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Venerdì 13 (1980)
Film a suo modo atipico, nel filone degli slasher movies, questo primo capitolo della lunga saga di Venerdì 13, firmato da Sean S. Cunningham, già produttore del cult “L’ Ultima Casa a Sinistra” (1972), di Wes Craven. Atipico, poiché segna la nascita di un “nuovo mostro”, senza mai mostrarlo. L’ icona Jason Voorhees, infatti, si manifesterà, così come noi la conosciamo, monolitica nella sua maschera da hockey, solo dal secondo film, il sequel “Venerdì 13: L’ Assassino Ti Siede Accanto” (1981), per la regia di Steve Miner (qui nelle vesti di produttore associato) . Il primo capitolo narra la storia, l’antefatto, getta le basi per quella che diventerà una delle saghe più lunghe, e discontinue, della cinematografia orrorifica odierna. Pellicola dunque, assai più complessa di quel che possa sembrare a primo acchito, che acquista fascino se rivista dopo anni, e dopo gli innumerevoli e spesso inutili sequel; in realtà, la lunga serie non era nei progetti dei produttori della pellicola: Jason doveva solo essere una sorta di elemento accessorio nella trama, la motivazione a monte degli omicidi compiuti dalla madre, la folle Mrs. Voorhees.
Come molte pellicole dell’ epoca, venne girato in tempi brevissimi, 28 giorni, e con un budget basso, 550.000 dollari, registrando poi vertiginosi incassi al botteghino.
Il film segue dichiaratamente la scia del successo di “Halloween” di John Carpenter, per ammissione dello sceneggiatore Victor Miller: oltre che proseguire nell’ ottica slasher inaugurata dal capolavoro Carpenteriano, anche qui ritroviamo la soggettiva dell’ assassino, dunque la messa in moto del processo di identificazione da parte dello spettatore, in maniera meno raffinata rispetto al suo predecessore, ma in ogni caso efficace.
Gli effetti speciali sono opera del grande Tom Savini, chiamato dai produttori entusiasmati dal suo lavoro in “Dawn Of The Dead” di Romero: anche qui l’ artista dell‘ effetto gruesome non si smentisce, rendendo le uccisioni credibili, senza eccedere nello splatter.
Gli attori sono per lo più sconosciuti al grande pubblico, ad eccezione di Kevin Bacon, qui in una delle sue primissime pellicole: spontaneo il paragone con l’esordio di Johnny Depp in Nightmare, altra star lanciata da un horror low budget.
Il plot è semplice, nel suo seguire le linee guida di molti horror tradizionali ma al tempo stesso ridettandole: moltissimi slasher successivi infatti, si ispirano dichiaratamente a questo film, sia nell’ impianto narrativo che nelle ambientazioni; un capostipite dunque, spesso ingiustamente sottovalutato.
Il film è ambientato in un campeggio, l’ ormai famigerato Camp Crystal Lake (che nel doppiaggio italiano diventa l’ improbabile “Campo Lago Cristallo”, spingendoci a chiederci perché gli adattatori dei dialoghi non riescano a cogliere il semplicissimo concetto di lasciare i nomi propri delle cose così come sono), e si apre con un flashback che ci riporta al 1958, con l’ uccisione di due ragazzi ospiti del campo. L’antefatto suggerisce ma non svela, gettando un’ aura macabra sul luogo, visto come maledetto e “jellato” dagli abitanti del paese vicino; la riapertura del campeggio, ad opera di Steve Christy (Peter Brouwer) , è considerata un’ impresa folle e scellerata.
La lunga serie di uccisioni inizia quasi subito, a partire dalla ragazza che si sta recando a Crystal Lake per lavorare come cuoca (la stessa mansione ricoperta, anni prima, dalla Signora Voorhees), e passando in rassegna, uno alla volta, come in una macabra parata, gli ospiti del Camp, un gruppo di ragazzi anch’ essi andati lì per lavorare, poiché la struttura ancora non è stata inaugurata.
La tensione è alta, merito anche di una buona regia e di una sceneggiatura comunque efficace nella sua semplicità: il largo uso della soggettiva del killer ci mostra le vittime perennemente osservate, rendendo assai bene il senso di minaccia incombente, di presagio sinistro. Gli omicidi sono ripresi in modo originale (si pensi a quello del personaggio di Kevin Bacon, infilzato da sotto il letto, a suggerirci che l’assassino si trovava lì da chissà quanto tempo), e a volte con grande tecnica: l’ uccisione della ragazza in bagno, proprio nel momento in cui pensa che la sua paura sia solo autosuggestione, omicidio preannunciato dall’ ombra dell’ ascia alle sue spalle, e reso in maniera eccellente dal montaggio che alterna la messa in campo della morte all’ inquadratura del lampadario ciondolante, come ad illudere lo spettatore che nulla verrà mostrato, ma è illusione breve, poiché l’immagine dell’ ascia conficcata in pieno volto si staglia rapida ed impietosa sullo schermo.
Ci sono i pattern tipici dell’ horror, ad esempio nella figura del pazzo del paese, Ralph, che si presenta al campeggio annunciando sciagure e morte certa, ed ovviamente non viene ascoltato. L’ uccisione dei protagonisti è spesso immediatamente successiva all’ atto sessuale, anche questo stereotipo della maggioranza delle produzioni horror degli anni ’80: come già detto in altre occasioni, sarebbe inutile e noioso perdersi in disquisizioni teoriche sull’ argomento. Va detto però che in questo caso il concetto è funzionale alla storia, poiché lo ritroviamo, a fine film, nelle parole della stessa signora Voorhees :”si erano distratti dalla sorveglianza perché stavano facendo l’ amore mentre quel povero bambino annegava”.
Proprio nel finale troviamo il nodo principale del plot, la spiegazione di ciò che è accaduto, non solo lo svelarsi dell’ identità del killer e le sue motivazioni ma anche un accenno a ciò che è avvenuto prima, e che segnerà lo svolgersi dei successivi capitoli della serie. Si getta dunque il seme per l’ intera saga, qui ancora più marcatamente rispetto alle altre produzioni seriali, poiché il protagonista non è ancora fisicamente presente bensì, come già detto, rappresenta soltanto un pretesto narrativo che acquisterà forma e forza nei film successivi. Ma è un pretesto fondamentale: Mrs Voorhees (interpretata da Betsy Palmer) è folle per la perdita del figlio, avvenuta nel 1958, anno dell’ antefatto mostrato a inizio film. Dalle sue parole, apprendiamo che Jason è annegato nel lago, poiché nessuno sorvegliava a dovere: la rabbia, il dolore, l’hanno resa ciò che è. Alcuni nodi fondamentali ancora non ci vengono svelati, ed in questo il secondo capitolo può essere visto come necessario, per dare completezza alla storia (così come è avvenuto in “Halloween”: apprendiamo del legame parentale tra Laurie e Myers solo nel secondo film, e ciò spiega molto di ciò che nel primo era rimasto insoluto): elementi importanti come la macabra dinamica della morte di Jason e la sua condizione mentale restano per ora nascosti.
Questo importante sottotesto va molto al di là del prototipo slasher e di ciò che il povero Jason è diventato nei film successivi, ossia un personaggio ai limiti del ridicolo, che si limita ad ammazzare a colpi di machete, senza una spiegazione, spesso senza una trama degna di questo nome. Il seme della storia era dunque importante e assai ben congegnato: come troppo spesso accade nelle saghe filmiche, il tutto si è perso, rendendo Jason icona del genere anche nel senso negativo del termine, sterile prototipo del killer in maschera che agisce per vendetta in film che si basano solo sul bodycount, dunque sulla quantità di cadaveri accumulati nel corso della narrazione.
Il finale è inquietante (tra l’altro frutto di un’ idea di Tom Savini), non è smaccatamente aperto ma comunque non chiude definitivamente la storia. E’, a suo modo, ambiguo.
Importante la figura di Alice (una brava Adrienne King), unica sopravvissuta al massacro e anche lei, come la Laurie di Halloween e la Nancy di Nightmare, coraggiosa e giovane eroina che rappresenta la forza del Femminile, qui in lotta non contro un minaccioso Maschile bensì con l’altra faccia della stessa forza, ossia un Femminile deviato e reso folle dal desiderio di vendetta. Uno spunto assai interessante, purtroppo poco sviluppato.
Bellissimo e disturbante lo score musicale, ad opera di Harry Manfredini: un minimale vocalizzo con un effetto delay, che viene percepito come “chi chi chi, ha ha ha”, ma che in realtà, stando alle parole dello stesso compositore, suona come “ki ki ki, ma ma ma”, in richiamo al tormentone sonoro che sentiamo a fine film per bocca della Signora Voorhees, in originale “Kill kill kill, mom mom mom”, ossia quell’ inquietante “Uccidila mamma uccidila!” che la donna recita in falsetto, come se le parole del figlio morto uscissero dalle sue labbra.
Un film dunque importante, più di quanto comunemente si pensi; la percezione della pellicola da parte dello spettatore cambia con gli anni: visto in età adolescenziale molti significati non vengono colti, la visione in età adulta lo valorizza, e permette di comprenderlo in maniera più completa ed articolata. Un ottimo inizio successivamente svilito da un numero impressionante di seguiti (attualmente,la saga conta ben 10 film, più il divertente spin-off “Freddy Vs Jason” ed il debolissimo remake del primo film, realizzato nel 2009 dall’ “operaio specializzato in rifacimenti” Marcus Nispel), che ancora una volta hanno spremuto il personaggio fino all’ osso, collocandolo nelle situazioni più improbabili, dall’ Inferno allo spazio. L’ ennesima lezione sull’ inutilità di collezionare sequel col solo fine di fare un po’ di bottino al box office, lezione che ovviamente non viene mai seguita a dovere. Perseverare, si sa, non è umano.
Chiara Pani
(araknex@email.it)
Titolo Originale: Friday The 13th
USA - 1980
Regia: Sean S. Cunningham