troviamo “Il Triangolo delle Bermude” (1978) e  “La Notte Dei Mille Gatti” (1972).
Una cinematografia, soprattutto quella di Mendèz e di Cardona Senior, realizzata con mezzi poveri, spesso un po’ ingenua, ma genuina, figlia naturale di una Terra perennemente in bilico tra il sole che la brucia e le tenebre delle proprie sinistre leggende.
Il film di Grau si sgancia completamente dai propri predecessori: presentato a Cannes nel 2010, durante la Quinzaine Des Réalisateurs, mira ad un’ autorialità che riesce brillantemente a raggiungere, fallendo però in parte altri obbiettivi. Chi si aspetta un horror nel senso più genuino del termine, rimarrà deluso: Somos Lo Que Hay è più puramente un dramma, ben costruito ed interpretato (magnifico il giovane Francisco Barreiro nel ruolo di Alfredo), che proprio nelle forti tonalità drammatiche è erede naturale di un certo cinema sudamericano, portando in sé il sangue che gronda dalle proprie radici: la povertà, la famiglia e la sua degenerazione, la corruzione sociale, ma soprattutto un indissolubile legame col proprio passato collettivo e le sue macabre e oscure tradizioni.  
Il film si apre con una bellissima sequenza, fortemente simbolica: un uomo si aggira per un centro commerciale, vacillando, in preda a spasmi, fino a cadere a terra esanime. Il cadavere viene immediatamente portato via ed in un batter d’ occhio la donna delle pulizie lava via il sangue che ha vomitato. Dunque, il “brutto”, il povero, il malato, va fatto sparire in nome di una cosiddetta civiltà che di civile, come vedremo, ha ben poco.
La vicenda si snoda attorno ad un nucleo famigliare, composto da due fratelli, Alfredo (Francisco Barreiro) e Julian (Alan Chàvez), la sorella Sabina (Paulina Gaitan) e la madre (Carmen Beato, perfetta nel ruolo ma talvolta troppo sopra le righe), personaggio divorante, duro nell’ animo e nei lineamenti ma al tempo stesso fragile e minato da un dolore che le scorre sottopelle senza darle tregua. L’ uomo del centro commerciale era il padre, che ora li ha lasciati soli, in balìa a problemi economici ma non solo. Egli non era semplicemente il capofamiglia, ma anche colui che governava il loro essere “tribù”, dunque “essere ciò che siamo”, ossia, cannibali.
Cannibalismo affrontato in modo assai diverso rispetto alla maggioranza delle pellicole sull’ argomento, antropofagia come cardine di un “rituale” per loro importantissimo, dal quale dipende la loro sopravvivenza ma la cui origine e natura non ci viene spiegata adeguatamente, lasciando un senso di incompiutezza a quello che dovrebbe essere il testo fondamentale del film. Ci vengono mostrati indizi affascinanti di una ritualità tribale perturbante e seducente, violenta e selvaggia, ma sono come bocconi lasciati a metà. L’ intento di Grau era probabilmente di suggerire senza mostrare troppo, finendo invece per far assaggiare una quantità troppo scarsa che lascia insoddisfatti. Ovviamente, non si parla solo di gore o splatter, presenti a livelli minimi e comunque non fondamentali in una pellicola di questo tipo: uno spunto bello ed interessante come questo avrebbe meritato uno sviluppo più degno, uno spazio più ampio rispetto a pochi risicati minuti. L’ intero film è basato soprattutto sui dialoghi, sui contrastati e morbosi rapporti famigliari: si sente odore di incesto tra i tre fratelli, l’ odio della madre per Alfredo è manifesto così come è chiarissima la predominanza dell’ elemento femminile, le due donne, su quello maschile, in quello che potremmo definire un “matriarcato cannibalico”. Il personaggio di Sabina è ambiguo e talvolta viscido come un serpente, Julian è un violento e Alfredo crolla troppo facilmente. La delineazione dei personaggi è buona, le sfaccettature sono rese a dovere, sebbene si rischi di cadere nello stereotipo.
Non passa inosservata la critica sociale, che vede la forze dell’ ordine messe alla berlina, inseguendo i casi di cannibalismo solo per una ricerca di gloria personale, mostrandoci una polizia corrotta, idiota, completamente marcia, che nel confronto morale con i “cannibali” perde inesorabilmente e con disonore.
L’ epilogo tocca toni tragici e poetici al tempo stesso, con una sequenza finale che può lasciare sostanzialmente perplessi.
L’ ottima regia di Grau salva parzialmente il film, che trova le sue maggiori pecche in una sceneggiatura confusa e in una verbosità eccessiva. Un discorso a parte merita la fotografia: assai bella e luminosa nelle scene diurne, diventa estremamente cupa negli interni notturni, al punto da rendere la visione a tratti quasi difficoltosa. Score perfetto e ridotto all’ osso, che rompe il quasi perenne silenzio del film nei punti giusti ed in modo eclettico, passando da tracce violinistiche a volte dolci, a volte inquietanti, fino ad una splendida versione di “Atardecer Huasteco” che entra letteralmente nell’ anima.
Un film non del tutto risolto, discontinuo ma comunque peculiare, con momenti di assoluta bellezza che si scontrano con un plot a tratti troppo confuso e sfilacciato. In ogni caso da vedere, anche per i suoi difetti, in quanto resta un tipo di cinema a sé stante e difficilmente inquadrabile in un genere. Se solo fosse stato più coraggioso, osando completamente, compiendo un salto invece che un piccolo balzo, scavando invece che mettere solo il dito nella sabbia, quello di Grau sarebbe stato un esordio col botto.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

We Are What We Are
Titolo Originale: Somos Lo Que Hay
Messico - 2010
Regia: Jorge Michel Grau









4 commenti:

  1. wow, wow, quanti film horror vedo qui... grande!!!
    io amo il genere horror, ho una collezione di film di tutti i tipi, da quelli nuovi a quelli in bianco e nero^_^
    complimenti per il blog^^

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  2. Grazie mille Mirella :) innanzitutto, complimenti per i tuoi bellissimi disegni ^^ ho aggiunto il tuo blog ai miei preferiti ^__^

    hehe qui di horror ne trovi tanti, e conta che sono in continuo aumento, spero che troverai pane per i tuoi denti ;)

    Chiara

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  3. Io amo moltissimo gli horror 'classici' e i b-movies del passato, ma purtroppo non mi sento 'in sintonia' con l'horror 'moderno', sarà l'età...

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    1. Ciao Francesca!

      anch' io amo molto gli horror classici e non sono più una giovincella da molto tempo ;) eppure gli horror odierni, se ben fatti, possono piacermi molto. E sottolineo, se ben fatti. Perchè nonostante la media generale sia bassissima, nel sottobosco indipendente le cose buone, a volte ottime, ci sono ancora. Questo film non è perfetto, nè un capolavoro ma credo meriti una visione, per la sua particolarità, per il Paese da cui proviene, per il suo essere saldamente legato alla propria cultura. Siamo ben lontani dai blockbuster patinati e dai remake inutili, per fortuna :)

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