sabato 25 febbraio 2012

La mia nuova recensione di "Kill List" (2011) per CineClandestino

Sono felice di annunciare l' inizio della mia collaborazione con CineClandestino , ottima testata che seguo e stimo da tempo. Per il mio debutto, ho scelto una pellicola da me già recensita, scrivendone ex-novo, in forma completamente diversa ed ampliata. Buona lettura :)


pubblicata su CineClandestino:


http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=10&art=9034




Kill List (2011)




Kill List, ovvero : il potere del passaparola via Web al servizio di un Cinema che rimarrebbe altrimenti sconosciuto, relegato nei circuiti festivalieri, boccone prelibato per non troppi spettatori. Il film, terza opera del britannico Ben Wheatley, già autore della notevole black comedy “Down Terrace” (2009), è ancora inedito in Italia e, probabilmente, destinato a restare tale; il tam tam proveniente dal Regno Unito è stato grande , la pellicola ha riscosso consensi e critiche quasi in pari quantità, dividendo gli spettatori e stuzzicando immancabilmente la curiosità cinefila di chi, come noi italici, può godere della visione unicamente tramite il canale import.
E’ sufficiente digitare le due brevi parole del titolo per trovarsi di fronte a discussioni e speculazioni di ogni sorta che abbattono anche l’ ultimo mattone di dubbio e spingono a voler, assolutamente, vedere Kill List. Piccolo fenomeno di massa, film sopravvalutato o astuta operazione commerciale? Forse ognuna di queste cose, ma non solo; è pellicola comunque di indubbio valore e al tempo stesso, medaglia a due facce, nel prendere un aspetto diverso a seconda che la si veda per la prima, o la seconda volta. L’ opera di Wheatley è un gangster movie con varie diramazioni venose: horror, realismo, ironia ed un sottotesto simbolico che lo spettatore può decidere se accettare, interpretare, o abbandonare totalmente.
Il film si apre su Jay (Neil Maskell, perfetto), un killer “a riposo forzato” da otto mesi; lo scenario è casa sua, la vita famigliare, il rapporto conflittuale con la compagna Shel (MyAnna Buring) e quello col figlio Sammy, in compagnia del quale egli diventa puerile ancor più del bambino stesso. Kill List inizia dunque in un contesto realistico, fatto di dialoghi mai banali e sotteso da una continua, intima tensione: una sorta di “kammerspiel” ad orologeria, pronto ad esplodere da un momento all’ altro.
Entra in scena Gal (Michael Smiley), amico fraterno di Jay nonché suo complice nell’ attività di “hitman”, abbattitore di umani. Fin qui, cinema fortemente britannico in senso tradizionale, nel suo essere quadro di strappi famigliari ed umani, nel quale i personaggi prendono forma: Jay, infantile, iracondo, pregno di una violenza che stenta a soffocare, e Gal, a fargli da forza contraria, anch’ egli killer ma paradossalmente mite, rassegnato, fondamentalmente solo.  Propone a Jay di rimettersi al lavoro, ha qualcosa per le mani, apparentemente routine, che frutterà loro un gruzzolo di cui hanno entrambi un gran bisogno.
Inizia così la spirale discendente dei due protagonisti, di Jay soprattutto ma anche dell’ amico, i cui residui di una qualche sensibilità e di un codice morale sono sempre più in conflitto con ciò che ha attorno e con colui che ha di fronte. Lo spettro di un episodio di otto mesi prima (la durata della pausa di Jay, dunque), i misteriosi fatti di Kiev, che traspaiono come ectoplasmi attraverso parole o foto viste di sfuggita, è sempre presente, minaccia e monito ma anche sottile presagio di ciò che potrebbe accadere di nuovo.
Ecco l’ incarico, ed ecco la Kill List del titolo , l’ elenco dei tre nomi da eliminare, persone che diventano capitoli schematicamente indicati con l’ appellativo della loro mansione: il Prete, il Bibliotecario, e l’ ultimo, il più importante.
Un incontro con i mandanti, dal sapore criptico e ritualistico, dà il via alla loro missione, al progressivo logoramento umano e morale che la accompagna. Una narrazione interessante, uno stile essenziale lontano anni luce dagli ammiccamenti modaioli alla Guy Ritchie, ci accompagna fino al finale, a quel “twist” improvviso e subitaneo che ha esaltato molti, e deluso altrettanti. Kill List assume dunque una luce completamente diversa, il film si carica di simbologie probabilmente più affibbiate che reali (da qui, le varie speculazioni interpretative rintracciabili in Rete), pur se, ad una seconda visione, alcuni elementi che a primo acchito erano passati inosservati o parevano insensati, acquistano un significato differente.
Questa chiave di lettura è, al tempo stesso, punto di forza e tallone d’ Achille del film: lo rende un prodotto atipico, che resta impresso, ma lascia anche molti dubbi e perplessità. Sta allo spettatore dunque, accettarla oppure respingerla, riducendola ad un orpello aggiuntivo: in questo modo comunque, ci si priverebbe di una parte  importante di ciò che si ha di fronte.
Dal punto di vista narrativo, salvo alcuni scivoloni, la sceneggiatura è abbastanza buona, ma alcuni snodi potevano essere sviluppati in modo più completo: l’ analisi del rapporto Jay/Gal è quasi manichea, scevra da sfumature. Non si approfondisce l’ interessante spunto del triangolo Jay/Gal/Shel: la compagna del protagonista e l’ amico sono legati da profondo affetto, cosa ovviamente non troppo gradita a Jay. L’ argomento è solo accennato ma se fosse stato plasmato a dovere, accentuandone la natura ambigua, avrebbe costituito un sottotesto non trascurabile. Shel non è una tranquilla donna di casa, è al corrente dell’ attività del marito e in Svezia, suo paese natale, era nell’ esercito: altra idea con un buon potenziale, che finisce per venire soffocata.
La recitazione è ottima, con attori efficaci e in parte: il volto di Jay, infantile, apparentemente inespressivo, quasi abulico, quello di Gal, segnato e dolente, e Shel, dai lineamenti duri e dal nervosismo perenne.
La regia è abile nell’ inseguire i protagonisti, nel suo scrutarli, e tocca un picco altissimo in una magnifica scena di inseguimento in un cunicolo, che è il momento migliore dell’ intero film; il suono gioca un grosso ruolo, con uno score sordo, allucinato, ed i dialoghi che spesso iniziano prima che termini l’ inquadratura precedente, creando così un senso di spaesamento e di estraneità.
Tra chi urla al capolavoro e chi stronca senza pietà, la pellicola continua a suscitare interesse e anche i più diffidenti finiscono per cedere.  Indipendentemente dal suo valore, che è comunque alto al di là delle evidenti pecche,  Kill List sta raggiungendo il suo scopo: la visibilità. Non è forse ciò che ogni film desidera, semplicemente di essere visto?

Chiara Pani


(araknex@email.it)

Kill List
Uk - 2011
Regia: Ben Wheatley
 








lunedì 13 febbraio 2012

La mia recensione di "Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne" (2011) di David Fincher per Horror.it

pubblicata su Horror.it:





 

Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne (2011)

“Se una donna si accosta a una bestia per accoppiarsi con essa, ucciderai la donna e la bestia e il loro sangue ricadrà su di loro”
                                                                       (Levitico , 20:16)

In questo ed altri versetti del Levitico, non a caso il più fondamentalista fra i libri della Bibbia , è contenuta la chiave di volta per la risoluzione del caso sul quale indagano i due protagonisti di Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne  (“The Girl With The Dragon Tattoo”), l’ ultima e complessa opera di David Fincher. Etichettato in modo sbrigativo come remake dell’ omonima pellicola del 2009, firmata dal danese Niels Arden Oplev e, com’è ormai arcinoto, basata sul primo dei tre romanzi dello scrittore svedese Stieg Larsson, il film di Fincher è assai più di un semplice rifacimento. Innanzitutto, per la stratificazione del narrato: si mette in scena ciò che il cinema ha già mostrato e che, a sua volta, era trasposizione della parola scritta. Fincher, seguendo come sempre la sua visione, si appropria del testo di Larsson, lo reinterpreta, senza snaturarlo, mantenendone inalterati gli equilibri ma, al tempo stesso, offrendone un’ interpretazione completamente altra, inedita, diversa. Una sceneggiatura solida e dal meccanismo perfetto, firmata da Steven Zaillian (“Gangs Of New York”, “Schindler’ s List”) è fondamento indispensabile al lavoro del regista, accompagnandolo ad arte e regalando un risultato al di sopra di ogni aspettativa. E dire che è stato un film su commissione, a detta dello stesso Fincher, dunque non fortemente voluto; ma anche in questo tipo di operazione, il regista non riesce a non essere se stesso, a non infondere gocce della propria poetica tra le righe di un pensiero altrui.

“The Girl With The Dragon Tattoo”, a differenza della maggioranza delle rivisitazioni yankee di film stranieri, è girato nelle locations originali, nell’ algida Svezia, tra Stoccolma ed Hedestad, il luogo immaginario creato da Larsson dove sorge l’ isola di proprietà dei Vanger: dunque, non vi è stato lo sradicamento dalle origini culturali del testo, e ciò ha contribuito non poco al valore del film.
Il cinema di Fincher è da sempre fatto di dettagli, del  piccolo che diventa fondamentale, dei tanti tasselli sparsi che si uniscono a formare un’ incastro inevitabilmente perfetto.  Di tutto questo si compone l’ indagine condotta da Mikael Blomkvist (un efficace Daniel Craig), giornalista della rivista indipendente Millennium, caduto in disgrazia dopo aver tentato di smascherare gli affari sporchi di un miliardario: viene incaricato dal ricchissimo ed anziano industriale Henrik Vanger (Christopher Plummer) di indagare sulla scomparsa della nipote Harriett, avvenuta molti anni prima; l’ uomo è certo che il responsabile della probabile morte della ragazza, sia proprio un Vanger: “ si troverà ad indagare su ladri, avari, prepotenti, la più detestabile collezione di individui che lei abbia mai conosciuto: la mia famiglia”.

Non ha tutti i torti, Henrik Vanger: due nazisti in famiglia non sono esattamente motivo di vanto. Proprio su questo tasto, la sceneggiatura di Zaillian, memore di “Schindler’s List”, spinge particolarmente, mostrando così il marcio dei potenti dietro la patina di perbenismo, un feroce ritratto famigliare nel quale emergono scheletri tenuti nascosti troppo a lungo. Ma non è solo il fine che conta in questo film, è soprattutto il mezzo: è il modo in cui l’ indagine sviene svolta, e qui si torna all’ importanza del particolare, del mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle apparentemente irrisolvibile. La ricerca di Mikael è ossessivamente meticolosa, ricostruisce il giorno della scomparsa di Harriett mediante delle immagini, un susseguirsi di fotografie gelidamente immobili, ma che sono le sole ad essere in grado di dirgli qualcosa (“dove sei finita, Harriett?”, chiede Mikael guardandola stampata su carta).

Ed ecco che subentra lei. Lisbeth Salander. Personaggio già noto al pubblico sia per la trilogia letteraria, sia per il film precedente , grazie all’ ottima interpretazione di Noomi Rapace, a detta di molti ineguagliabile; invece, la scelta di Rooney Mara, già vista in “The Social Network”, si è rivelata assai più che vincente: lei è Lisbeth, in tutto e per tutto. Il personaggio Fincheriano è fisicamente più infantile e fragile, in apparenza indifeso, diafano e dal volto quasi alieno. Recita con gli occhi, con i gesti, resta stampata nella memoria fin dalla sua prima apparizione: convocata per incontrare Frode (Steven Berkoff), l’ avvocato di Vanger, al fine di affidarle il compito di indagare su Blomkvist a titolo cautelativo, prima di investirlo dell’ incarico riguardante Harriett (dunque le ricerche si fanno molteplici, si avvolgono l’ una attorno all’ altra), si siede di profilo, quasi senza guardarli, le sue risposte sono brusche, brevi, sfuggenti. Lisbeth indaga sulle persone senza avere contatti con a loro, a distanza, intrufolandosi nei loro computer, spiandole; è il suo modo di conoscere gli altri, senza che loro debbano vederla. Non permette a nessuno di avvicinarsi troppo a lei: il suo abbigliamento, i tatuaggi, i piercing, fanno parte della sua corazza.
Lisbeth viene ferita, anche davanti a noi, la scena dello stupro da parte del suo nuovo tutore non si dimentica facilmente. Ma la sua vendetta è catarsi pura , una sequenza di malata bellezza, nella quale da vittima diventa carnefice per riprendersi semplicemente ciò che le spetta, poiché quell’ uomo aveva congelato i suoi guadagni, costringendola a rivolgersi a lui per ogni esigenza economica, in cambio di favori sessuali. Il favore diventa aggressione e la risposta di Lisbeth è un occhio per occhio che consacra, definitivamente, la nostra completa empatia verso di lei.
Fincher è comunque attento a fare in modo che il personaggio non fagociti completamente il film: infatti, l’attenzione si focalizza sul rapporto con Mikael, e sul suo graduale scongelarsi di fronte a quest’ uomo. Al loro primo incontro, la Salander è come sempre sulla difensiva, ha con sé l’ inseparabile taser, l’ immobilizzatore: “se mi tocchi, ti ritrovi più che allarmato”; nel condurre le indagini fianco a fianco la ragazza accorcia le distanze, dapprima sessualmente, poi a livello umano, fino ad accennare a Blomkvist del proprio passato, di cui non è difficile intuire la tragicità.
Le ricerche si snodano attraverso quel covo di serpenti qual è la famiglia Vanger, passando per la folle solitudine di un criminale nazista passando per Martin (Stellan Skarsgård), erede dell’ impero industriale e fratello di Harriett.

Il finale, è la vera sorpresa: slegato sia dal libro che dal film precedente, è puro cinema di emozioni senza essere patetico o dai facili sentimentalismi. Una chiusa perfetta, sulle note della cover di “Is Your Love Strong Enough?” di Bryan Ferry riveduta dai How To Destroy Angels, progetto di Trent Reznor e Atticus Ross, autori dell’ intera colonna sonora del film; si inizia col lungo urlo digitalizzato dei titoli di testa e si conclude nel silenzio e in un interminabile sguardo ad occhi sgranati.

Eccellente il cast, la già citata Rooney Mara su tutti, il buon Daniel Craig a tenerle testa, i magnifici Christopher Plummer e Steven Berkoff, Robin Wright, nel ruolo un po’ sommesso di Erika Berger, socia di Blomkvist nella rivista Millennium e sua amante, ed il superbo Stellan Skarsgård.

I luoghi, gli spazi, sono anch’ essi protagonisti del film: l’ isola, la casa di Martin, interamente fatta di vetrate, dunque (in apparenza) del tutto visibile allo sguardo, la dimora di Henrik Vanger, triste dimensione di una solitaria memoria ed il cottage dove vive Mikael, in seguito raggiunto da Lisbeth: le pareti tappezzate da fotografie, appunti, vero spazio-testimonianza di ciò che sta venendo a galla.

Il montaggio è affidato ancora una volta ad Angus Wall (insieme a Kirk Baxter), già premio Oscar per “The Social Network”, e la fotografia è opera di Jeff Cronenweth, alla sua terza collaborazione con Fincher (“Fight Club”, “The Social Network”), capace di dare all’ immagine una qualità empatica, in linea con i differenti toni emotivi della pellicola.
Ottimo lo score, del già citato duo Reznor/Ross, ma su questo punto il film precedente era nettamente superiore, con le superbe partiture orchestrali scritte da Jacob Groth.
Un’ opera importante questo “Girl With The Dragon Tattoo”, da vedere a mente libera, cercando di mettere da parte sia il libro che l’ altro film, per considerarla ciò che è in realtà, un’ opera a sé stante: rilettura di qualcosa di già scritto ma filtrata attraverso l’ occhio di un talento non comune.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

Millennium - Uomini Che Odiano Le Donne
Titolo Originale: The Girl With The Dragon Tattoo
Usa/Svezia/Uk/Germania - 2011
Regia: David Fincher











martedì 7 febbraio 2012

La mia recensione di "We Are What We Are" (2010) per Horror.it


pubblicata su Horror.it:


http://www.horror.it/a/2012/02/we-are-what-we-are-2010/






We Are What We Are (2010)

Film difficile da definire questo “We Are What We Are” (Somos Lo Que Hay), lungometraggio d’ esordio del regista messicano Jorge Michel Grau (nessuna parentela col quasi omonimo autore de “Non Si Deve Profanare Il Sonno Dei Morti”), pellicola anomala sotto diversi aspetti. Ci si sradica completamente dall’ eredità horror del proprio Paese, sia quella più recente e nota (Guillermo del Toro ed il suo stile cupo e fiabesco), che quella ruspante e squisitamente di serie B degli anni ’50 / ’60, ricordata soprattutto per titoli come “El Vampiro” (1957) di Fernando Mendéz e le pellicole di René Cardona (“La Horripilante Bestia Humana”, del 1969, e la serie di film sull’ eroe mascherato Santo, alle prese di volta in volta con vari ed assortiti mostri). Da non dimenticare anche il figlio di Cardona, René Jr: tra i quasi cento titoli della sua produzione troviamo “Il Triangolo delle Bermude” (1978) e  “La Notte Dei Mille Gatti” (1972).
Una cinematografia, soprattutto quella di Mendèz e di Cardona Senior, realizzata con mezzi poveri, spesso un po’ ingenua, ma genuina, figlia naturale di una Terra perennemente in bilico tra il sole che la brucia e le tenebre delle proprie sinistre leggende.
Il film di Grau si sgancia completamente dai propri predecessori: presentato a Cannes nel 2010, durante la Quinzaine Des Réalisateurs, mira ad un’ autorialità che riesce brillantemente a raggiungere, fallendo però in parte altri obbiettivi. Chi si aspetta un horror nel senso più genuino del termine, rimarrà deluso: Somos Lo Que Hay è più puramente un dramma, ben costruito ed interpretato (magnifico il giovane Francisco Barreiro nel ruolo di Alfredo), che proprio nelle forti tonalità drammatiche è erede naturale di un certo cinema sudamericano, portando in sé il sangue che gronda dalle proprie radici: la povertà, la famiglia e la sua degenerazione, la corruzione sociale, ma soprattutto un indissolubile legame col proprio passato collettivo e le sue macabre e oscure tradizioni.  
Il film si apre con una bellissima sequenza, fortemente simbolica: un uomo si aggira per un centro commerciale, vacillando, in preda a spasmi, fino a cadere a terra esanime. Il cadavere viene immediatamente portato via ed in un batter d’ occhio la donna delle pulizie lava via il sangue che ha vomitato. Dunque, il “brutto”, il povero, il malato, va fatto sparire in nome di una cosiddetta civiltà che di civile, come vedremo, ha ben poco.
La vicenda si snoda attorno ad un nucleo famigliare, composto da due fratelli, Alfredo (Francisco Barreiro) e Julian (Alan Chàvez), la sorella Sabina (Paulina Gaitan) e la madre (Carmen Beato, perfetta nel ruolo ma talvolta troppo sopra le righe), personaggio divorante, duro nell’ animo e nei lineamenti ma al tempo stesso fragile e minato da un dolore che le scorre sottopelle senza darle tregua. L’ uomo del centro commerciale era il padre, che ora li ha lasciati soli, in balìa a problemi economici ma non solo. Egli non era semplicemente il capofamiglia, ma anche colui che governava il loro essere “tribù”, dunque “essere ciò che siamo”, ossia, cannibali.
Cannibalismo affrontato in modo assai diverso rispetto alla maggioranza delle pellicole sull’ argomento, antropofagia come cardine di un “rituale” per loro importantissimo, dal quale dipende la loro sopravvivenza ma la cui origine e natura non ci viene spiegata adeguatamente, lasciando un senso di incompiutezza a quello che dovrebbe essere il testo fondamentale del film. Ci vengono mostrati indizi affascinanti di una ritualità tribale perturbante e seducente, violenta e selvaggia, ma sono come bocconi lasciati a metà. L’ intento di Grau era probabilmente di suggerire senza mostrare troppo, finendo invece per far assaggiare una quantità troppo scarsa che lascia insoddisfatti. Ovviamente, non si parla solo di gore o splatter, presenti a livelli minimi e comunque non fondamentali in una pellicola di questo tipo: uno spunto bello ed interessante come questo avrebbe meritato uno sviluppo più degno, uno spazio più ampio rispetto a pochi risicati minuti. L’ intero film è basato soprattutto sui dialoghi, sui contrastati e morbosi rapporti famigliari: si sente odore di incesto tra i tre fratelli, l’ odio della madre per Alfredo è manifesto così come è chiarissima la predominanza dell’ elemento femminile, le due donne, su quello maschile, in quello che potremmo definire un “matriarcato cannibalico”. Il personaggio di Sabina è ambiguo e talvolta viscido come un serpente, Julian è un violento e Alfredo crolla troppo facilmente. La delineazione dei personaggi è buona, le sfaccettature sono rese a dovere, sebbene si rischi di cadere nello stereotipo.
Non passa inosservata la critica sociale, che vede la forze dell’ ordine messe alla berlina, inseguendo i casi di cannibalismo solo per una ricerca di gloria personale, mostrandoci una polizia corrotta, idiota, completamente marcia, che nel confronto morale con i “cannibali” perde inesorabilmente e con disonore.
L’ epilogo tocca toni tragici e poetici al tempo stesso, con una sequenza finale che può lasciare sostanzialmente perplessi.
L’ ottima regia di Grau salva parzialmente il film, che trova le sue maggiori pecche in una sceneggiatura confusa e in una verbosità eccessiva. Un discorso a parte merita la fotografia: assai bella e luminosa nelle scene diurne, diventa estremamente cupa negli interni notturni, al punto da rendere la visione a tratti quasi difficoltosa. Score perfetto e ridotto all’ osso, che rompe il quasi perenne silenzio del film nei punti giusti ed in modo eclettico, passando da tracce violinistiche a volte dolci, a volte inquietanti, fino ad una splendida versione di “Atardecer Huasteco” che entra letteralmente nell’ anima.
Un film non del tutto risolto, discontinuo ma comunque peculiare, con momenti di assoluta bellezza che si scontrano con un plot a tratti troppo confuso e sfilacciato. In ogni caso da vedere, anche per i suoi difetti, in quanto resta un tipo di cinema a sé stante e difficilmente inquadrabile in un genere. Se solo fosse stato più coraggioso, osando completamente, compiendo un salto invece che un piccolo balzo, scavando invece che mettere solo il dito nella sabbia, quello di Grau sarebbe stato un esordio col botto.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

We Are What We Are
Titolo Originale: Somos Lo Que Hay
Messico - 2010
Regia: Jorge Michel Grau









giovedì 2 febbraio 2012

Il mio articolo su David Fincher per Nocturno.it

pubblicato su Nocturno.it:

http://www.nocturno.it/news/david-fincher-regista-del-millennium




David Fincher 


Il cinema di David Fincher ha spesso cambiato pelle nel corso degli anni, spaziando nei generi e nelle soluzioni stilistiche, reinventandosi ed evolvendosi ma rimanendo sempre fedele a se stesso, alla propria identità. E quella dell’ identità è una delle tematiche centrali non solo del suo cinema ma anche del suo essere cineasta: Fincher si appropria completamente di ogni testo che porta sullo schermo, lo rende suo,  infondendovi il proprio essere. Il regista statunitense ha sempre lavorato su sceneggiature firmate da altri, che ha reso proprie effettuandone una sorta di seconda scrittura tramite la sua, personalissima, visione. La scelta dei testi non è mai stata casuale, ha sempre seguito la sua personale poetica: piuttosto che adattarsi agli script, ha sempre fatto in modo che essi si adattassero a lui e ai discorsi fondamentali della sua cinematografia.
Troviamo così tematiche ricorrenti in film, in apparenza, molto diversi tra loro: a cominciare dagli universi a maggioranza maschile, nei quali il rapporto uomo/uomo è in molti casi conflittuale ( per poi evolversi, come per Mills/Somerset in Seven ), vedendo spesso un dominante e un dominato scambiarsi vicendevolmente i propri ruoli nel corso del racconto ( The Social Network, Zodiac, nella correlazione Graysmith/Avery, e ovviamente, in modo più complesso, Fight Club ) ; la già citata identità, uno dei perni del suo discorso cinematografico: dal film d’ esordio Alien 3,  soffermandosi su Seven, con un killer dal nome John Doe in una città anonima, nella quale l’ apatia e l’ indifferenza (altre tematiche basilari) tentano di soffocare ogni traccia d’ umanità. Fight Club ne è il manifesto, con la ricerca del proprio io che diventa ossessione: dalle molteplici, finte identità assunte nei gruppi di auto-aiuto fino all’ incarnazione di ciò che si vorrebbe essere in un doppio dalla personalità debordante, e un’ identità collettiva, il Progetto Mayhem, che è prigionia travestita da libertà.
Lo scavare verso le proprie profondità passa attraverso un’ ossessionarsi  (Zodiac), che è consunzione di sè e del proprio corpo, autodistruzione come metodo costruttivo che porta allo stravolgimento di una vita ordinaria: in apparenza rovina, in realtà rinascita.
La paura, in Fincher: di se stessi, e soprattutto degli altri. I suoi personaggi sono soli, isolati. La Lisbeth di Millennium aggredisce perché teme di essere ferita, allontana il prossimo ma si avvicina ad esso attraverso il suo lavoro: indagare sugli altri è il suo modo di conoscerli, più a fondo di chiunque altro, senza che lei debba lasciarsi conoscere da loro.
Gli elementi visivi sono fondamentali: la fotografia  (negli ultimi due film ritroviamo Jeff Cronenweth, già mago dell’ immagine in Fight Club), fortemente connotata, che passa da toni seppiati e intimisti a colori gelidi, vero termometro degli umori narrativi;  le trovate registiche innovative, come il particolare uso della soggettiva, abilissime, talvolta geniali. Le musiche: per anni affidate al grande Howard Shore, nelle ultime due pellicole godono del felice sodalizio con Trent Reznor e Atticus Ross.
Fincher ha spesso lavorato su script tratti da testi letterari: Fight Club, Zodiac, Il Curioso Caso di Benjamin Button, The Social Network e il recentissimo e splendido Millennium – Uomini Che Odiano Le Donne. Non semplici trasposizioni ma reinterpretazioni dello scritto in chiave Fincheriana, riuscendo, talvolta, nella difficile impresa di migliorarlo attraverso le immagini.
Il suo discorso sul romanzo di Stieg Larsson è uno scavare più a fondo, un’ indagine su un testo che parla, esso stesso, dell’ indagare alla ricerca della verità.  Il film è l’ ennesimo mutamento di pelle, ritroviamo uno stile più lineare a rappresentare una narrazione complessa, stratificata e dal meccanismo perfetto.
Nove film nell’ arco di vent’ anni esatti, nove capitoli di una poetica che è mutevole nella forma ma non nella propria e prepotentemente unica identità.

Chiara Pani
(araknex@email.it)