Sono felice di annunciare l' inizio della mia collaborazione con CineClandestino , ottima testata che seguo e stimo da tempo. Per il mio debutto, ho scelto una pellicola da me già recensita, scrivendone ex-novo, in forma completamente diversa ed ampliata. Buona lettura :)
pubblicata su CineClandestino:
http://www.cineclandestino.it/articolo.asp?sez=10&art=9034
Kill List (2011)
Kill List, ovvero : il potere del passaparola via Web al servizio di un Cinema che rimarrebbe altrimenti sconosciuto, relegato nei circuiti festivalieri, boccone prelibato per non troppi spettatori. Il film, terza opera del britannico Ben Wheatley, già autore della notevole black comedy “Down Terrace” (2009), è ancora inedito in Italia e, probabilmente, destinato a restare tale; il tam tam proveniente dal Regno Unito è stato grande , la pellicola ha riscosso consensi e critiche quasi in pari quantità, dividendo gli spettatori e stuzzicando immancabilmente la curiosità cinefila di chi, come noi italici, può godere della visione unicamente tramite il canale import.
E’ sufficiente digitare le due brevi parole del titolo per trovarsi di fronte a discussioni e speculazioni di ogni sorta che abbattono anche l’ ultimo mattone di dubbio e spingono a voler, assolutamente, vedere Kill List. Piccolo fenomeno di massa, film sopravvalutato o astuta operazione commerciale? Forse ognuna di queste cose, ma non solo; è pellicola comunque di indubbio valore e al tempo stesso, medaglia a due facce, nel prendere un aspetto diverso a seconda che la si veda per la prima, o la seconda volta. L’ opera di Wheatley è un gangster movie con varie diramazioni venose: horror, realismo, ironia ed un sottotesto simbolico che lo spettatore può decidere se accettare, interpretare, o abbandonare totalmente.
Il film si apre su Jay (Neil Maskell, perfetto), un killer “a riposo forzato” da otto mesi; lo scenario è casa sua, la vita famigliare, il rapporto conflittuale con la compagna Shel (MyAnna Buring) e quello col figlio Sammy, in compagnia del quale egli diventa puerile ancor più del bambino stesso. Kill List inizia dunque in un contesto realistico, fatto di dialoghi mai banali e sotteso da una continua, intima tensione: una sorta di “kammerspiel” ad orologeria, pronto ad esplodere da un momento all’ altro.
Entra in scena Gal (Michael Smiley), amico fraterno di Jay nonché suo complice nell’ attività di “hitman”, abbattitore di umani. Fin qui, cinema fortemente britannico in senso tradizionale, nel suo essere quadro di strappi famigliari ed umani, nel quale i personaggi prendono forma: Jay, infantile, iracondo, pregno di una violenza che stenta a soffocare, e Gal, a fargli da forza contraria, anch’ egli killer ma paradossalmente mite, rassegnato, fondamentalmente solo. Propone a Jay di rimettersi al lavoro, ha qualcosa per le mani, apparentemente routine, che frutterà loro un gruzzolo di cui hanno entrambi un gran bisogno.
Inizia così la spirale discendente dei due protagonisti, di Jay soprattutto ma anche dell’ amico, i cui residui di una qualche sensibilità e di un codice morale sono sempre più in conflitto con ciò che ha attorno e con colui che ha di fronte. Lo spettro di un episodio di otto mesi prima (la durata della pausa di Jay, dunque), i misteriosi fatti di Kiev, che traspaiono come ectoplasmi attraverso parole o foto viste di sfuggita, è sempre presente, minaccia e monito ma anche sottile presagio di ciò che potrebbe accadere di nuovo.
Ecco l’ incarico, ed ecco la Kill List del titolo , l’ elenco dei tre nomi da eliminare, persone che diventano capitoli schematicamente indicati con l’ appellativo della loro mansione: il Prete, il Bibliotecario, e l’ ultimo, il più importante.
Un incontro con i mandanti, dal sapore criptico e ritualistico, dà il via alla loro missione, al progressivo logoramento umano e morale che la accompagna. Una narrazione interessante, uno stile essenziale lontano anni luce dagli ammiccamenti modaioli alla Guy Ritchie, ci accompagna fino al finale, a quel “twist” improvviso e subitaneo che ha esaltato molti, e deluso altrettanti. Kill List assume dunque una luce completamente diversa, il film si carica di simbologie probabilmente più affibbiate che reali (da qui, le varie speculazioni interpretative rintracciabili in Rete), pur se, ad una seconda visione, alcuni elementi che a primo acchito erano passati inosservati o parevano insensati, acquistano un significato differente.
Questa chiave di lettura è, al tempo stesso, punto di forza e tallone d’ Achille del film: lo rende un prodotto atipico, che resta impresso, ma lascia anche molti dubbi e perplessità. Sta allo spettatore dunque, accettarla oppure respingerla, riducendola ad un orpello aggiuntivo: in questo modo comunque, ci si priverebbe di una parte importante di ciò che si ha di fronte.
Dal punto di vista narrativo, salvo alcuni scivoloni, la sceneggiatura è abbastanza buona, ma alcuni snodi potevano essere sviluppati in modo più completo: l’ analisi del rapporto Jay/Gal è quasi manichea, scevra da sfumature. Non si approfondisce l’ interessante spunto del triangolo Jay/Gal/Shel: la compagna del protagonista e l’ amico sono legati da profondo affetto, cosa ovviamente non troppo gradita a Jay. L’ argomento è solo accennato ma se fosse stato plasmato a dovere, accentuandone la natura ambigua, avrebbe costituito un sottotesto non trascurabile. Shel non è una tranquilla donna di casa, è al corrente dell’ attività del marito e in Svezia, suo paese natale, era nell’ esercito: altra idea con un buon potenziale, che finisce per venire soffocata.
La recitazione è ottima, con attori efficaci e in parte: il volto di Jay, infantile, apparentemente inespressivo, quasi abulico, quello di Gal, segnato e dolente, e Shel, dai lineamenti duri e dal nervosismo perenne.
La regia è abile nell’ inseguire i protagonisti, nel suo scrutarli, e tocca un picco altissimo in una magnifica scena di inseguimento in un cunicolo, che è il momento migliore dell’ intero film; il suono gioca un grosso ruolo, con uno score sordo, allucinato, ed i dialoghi che spesso iniziano prima che termini l’ inquadratura precedente, creando così un senso di spaesamento e di estraneità.
Tra chi urla al capolavoro e chi stronca senza pietà, la pellicola continua a suscitare interesse e anche i più diffidenti finiscono per cedere. Indipendentemente dal suo valore, che è comunque alto al di là delle evidenti pecche, Kill List sta raggiungendo il suo scopo: la visibilità. Non è forse ciò che ogni film desidera, semplicemente di essere visto?
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Kill List
Uk - 2011
Regia: Ben Wheatley