venerdì 27 aprile 2012

La mia recensione di Livid (Livide) - 2011 - di Alexandre Bustillo e Julien Maury

Dopo una lunga latitanza, tra tutte le mie felici collaborazioni, rieccomi a postare un recensione solo per il blog: Livid, l' ultima opera dei francesi Bustillo e Maury. Buona lettura :)







Livid (Livide) (2011)



Opera già molto discussa questo Livid, targata 2011 e firmata da Alexandre Bustillo e Julien Maury, autori del visionario ed interessante À L’ Intérieur (2007) ; oggetto di controversie, sebbene non ancora distribuita nelle sale italiane (non è prevista per il momento un’ uscita nel nostro Paese) e proiettata soltanto in alcuni festival internazionali.

Il secondo film dei due registi francesi esaspera il gusto visivo mostrato nella pellicola precedente, rasentando talvolta l’ autocompiacimento e rendendosi in tal modo più vicino alla videoarte, dunque all’ immagine fine a se stessa, piuttosto che funzionale alla narrazione. Il difetto principale di Livid sta nella sua colonna vertebrale, ossia la sceneggiatura, debole e talvolta sfilacciata: nonostante qualche buona trovata, il canovaccio narrativo presenta troppe incongruenze ed è troppo piegato ai voleri della Visione per poter essere considerato di buona fattura.

La pellicola parte bene, nella cornice di un suggestivo villaggio di pescatori, presentandoci la giovane infermiera Lucie (una brava Chloé Coulloud), alle prese col suo primo giorno di lavoro, guidata da Wilson (Catherine Jacob), donna all’ apparenza estroversa e dai modi decisi. Il compito non è dei più semplici, assistenza a domicilio di pazienti per lo più in stato vegetativo: è così che giungono alla villa di Madame Jessel (Maire-Claude Pietragalla), una magione spettrale che fu spauracchio d’ infanzia della ragazza e dei suoi amici. L’ anziana Jessel è ora in coma irreversibile, e nella stanza risuonano le parole di Wilson sul glorioso passato della donna come insegnante di danza classica, sulla misteriosa sparizione della figlia Anna, e soprattutto, sulla sua immensa ricchezza e sul tesoro che sarebbe celato in qualche recesso dell’ enorme tenuta.

Lucie racconta tutto al fidanzato che la convince ad introdursi nella casa, insieme ad un terzo amico, a caccia del misterioso tesoro. Inutile dire che per i tre giovani sarà l’ inizio del solito incubo.
Come si potrà notare, il plot è assai scontato, quasi elementare. Gli sviluppi successivi, ciò che avverrà ai tre giovani all’ interno di villa Jessel, mescolano spunti interessanti (i flashback su Madame e la figlia Anna) ad altri francamente improbabili, che sottraggono credibilità alla narrazione. Alcune sequenze sono pura meraviglia visiva, architettate ad arte, ed il talento di Bustillo e Maury esplode in maniera prepotente. Ma uno script robusto sarebbe stato ossatura indispensabile , e si finisce per trovarsi davanti ad una serie di magnifiche immagini con una base troppo fragile.

Ci sono rimandi all’ horror italiano anni ‘ 70, anche se i reiterati paragoni con Suspiria sono stati troppo facili e raffazzonati, basati unicamente sull’ elemento della scuola di danza: tolto questo, non vi sono molte similitudini col capolavoro argentiano. C’è anche qualche idea da Bava ma i due registi guardano più che altro a loro stessi, in una sorta di presunzione visiva che può dare fastidio a molti, ma piacere ad altri. L’ insieme è patinato e al tempo stesso malsano, può risultare terribilmente irritante per alcuni, ma stregare fatalmente una buona fetta di spettatori. Un impianto visionario da fiaba nerissima con pupazzi meccanici, carillon viventi, una donna/strega mostruosa, forse un po’ troppo “aliena” . Una superba prima scena di omicidio che ci riporta all’ immaginario argentiano e suggestioni steampunk che brillano di luce propria in una sequenza successiva che rappresenta una della maggiori cadute narrative del film.

La magnifica fotografia, firmata, come nel film precedente, da Laurent Barès, è uno dei punti di forza: livida, è la prima parola che salta in mente, scurita, seppiata in alcuni punti, fredda ed angosciante in altri.
La splendida Beatrice Dalle, che dominava, folle ed incontrastata, À L’ Intérieur, ci viene qui concessa solo per una manciata di secondi, in un ruolo minuscolo, che non può bastarci.

Il film purtroppo soffre di una brutta caduta nel finale: l’ oscurità, il malsano cercano di trovare un riscatto nel fiabesco positivo ma l’ esito risulta incongruente e quasi risibile.

Una pellicola dall’ impianto scenografico incredibile, che riempie gli occhi ed i sensi: se slegata dal narrato, diventa “art for art’s sake”, visione pura. Il cinematografico però, necessita di una storia sufficientemente forte a sorreggere immagini tanto potenti, ed in questa caso essa è troppo debole per adempiere a tal compito.

La sfida era ambiziosa, e non facile: Livid purtroppo non riesce a vincerla del tutto.

Un film dunque che non può dirsi completamente riuscito, nonostante emani un fascino unico e non comune e sia forte di alcuni buoni spunti: se il canovaccio narrativo fosse stato intessuto a dovere, ci si sarebbe trovati di fronte ad un autentico gioiello.

Chiara Pani
(araknex@email.it)

 

Livid
Titolo Originale: Livide
Francia - 2011
Regia: Alexandre Bustillo e Julien Maury

 





domenica 22 aprile 2012

La mia analisi de "L' Alba Dei Morti Viventi" (2004) di Zack Snyder per Horror.it



pubblicata su Horror.it:

http://www.horror.it/a/2012/04/l-alba-dei-morti-viventi-2004/





L’ Alba Dei Morti Viventi (2004)


“And I heard a voice in the midst of the four beasts
 And I looked and behold, a pale horse
 And his name that sat on him was Death
 And Hell followed with him”

(“The  Man Comes Around” – Johnny Cash)


Sulle note del magnifico pezzo di Johnny Cash, scelta inconsueta ma quanto mai azzeccata, scorrono i titoli di testa de “L’ Alba Dei Morti Viventi”, a film già iniziato, dopo un prologo che ci mostra un primo sviluppo di narrazione.
Realizzata nel 2004, con un budget di 28 milioni di dollari e distribuita dalla Universal, la pellicola segna l’ esordio su grande schermo del regista Zack Snyder, che in seguito dirigerà titoli come “300” (2006) e “Sucker Punch” (2011).

Teoricamente, il film è remake del capolavoro di George A. Romero, “Zombi” (1978): impresa non solo ambiziosa ma quantomeno titanica, considerando che si sta parlando di un esordiente. Quello dei rifacimenti è terreno ormai sfruttato all’ esasperazione in campo horror: negli Stati Uniti, negli ultimi dieci anni, è stato rifatto quasi ogni classico del genere, con esiti a volte disastrosi, altre risibili ma in ogni caso noiosi e standardizzati, lasciando sempre lo spettatore con l’ interrogativo “ Ce n’ era davvero bisogno? ”. No, se non per ingrassare i botteghini e, cercando di essere ottimisti, far conoscere alle giovani generazioni i film originali da cui questi cloni malriusciti sono stati tratti.
Cimentarsi con remake di capolavori è compito ovviamente assai rischioso, e riservato solitamente a registi blasonati e coraggiosi: solo un Gus Van Sant poteva essere in grado di replicare “Psycho” di Hitchcock, rifacendolo inquadratura per inquadratura e dandogli una chiave visiva pop; non ha preteso di imitare un modello inarrivabile ma ne ha fatto una copia esatta, rendendolo al tempo stesso completamente personale dal punto di vista stilistico. Vette ancora più alte sono state toccate da Werner Herzog con il suo “Nosferatu” (1979), rilettura del classico di Murnau nella magnificenza della Visione del regista tedesco contemporaneo.
Si sono citate punte elevatissime in tema di rifacimenti filmici, giusto per esemplificare il fatto che, per rifare ad arte una grande pellicola, è necessario reinventarla, col tocco di un vero Maestro.
Dunque, un’ operazione potenzialmente suicida questo “Dawn Of The Dead”, basato sulla sceneggiatura di Romero ma con uno script ex-novo ad opera di James Gunn (già writer per la Troma), e con la regia affidata ad un giovane entusiasta ma comunque un debuttante. Si resta, invece, piacevolmente sorpresi dal risultato, a patto di accettare il film per quello che è in realtà: non un remake bensì una rilettura del classico Romeriano. 

Sebbene siano inevitabili i paragoni tra le due opere, è necessario sganciare questa Alba dalla precedente, considerandola film a sè stante, con i suoi pregi, difetti e le differenze che essa introduce. Affiancarla in modo strettamente comparativo al “Dawn Of The Dead” del 1978 significherebbe non solo tagliarle le gambe in partenza, ma soprattutto osservarla da un punto di vista in parte errato. Il film si ispira, fortemente, al suo illustre predecessore ma al tempo stesso riesce a prendere una strada “altra” ed indipendente. Qui troviamo l’ astuzia e l’ abilità del regista e dello sceneggiatore: l’ imitazione sarebbe stata una sconfitta cocente, un misero scimmiottamento; si è partiti dal film di Romero, per poi reinventare (almeno in parte), decorando il tutto di (doverosi) omaggi, citazioni e camei.
Ciò non significa che questo film sia perfetto, tutt’ altro: ma riesce comunque a convincere e non lascia con l’ amaro in bocca. Lo stesso Romero, per quanto non soddisfatto di alcuni punti, si è detto piacevolmente sorpreso dal risultato, il che deve aver fatto tirare un bel sospiro di sollievo agli autori.
Nel dvd è presente la versione uncut, introdotta dallo stesso Snyder, che spiega le motivazioni dei tagli per le sale, dovuti a ovvi e risaputi motivi di censura.

Il film inizia in sordina, da una situazione di calma, in cui il caos si insinua dapprima lentamente fino ad esplodere di colpo: vediamo l’ infermiera Ana (la convincente Sarah Polley) tornare a casa in quella che sembra una giornata qualsiasi, accolta dal marito Luis; durante la notte, l’ uomo viene aggredito e morso dalla bambina dei vicini ormai “trasformata” (chiaro riferimento a “Night Of The Living Dead”, una delle numerose citazioni sparse nel corso del racconto): anch’ egli diventa in breve un “infetto” (al pari del film in bianco e nero di Romero, non si utilizza mai la parola “zombie”) e tenta di aggredire Ana, che riesce a fuggire in strada, sgomenta e terrorizzata. Ecco che davanti a lei esplode il Caos, di fronte al quale non può far altro che salire in auto, e fuggire. Qui si nota la prima, fondamentale differenza rispetto all’ opera ispiratrice: in “Zombi”, ci si ritrovava scaraventati nel Disordine Assoluto fin dai primissimi minuti, partendo dalla tragedia collettiva per poi arrivare a quelle individuali; in questo caso, il percorso è inverso, affrontando dapprima il dramma di Ana e, in un secondo tempo, quello che coinvolge il mondo intero.
La donna incontra Kenneth (il sempre efficace Ving Rhames), un poliziotto che vuole raggiungere il campo di Fort Pastor per ritrovare il fratello; a loro si uniscono altri tre personaggi: la giovane coppia formata da Luda (Inna Korobkina), incinta, e Andre (Mekhi Phifer), nonché Michael (Jake Weber).
Il gruppo si avvia verso il centro commerciale del luogo, il “Crossroads Shopping Mall”, in cerca di rifugio: si scontra immediatamente con l’ ostilità delle tre guardie giurate, capeggiate da CJ (Michael Kelly), il quale mostra la medesima “territorialità” verso gli intrusi già vista nel personaggio di Stephen nella pellicola del 1978: “questo è il nostro posto”. Uno scambio di posizione , nel quale i protagonisti (per dirla schematicamente, i “buoni”) sono gli “invasori” mentre gli “ostili” sono i padroni del territorio.
Tuttavia, si riesce a stabilire una coabitazione all’ interno dello shopping mall, nel quale arriveranno altri personaggi, a bordo di un camion: ci si trova dunque di fronte a un film di stampo decisamente più corale e meno claustrofobico.

Anche qui abbiamo i momenti ludici, gli scontri, le inevitabili perdite; la delineazione dei personaggi è quasi sempre attenta , sebbene alcuni di loro siano eccessivamente a tutto tondo oppure, non completamente sviluppati, poiché, come si diceva, sono numerosi dunque sarebbe stato difficile presentare ognuno di loro in modo completo. In ogni caso, ogni individuo è riconoscibile per una caratteristica peculiare e le sfumature vengono rese in modo abbastanza efficace, così come le tensioni ed i rapporti di forza all’ interno del microcosmo che si è venuto a creare.

Il film si conclude in modo originale e con una certa dose di potenza visiva: in alternanza ai titoli di coda, scorrono i fotogrammi finali, sull’ isola che dovrebbe rappresentare la salvezza dei sopravvissuti; una sorta di gioco metacinematografico, poiché il tutto ci viene mostrato attraverso le riprese effettuate con una videocamera dagli stessi protagonisti. Anche in questo caso la musica gioca un ruolo importante: esplode il nu-rock di “Down With The Sickness” dei Disturbed, anch’ essa scelta assai azzeccata nel contesto. E’ curioso notare che sia questo pezzo, quanto la sua versione swing, nonchè quello iniziale di Johnny Cash, sono stati inseriti per assoluto volere di Snyder, nonostante  l’ iniziale rifiuto dei produttori.

In questa pellicola, si diceva, i morti viventi vengono denominati “infetti”, sebbene l’ origine del contagio non venga mai spiegata; nei plot summaries riportati sui dvd box, si parla di un virus, mentre lo sceneggiatore James Gunn, durante un’ intervista, dà una spiegazione di natura sovrannaturale al fenomeno, paragonandolo al “morso di un vampiro”. In ogni caso, non vi è traccia alcuna di tradizioni voodoo, che nel film originale erano comunque appena accennate;  la celebre frase “Quando non vi sarà  più posto all’ Inferno i morti cammineranno sulla Terra” è qui inserita in un contesto completamente diverso: è pronunciata dallo stesso attore del film di Romero, Ken Foree, che vediamo nel ruolo di un predicatore televisivo, col conservatore CJ che ascolta attento le sue parole attraverso lo schermo. “L’ Inferno è straripato e Satana ci sta mandando i suoi morti. Perché?”  e parte l’ elenco dei “peccati mortali” quali omosessualità, aborto, sesso al di fuori del matrimonio, e via discorrendo. Secondo quest’ ottica integralista, gli  zombies sarebbero una punizione divina verso noi disgustosi peccatori. Un sovvertimento piuttosto coraggioso da parte della narrazione, che sposta il personaggio originale “dalla sponda opposta”, dai racconti sul voodoo al fondamentalismo cattolico. Una chiara stilettata al bigottismo americano, forse un po’ ruffiana, ma comunque ben piazzata.

Troviamo, come in molte produzioni recenti, i morti viventi veloci, dunque non più lenti e catatonici come quelli Romeriani bensì adrenalici, furibondi, ansiogeni, molto vicini agli infetti (in senso stretto) di “28 Giorni Dopo” (2002); Snyder giustificò la scelta dicendo che si è in questo modo evitata la comicità involontaria dovuta alle tradizionali movenze rallentate e ciondolanti. Affermazione assai discutibile, poiché c’è ben poco di comico nei passi pesanti ed inesorabili dei living dead che ben conosciamo. E’ più corretto dire che, come nel resto del film, si sono attualizzati parecchi elementi, aggiungendo anche una maggiore spettacolarizzazione ed azione, per renderlo più appetibile al pubblico odierno. Potrebbero esserci anche altre chiavi di lettura riguardo a questo “cambio di marcia zombie”, ormai diffuso: volendo spingersi oltre in sentieri interpretativi, può essere vista come metafora di una società che corre a ritmi sempre più sincopati oppure, tornando a termini più prosaici, si vuole semplicemente creare un maggiore impatto a livello di azione e di ritmica visivo/narrativa.

In un preciso momento della narrazione, relativo all’ eliminazione di ciò che un tempo era Ben Cozine, anche lui guardia giurata nello shopping mall, ad opera dei suoi stessi ex-compagni, troviamo la curiosa definizione di “tarantolato”, relativa al morto vivente. E’ stata una buona scelta del doppiaggio italiano (il termine inglese è “twitcher”, da “twitch”, spasmo), con i suoi rimandi antropologici (forse involontari) al tarantismo (ossia le conseguenze del morso di una tarantola) e ai relativi esorcismi, rituali assai affascinanti, che mescolano tradizione cattolica e paganesimo. Accostamento magari puramente casuale ma per certi versi calzante, a maggior ragione con questa tipologia di zombie, che presenta caratteristiche simili a quelle di un posseduto. Nell’ uccisione di Cozine, notiamo un altro particolare , che ritroveremo in Luda: poco prima di “morire” definitivamente, nel suo sguardo compare un’ ombra di paura. Ciò è in stridente contrasto con la natura stessa dell’ essere, che è cadavere, dunque non senziente: in questo film, si lascia qualche labile traccia di umanità allo zombie, seppur attraverso un dettaglio quasi impercettibile che può essere notato ascoltando il commento audio del regista. Ciò che è interessante non è tanto la caratteristica in sé quanto la modalità quasi subliminale con cui viene resa, che è comunque recepita dal pubblico, pur se in modo inconsapevole.

Anche  qui troviamo il dilemma dell’ uccidere coloro ai quali si è legati ma che non sono più ciò che erano: questo è particolarmente evidente nella vicenda della giovane Nicole (Lindy Booth) e di suo padre Frank (Matt Frewer): fanno parte del secondo gruppo giunto al centro commerciale, e l’ uomo è stato morso. Michael e Kenneth sostengono la necessità di ucciderlo, mentre Ana difende la posizione “emotiva”, rifiutando l’ idea di eliminare qualcuno che è ancora, a tutti gli effetti, un essere umano. E’ importante notare che in questo film la “trasformazione” non è lenta bensì quasi istantanea: ai primi sintomi, segue subito la morte ed immediatamente il “risveglio”. 
Nicole reagisce alla notizia in modo straziante, poiché suo padre è l’ unica persona che le è rimasta al mondo, e i due si salutano con un lungo abbraccio: qui i legami umani sono maggiormente accentuati, scadendo talvolta in sentimentalismi un po’ scontati.
Sarà Kenneth a prendersi carico del compito, attendendo il risveglio di Frank: la scena viene tenuta fuori campo, e lasciata nel solo ambito sonoro.
Entra immediatamente in gioco il contrasto di registri, così come accadeva nel film originario: la sequenza successiva, parte con l’ allegro swing di “Down With The Sickness” rifatta da Richard Cheese, che fa da sfondo a momenti di intrattenimento del gruppo. Se in Romero si trovava l’ accostamento musiche comiche/scene cruente, qui abbiamo il montaggio che accosta scene drammatiche ad altre in cui il tono emotivo si alza di colpo, disorientando lo spettatore.

Una delle variazioni più interessanti e riuscite del film può essere trovata nell’ introduzione del personaggio di Andy (Bruce Bohne): i sopravvissuti infatti, passano molto del loro tempo sul tetto (anche in questo, abbiamo una diminuizione dell’ impatto claustrofobico), dove hanno piazzato scritte di S.O.S, ed è così che, sulla sommità di un palazzo vicino, vedono quest’ uomo, proprietario di un negozio di armi; la comunicazione tra  loro avviene unicamente a distanza, scrivendo su cartelloni e leggendo tramite cannocchiale. Kenneth, in particolare, stabilisce un’ amicizia con Andy, intrattenendosi in lunghe partite a scacchi o in divertimenti più puerili, come tiri al bersaglio sugli zombies che vagano al di sotto degli edifici.
E’ elemento particolare, non banale e che sottolinea il valore dei legami umani in condizioni estreme, relazioni che si stringono sebbene non ci si rivolga mai una parola.
La coabitazione forzata dei componenti del gruppo provoca, inevitabilmente, l’ esplosione di conflitti e tensioni, alcuni di loro si sopportano a malapena. CJ rappresenta il principale elemento di disturbo, “l’ ostile” per eccellenza il quale, insieme all’ altra guardia giurata (il terzo, Terry, si è invece amalgamato con gli altri poiché diverso dai suoi colleghi), finirà per essere messo sotto chiave per poter essere arginato. La scoperta di un altro sopravvissuto, rappresenta, in particolar modo per Kenneth,  uno spiraglio al di fuori di un’ aggregazione forzata e a lui non congeniale.

Il tipo di rapporto interpersonale che si stabilisce con Andy può essere letto in modo ambivalente, seguendo la strada della "libera interpretazione": da un lato, è possibile inserirlo nel contesto della comunicazione nell' epoca di internet, tramite messaggistica testuale, con quella “distanza di sicurezza” che in un certo qual modo protegge da un reale interscambio. Dall' altro, in modo diametralmente opposto, rimanda alle forme non-verbali primitive, antecedenti all' esistenza della parola e basate su simboli e gesti. In entrambi i casi, si tratta di un modo di comunicare che va a formare un legame amichevole che nasce in condizioni estreme, tra sopravvissuti, Kenneth e Andy. In un momento cruciale, nel quale Kenneth si trova davanti all' uomo, si rivolge a lui chiamandolo “fratello”: un legame "d' emergenza" ma non per questo meno reale, cresciuto attraverso l' unirsi di due solitudini in un’ ideale fratellanza, che in condizioni normali non si sarebbe  mai creata. 

Dunque, non vi sono solo i lati negativi della lotta per sopravvivere, come la territorialità o il conflitto, ma anche un polo positivo, quello di una solidarietà altrimenti impensabile che nasce dal bisogno di aggrapparsi alla propria umanità.  

I personaggi hanno dunque una grossa importanza in questo “Dawn Of The Dead”, così come l’ avevano in Romero: qui si mette più carne al fuoco, e, come già si accennava, non tutti i protagonisti sono presentati in modo sfaccettato: CJ, ad esempio, nonostante il “riscatto” finale, è il classico conservatore, patriottico, ignorante e maschilista, quasi del tutto privo di sfumature. La scena della cena, che vede il gruppo riunito, è occasione per presentare meglio le varie individualità, ma finisce per diventare un monologo di Michael (il quale peraltro, nel corso del film, sviluppa una reciproca “simpatia” per Ana) sulla propria inutilità come marito e l’ ennesima occasione per Steve (Ty Burrell) di guadagnarsi il marchio di “antipatico” della situazione.
Durante la cena, notiamo l’ assenza di due personaggi, Andre e Luda: la ragazza è stata morsa, cosa che il resto del gruppo ignora, ed il marito sembra non voler accettare la realtà che ha davanti; dettaglio non trascurabile, visto che si è ormai arrivati al momento del parto. Nella cornice di una cameretta da esposizione , con la fotografia virata lievemente in verde a dare un tono allucinato alla scena, troviamo la giovane legata al letto, e un Andre ormai prossimo alla follia. Luda muore ed il pancione inizia a muoversi: la puerpera zombie si risveglia inferocita, quando nella stanza entra Norma (Jayne Eastwood), solida donna di mezza età. Ciò che le si para davanti è una sorta di incubo, con Andre che tiene in mano un fagottino in fasce grondante sangue e Luda zombie legata al letto.
La sequenza successiva è efficace e assai ben montata (ottimo il lavoro di Niven Howie): Norma spara alla ragazza, e Andre spara alla donna. Un duello in puro stile western, lento, a più riprese, nel quale non si muore subito.  
Il resto del gruppo interviene ed ecco la macabra scoperta: il neonato zombie. Questo elemento è in realtà piuttosto controverso: se, ad un primo impatto, può risultare anche impressionante, finisce per essere piuttosto ridicolo, visto nel complesso.La sceneggiatura, assai più coraggiosamente, prevedeva che il bambino uccidesse la madre, ma la scelta fu scartata poiché considerata troppo estrema.
Sarà Ana a sparare al piccolo, ovviamente sempre in fuori campo, il tutto seguito da silenzio, una sorta di pausa di riflessione su quel che abbiamo immaginato che sia appena accaduto.
Non è la prima volta che compare un neonato mostruoso sullo schermo, basti pensare al cult  “Baby Killer” (1974) di Larry Cohen, nel quale, nonostante gli effetti assolutamente low budget, ci veniva mostrato (assai poco, in realtà, e lì stava la sua forza) un baby-mostro magari improbabile, ma ferocemente inquietante. L’ obbiettivo non è stato centrato in “Dawn Of The Dead”, sprecando un’ idea potenzialmente buona e di impatto notevole.

Il finale, come si diceva, è sufficientemente robusto e amaro. Si è scampati ai facili “happy ending” hollywoodiani, senza chiuse comodamente consolatorie.
Oltre al cameo di Ken Foree, troviamo anche quello di Scott H. Reiniger, il Roger del film originale: anch’ egli compare in televisione, nel ruolo di un capo dell’ esercito che invita la cittadinanza a rifugiarsi a Fort Pastor (il quale si scoprirà, in seguito, essere popolato solo più da zombies). Un negozio dello shopping mall è intitolato a Gaylen Ross, in omaggio all’ attrice che interpretava Fran, dunque un tributo solo nominale poiché l’ interprete è stata impossibilitata a partecipare al film. David Emge, l’ attore che ricopriva il ruolo di Stephen, è invece risultato irrintracciabile.

Anche qui, come nella pellicola “madre”, la presenza del mezzo televisivo è massiccia, ma in questo caso lo è proprio in senso fisico: infatti, le guardie giurate tengono perennemente accesi più maxi-schermi contemporaneamente e di continuo, in modo ossessivo ed incessante. I notiziari scorrono uno dietro l’ altro, col sottofondo delle proteste di CJ: “sempre le stesse cose, ditemi qualcosa che non so!”. Una ridondanza di informazioni sempre uguali, reiterate, esasperanti, ua potenza mediatica che, negli anni, si è ingigantita fino a diventare più spaventosa dei mostri stessi.

Tecnicamente, la pellicola è di ottima fattura, sebbene eccessivamente patinata: il montaggio è ottimo, sebbene talvolta troppo serrato, prediligendo l’ azione a scapito di tempi più lenti; interessante il lavoro sul colore, con tonalità fredde e livide che rendono bene l’ atmosfera all’ interno del complesso di negozi diventato rifugio/prigione.
Buoni gli effetti speciali a cura di David LeRoy Anderson, che per la realizzazione del trucco dei cadaveri si è basato su fotografie e documentazione di carattere scientifico, in modo da ottenere un maggior realismo ed efficacia.
Il film è ambientato a Milwaukee e girato in Canada, in parte in un centro commerciale in fase di chiusura, che venne demolito subito dopo il termine delle riprese.
Un bilancio dunque complessivamente positivo per questa rilettura, ed è giusto sottolineare il termine, del cult di Romero, che ha fatto comunque storcere il naso a molti, e non sempre a torto: ci sono molte strizzate d’ occhio al botteghino, nelle numerose scene d’ azione, l’ apparato patinato, i facili sentimentalismi e soluzioni troppo accattivanti. Si è attualizzato il punto di partenza tradizionale, col quale è impossibile fare confronti diretti. Quindi, come già detto, se preso isolatamente e solo come interpretazione del grande classico, il film di Snyder resta davvero un buon prodotto, intrattenimento non banale e con spunti realmente interessanti.  Affiancarlo per paragoni ad una “madre” tanto ingombrante, significherebbe non solo stroncarlo sul nascere ma anche snaturarlo delle proprie idee. Da vedere a mente sgombra dunque, e possibilmente lontano da “pasti Romeriani”.

Chiara Pani
(araknex@email.it) 

L' Alba Dei Morti Viventi
Titolo Originale: Dawn Of The Dead
Usa/Canada/Giappone/Francia -2004
Regia: Zack Snyder

 

mercoledì 18 aprile 2012

La mia analisi di "Zombi" ("Dawn Of The Dead") (1978) di George A. Romero per Horror.it

pubblicata su Horror.it:

http://www.horror.it/a/2012/04/zombi-1978/



Zombi (1978)

Scrivere di un film come questo, il cult assoluto “Dawn Of The Dead”, capolavoro di George A. Romero targato 1978, significa addentrarsi nei corridoi spesso insidiosi del già detto e ripetuto decine di volte, talvolta attribuendo al film significati pindarici che non erano nelle intenzioni del regista.
Ci si trova di fronte ad una pellicola che è un vero caposaldo del genere nonché pilastro e riferimento primario per tutti quei film che sono venuti dopo, gli innumerevoli zombie-movies che a essa si sono in qualche modo ispirati, guardandola, inevitabilmente, dal basso verso l’ alto.
“Dawn Of The Dead” è il secondo capitolo della fondamentale trilogia Romeriana sui morti viventi, nonché il primo film nel quale ci si riferisce ad essi col termine “zombies”, per mezzo delle parole del personaggio di Peter, in quanto il termine non era mai stato usato nel precedente “Night Of The Living Dead “ (1968); la prima pellicola, low budget  girata in bianco e nero, aveva già segnato un fortissimo punto di rottura nella scena orrorifica dell’ epoca, con un forte sottotesto politico (interpretato, da critica e pubblico, in maniera ancor più incisiva di quanto lo stesso Romero in realtà intendesse), i cruenti effetti speciali di Tom Savini che diventeranno un marchio di fabbrica, e l’ introduzione di una caratteristica fondamentale dei morti viventi, fino a quel momento inedita nei classici del genere: l’ antropofagia. Infatti, gli zombies che si erano già visti sullo schermo, ad opera di nomi illustri quali Jacques Tourneur (“Ho Camminato Con Uno Zombie”, 1943) o in pellicole cult come “White Zombie”, del 1932, firmata da Victor Halperin e interpretata da Bela Lugosi, erano per lo più legati alla tradizione ritualistica voodoo, minacciosi ma non affamati di carne umana; in Romero, assistiamo al contagio, chi è morso si trasforma, diventa a sua volta living dead, sbrana, divora. E’ differenza fondamentale, che resterà saldamente radicata nell’ immaginario collettivo e sarà presente in ogni successiva rappresentazione filmica, per mezzo della quale le inquietanti idee di morbo e contaminazione si mescolano a due paure ataviche: quella dei morti che tornano in vita e il terrore dell’ istinto cannibalico.

Il trittico Romeriano, nei titoli, simboleggia l’ espandersi dell’ invasione, aprendosi nel 1968 con la Notte, in un film cupo dal finale che non lascia spiragli di speranza, per proseguire con quest’ Alba, ancora più agghiacciante ma che porta in sé un seme di sopravvivenza per poi chiudersi, nel 1985, con “Day Of The Dead”, l’ avvento del Giorno degli Zombie. In realtà, il ciclo è andato oltre, col pregevole “Land Of The Dead”, del 2005, il bellissimo e sottovalutato “Diary Of The Dead” (2007) ed il più recente e finora meno riuscito “Survival Of The Dead”, uscito nel 2009. Dunque, uno spremere all’ osso la figura del Morto da parte di Romero, scelta da un lato quasi obbligata, in quanto i suoi film slegati dalla tematica (e spesso di valore assai alto), hanno sovente riscontrato uno scarso successo di pubblico; un vero marchio a fuoco, dal quale il regista non è riuscito ad affrancarsi.
E’ importante notare che in Italia “Dawn Of The Dead”  è uscito col fuorviante titolo di “Zombi”, che snatura la concatenazione agli altri due film e crea confusione con alcune pellicole coeve (una su tutte: “Zombi 2” di Fulci, del 1979).

E’ ormai noto che esistono più versioni dell’ opera, il che ha creato anche un certo caos; i cofanetti (ricordiamo le pregevoli edizioni dell’ italiana Alan Young e dell’ americana Anchor Bay) sono intervenuti a mettere un po’ d’ ordine, offrendoci quattro diversi montaggi: la “George A. Romero’ s Extended Version”, integrale così come era intesa dal regista, della durata di 156 minuti; la “Director’s Cut”, da 139 minuti; la “U.S. Theatrical Version”, ridotta a 128 minuti per le sale statunitensi ed, infine, quella conosciuta e distribuita in Italia, Giappone ed Europa (ad eccezione della Gran Bretagna), la “Argento’s Cut”, montata da Dario Argento, la più breve con i suoi 117 minuti.

Inutile dire che le versioni “ridotte” sono più snelle ma sottraggono al film una parte del suo valore originario: i tempi dilatatissimi dell’ extended, infatti, esasperano il senso di tensione e di claustrofobia nelle sequenze all’ interno del centro commerciale, vi sono più dialoghi dunque i personaggi sono ancor meglio delineati e vi sono alcune scene importanti che verranno poi tagliate negli altri montaggi (ad esempio, quella in cui un gruppo di poliziotti vuole appropriarsi dell’ elicottero dei protagonisti, e nella quale le forze dell’ ordine risultano ridicolizzate); tuttavia, non tolgono forza al film, sebbene l’ extended version resti ovviamente quella che rende maggiormente giustizia alla narrazione. Una delle differenze più accentuate è rintracciabile nell’ incipit dell’ “Argento’s Cut”: il film si apre sul magnifico score dei Goblin, di colpo, mentre nella versione extended, ad esempio, a inizio film sono conservate le assai meno efficaci musiche originali.
Le motivazioni di tali sforbiciate sono state molteplici e diverse a seconda dei Paesi: in Francia, la censura giocò un grosso ruolo, e qui in Italia, dopo il 1990 numerose scene vennero eliminate o comunque ridotte (ad esempio l’ uccisione degli zombies bambini), rendendo talvolta meno chiare le sequanze successive; causa principale delle decurtazioni fu comunque la necessità di ridurre la durata al di sotto delle due ore, per i soliti motivi di incastro di un maggior numero di proiezioni nelle sale.
Il film segna l’ inizio della collaborazione tra Romero e Dario Argento: i due registi si incontrarono nel 1976, e da lì nacque un sodalizio che, dopo questo film, proseguì tra alti e bassi, rivedendoli insieme per “Due Occhi Diabolici” (1990) , pellicola della quale curarono un episodio a testa, entrambi tratti da Edgar Allan Poe.
“Dawn Of The Dead”  è prodotto, tra gli altri, da Claudio Argento, ed è stato scritto da Romero con la collaborazione del regista nostrano, accreditato come “script consultant”; dunque, il ruolo di Argento fu forte e determinante nella genesi di questo film.

Un discorso a parte meritano le magnifiche musiche composte dai Goblin (che nei credits compaiono come: “Goblin in collaboration with Dario Argento”): il film era già stato distribuito in alcune sale statunitensi quando Romero ascoltò ciò che i musicisti avevano composto, e ne rimase stregato. Fece ritirare le copie già diffuse, e sostituì immeditamente lo score originario (piatto e banale), con quello che a tutt’ oggi resta una delle punte massime delle soundtrack  Gobliniane: ipnotico, inesorabile come il lento incedere dei morti viventi, epico, è complementare al film, donandogli quel “valore aggiunto” di potenza non inferiore al celeberrimo tema di “Profondo Rosso”,  per quanto il “Dawn Of The Dead theme” sia rimasto assai meno nell’ immaginario collettivo poiché più rarefatto e meno ossessivo. Le sequenze delle orde di zombies al di fuori dello shopping mall, riprese dall’ alto, se viste con l’ accompagnamento delle musiche originali, perdono molto del loro potere evocativo, per diventare invece veri e propri incubi surreali da pelle d’ oca sulle note agonizzanti dei musicisti argentiani.
Dunque, l’ esatto contrario di quanto accadde per “Martin”, opera di Romero del 1976, che venne successivamente ri-montata da Argento per il mercato italiano aggiungendovi le musiche dei Goblin: si rivelò un errore, poiché la pellicola ne risultò  in parte stravolta, con un taglio di 10 minuti abbondanti e la colonna sonora che pareva posticcia e fuori luogo. Caldamente consigliato, in questo caso, il Director’ s Cut.

“Dawn Of Dead” può essere considerato, innanzitutto, un film sul Caos: lo stravolgimento assoluto dell’ ordine delle cose causato dall’ infrangersi della prima Legge Universale, ossia la Morte.  “Quando i morti camminano, signori, bisogna smettere di uccidere. Altrimenti si perde la guerra.”, queste le parole di un anziano prete che Roger e Peter, due dei protagonisti, incontrano durante l’ irruzione in un edificio invaso dai living dead, in cui essi sono tenuti in uno scantinato invece che consegnati alla Guardia Nazionale (così come imporrebbe la Legge Marziale entrata in vigore), in segno di un ostinato rispetto per la morte.
Non è un caso che la narrazione si apra all’ interno di una stazione televisiva, nella più totale confusione, nel corso di una trasmissione d’ emergenza; ci si focalizza dunque, e da subito, sull’ importanza dei media, sul loro potere che, in questo caso, è non solo impotenza ma anche cinica ricerca dell’ audience ad ogni costo: è grottesco e risibile il direttore di rete che  si ostina a voler trasmettere i dati sui campi di rifugio, sebbene non aggiornati, purchè gli spettatori “non cambino canale”. C’ è un’ apocalisse in atto ma l’ importante è che non si cambi canale.  Romero riesce ad essere feroce con un dettaglio, un accenno, sussurrando senza dover urlare, poiché non ne ha bisogno. Nel corso del film, il mezzo televisivo continua ad essere presente, sebbene le trasmissioni siano ovviamente sempre più diradate, ma rappresenta, per i quattro protagonisti rinchiusi all’ interno del centro commerciale, l’ unica voce dal mondo esterno; ed è voce che spreca il suo fiato prezioso in dibattiti inutili nel corso di risse in diretta, con “esperti” che dichiarano la necessità di sterminare gli zombies mettendo da parte i propri sentimenti umani, poiché pur se ci si trova di fronte al cadavere deambulante della propria madre o del proprio fratello ovviamente “non sono più ciò che sembrano”. Tali teorie vengono attaccate con violenza e questi personaggi rischiano il linciaggio: l’ umanità rifiuta di accettare ciò che sta accadendo, lo considera assurdo, si aggrappa disperatamente al ricordo della propria normalità.
Emblematica, in questo senso, è la sequenza dell’ aggressione di Peter da parte di due bambini zombies: egli spara, con sofferenza evidente, per istinto di sopravvivenza; i suoi occhi vedono ancora dei bambini, anche se in realtà non sono più tali, bensì “mostri”, ma ciò sottolinea la difficoltà nello sganciarsi dal proprio essere individui senzienti, anche a costo della propria auto-conservazione.
L’ emotività diventa follia ma ciò è pienamente condivisibile, così come, d’ altro canto, è comprensibile il raziocinio di chi asserisce la necessità di salvaguardarsi. Romero non prende una vera e propria posizione, guarda il tutto con un certo distacco ed una perenne ironia: fuori il mondo sta finendo e tutto ciò che l’ uomo riesce a fare è aggredirsi a vicenda in uno studio televisivo.
Il lavoro sui personaggi è assai importante, e non comune nel genere horror; ciò è più evidente nel montaggio extended, dove maggiore è lo spazio dedicato ai dialoghi e dunque all’ interazione tra i quattro protagonisti principali, che possiamo suddividere in due coppie: Fran (Gaylen Ross), impiegata nella stazione televisiva che abbiamo visto a inizio film, e Stephen (David Emge), il suo compagno che organizza la fuga in elicottero. Egli coinvolge l’ amico Roger (Scott H. Reiniger), membro del corpo speciale SWAT che porta con sé l’ amico e compagno d’arma Peter (Ken Foree). Ovviamente, due tipologie relazionali diverse ma ugualmente forti: da un lato, il legame sentimentale, dall’ altro, l’ amicizia fraterna ed il cameratismo. Si sarebbe quasi tentati di leggere un sottotesto omosessuale nel rapporto Roger/Peter ma si eviterà di farlo, poiché sarebbero voli pindarici eccessivi e soprattutto fuori luogo, anche se tale istinto potrebbe nascere dalla ben conosciuta scarsa simpatia di Romero per il militarismo, dunque una stilettata ironica di questo tipo, vista l’ omofobia  imperante nell’ esercito, non stupirebbe.

Il centro commerciale è il cuore pulsante del film, la location primaria, il luogo-rifugio dei protagonisti in una città, Philadelphia, ormai quasi del tutto popolata da morti viventi e dalla Morte. Il complesso di negozi nel quale hanno avuto luogo le riprese si trova in realtà a Monroeville, in Pennsylvania e all’ epoca era il più grande shopping mall degli Stati Uniti; gli shootings durarono circa quattro mesi, nell’ inverno tra il 1977 e il 1978, durante gli orari di chiusura del Monroe Mall dunque nel corso della notte.
L’ extended version, come già si diceva, meglio di ogni altra rende l’ idea dell’ esasperato senso di assedio, della tensione interminabile che viene accentuata, e non diminuita come si sarebbe portati a pensare, dai tempi dilatati all’ estremo. Questa stasi temporale crea nello spettatore un' identificazione completa con i protagonisti, un senso di logorante attesa, di claustrofobia schiacciante che non lascia scampo.
Lo spazio a disposizione dei quattro personaggi è enorme ma al tempo stesso minuscolo poiché è tutto il loro mondo, nel quale non sono mai al sicuro, in quanto i living dead entrano a più riprese e sono innumerevoli: davanti alle porte del grande magazzino, perenni orde di morti viventi percuotono incessantemente le vetrate, nel disperato tentativo di sfondarle. La minaccia è dunque onnipresente e ossessiva.
Arriviamo qui ad un punto cruciale del film, sul quale si è lungamente (forse anche troppo), dibattuto: la feroce ed impietosa critica al consumismo americano. La chiave sta in un dialogo tra i quattro personaggi, che dall’ alto di una balconata osservano ciò che accade al di sotto di loro; Stephen afferma che gli zombies sono lì per dare la caccia a loro ma Peter interviene dicendo che non sono loro ciò che che cercano, bensì quel posto. Non ne conoscono il motivo, ma in qualche modo ricordano, ricordano che vogliono stare lì.
Era il 1978 e Romero aveva già profetizzato gli anni a venire; negli U.S.A, i centri commerciali ed il relativo consumismo sfrenato ad essi legato erano già una realtà, da noi lo sarebbero diventati in un futuro non troppo prossimo. E’ inevitabile dunque non provare un brivido davanti a parole come quelle, e non ripensare a questo film ogni volta che ci si reca in uno di questi “templi dello shopping” , davanti a persone che passano di fronte alle vetrine attraversandole con lo sguardo, camminando lente, quasi fossero lievemente lobotomizzate, divorando cibo e acquistando oggetti inutili spinti da un automatismo e non da una ricerca di piacere. Zombies, contagiati dal consumismo.
C’è una forte ed amara ironia nel contrasto tra l’ inutile opulenza che circonda i personaggi, e la morte che li attornia in ogni dove. Tutto è inutile (tranne il cibo e le armi), anche il denaro (per quanto lo prendano ugualmente, con uno scaramantico “non si sa mai”), in un mondo che si sta estiguendo, che è letteralmente divorato da cadaveri.

I quattro cercano di adattarsi alla loro prigionia, con momenti ludici nei quali, in particolare nel personaggio di Roger, emergono dei lati infantili, scorrazzando in modo sfrenato per i reparti, giocando (anche in modo macabro, sparando sugli zombies come in un videogame) , concedendosi cene “di lusso” oppure restando per ore in un salone di bellezza. Tutto ciò appare tristemente inutile ma rappresenta un voler ritrovare una normalità che non c’è più, ed è anche occasione, per Romero, di presentarci in modo completo i protagonisti.
Fran è l’ unica donna, e soffre dell’ atteggiamento protettivo dei tre uomini: anche lei vuole essere parte attiva, ed entrare in campo a combattere. Insiste nel voler imparare a pilotare l’ elicottero poiché è realista, Stephen potrebbe non esserci più, da un giorno all’ altro. Quando scopre di essere incinta, non vuole essere trattata come se fosse un ‘invalida; la sua gravidanza è ovviamente significativa, non solo nell’ essere speranza di una nuova vita in un mondo allo sfascio ma anche nel rischio che essa comporta in una situazione simile.
Fu proprio l’ attrice Gaylen Ross a voler dare un’ impronta forte al proprio ruolo; quando Romero le chiese di urlare durante una scena, lei rifiutò fermamente, in quanto avrebbe indebolito il personaggio, e il regista non osò più avanzare tale richiesta.

Stephen è il più chiuso, quello che più lentamente si amalgama nel gruppo. Anche lui, come vedremo, riserverà delle sorprese.

Roger è la testa calda, colui che incautamente sfida gli zombies, il tipico uomo che si sente indistruttibile: pagherà caro il prezzo dei suoi atteggiamenti da supereroe.

Peter può essere considerato, insieme a Fran, il personaggio principale: intelligente e riflessivo, non a caso le frasi più importanti pronunciate nel film vengono riservate a lui. La celeberrima “Quando non ci sarà più posto all’ Inferno, i morti cammineranno sulla Terra” è detta proprio da Peter, parlando del nonno, prete a Trinidad, che durante la sua infanzia gli raccontava delle pratiche voodoo. Dunque, si fa solo un brevissimo accenno a uno dei leit motifs delle pellicole di prima generazione (i già citati film di Halperin e Tourneur), che legavano il morto vivente alla tradizione in particolar modo Haitiana, spesso ambientando le storie proprio in quei luoghi, in modo da creare una sorta di rassicurante distanza tra il “nostro” mondo e civiltà a noi non vicine.
“Dawn Of The Dead” è sotteso da una notevole vena ironica, riscontrabile in diversi punti: si gioca molto per contrasti, ad esempio nell’ accompagnare scene cruente con le risibili musichette da centro commerciale, trovata che accentua la ferocia di ciò che abbiamo di fronte piuttosto che stemperarla ma comunque riuscendo, al tempo stesso, a sdrammatizzarla ad arte. Era chiaro intento di Romero dare un tono più fumettistico a questo film rispetto al precedente “Night Of The Living Dead”, ben più realistico e terrificante; l’ uso di sangue finto dalle tonalità fluorescenti, cosa di cui Tom Savini era assai insoddisfatto, fu invece ben visto dal regista, poiché accentuava  l’ aspetto visivo da comic book che era esattamento ciò che voleva conferire all’ opera.
L’ isolamento dei quattro protagonisti viene interrotto dall’ irruzione di una gang di bikers razziatori, tra i quali troviamo proprio Savini, che indossano elmetti da nazisti e si comportano in modo assolutamente idiota nonché a dir poco anti-strategico verso i morti viventi: le sequenze sono inizialmente sottolineate da musiche fortemente ironiche (“Arrivano I Nostri”), e si sconfina nel grottesco quando i teppisti lanciano delle torte in faccia agli zombies (immancabile lo score delle comiche anni ’20); grottesco, ma mai ridicolo, poiché Romero riesce sempre a tenere perfettamente in equilibrio i registri.
Interessante la reazione di Stephen, fortemente “territoriale”: “questo posto è nostro, l’ abbiamo preso noi, è nostro”, e la sua rabbia è tale da superare la cautela e spingerlo ad uscire allo scoperto. Ora gli invasori più pericolosi, i veri nemici da cui guardarsi non sono i morti viventi, bensì altri umani; la lotta per la sopravvivenza fa emergere gli istinti primordiali dell’ uomo, che in situazioni ordinarie resterebbero sepolti. Si ritorna dunque ad una sorta di primitiva guerra tribale per il possesso di un luogo, e non è un caso che questo tipo di pulsione arrivi dal personaggio fino a quel momento più razionale e meno incline a comportamenti irruenti: è la dimostrazione di come il raziocinio crolli in situazioni estreme.

Il film si conclude  lasciandoci in un primo tempo spiazzati , per poi tenere acceso un barlume di speranza, ma con un senso di indeterminatezza; dunque, è ben lungi dall’ essere consolatorio. E’ sopravvivenza che potrebbe durare lo spazio di pochi minuti così come di lunghi mesi, o anni, non ci è dato saperlo: anche in questo sta la sua forza, nel dubbio in cui lascia lo spettatore, che si trova di fronte ad una conclusione non negativa ma sempre vista nell’ ottica di un mondo in cui gli umani si contano sulle dita di una mano e dove la minaccia incombe senza possibilità di tregua.
In quest’ Apocalisse, la Morte non è la fine dunque non dà pace: il semplice morso da parte di uno zombie porta inesorabilmente al contagio, alla trasformazione, che avviene nell’ arco di alcune ore ed è preceduta da un’ agonia, durante la quale si è consapevoli di ciò che si diventerà: cadaveri che camminano incessantemente, in cerca di carne umana, spinti solo dall’ istinto, e non dalla ragione, esseri che di umano non hanno più nulla. L’ Uomo non vuole diventare così, rifiuta quella condizione, preferendo una morte immediata ed indolore.
Esiste un finale alternativo della pellicola, una chiusa assai più cupa e pessimistica, sebbene vi siano state parecchie controversie in merito nel corso degli anni: alcuni componenti della crew, tra cui Tom Savini, hanno sempre sostenuto che tali scene fossero effettivamente state girate, mentre Romero ha spesso asserito il contrario. Nel documentario “Document Of The Dead”, realizzato durante le riprese del film ed edito su alcune versioni del dvd, il regista ammette di aver effettuato lo shooting della sequenza alternativa ma di non averlo mai completato; dunque, questo finale non è visibile in nessun formato.

Il budget di “Dawn Of The Dead” fu, ufficialmente, di un milione e mezzo di dollari. In realtà, la cifra si è rivelata essere assai più bassa, ossia 500.000 dollari, e venne “gonfiata” per i compratori stranieri, questo per ammissione del produttore Richard P. Rubinstein nel commento audio contenuto in uno dei dischi della “Ultimate Edition” edita dalla Anchor Bay.
La necessità di risparmiare portò a coinvolgere amici e parenti come comparse, e a non poter ingaggiare stuntman professionisti oltre a quelli impiegati nelle scene automobilistiche: dunque, il  “jolly” Tom Savini ed il suo assistente Taso N. Stavrakis si improvvisarono stunts, con risultati non sempre impeccabili.
Inoltre, nelle scene in esterni in cui vediamo soldati, cacciatori e squadre di emergenza sparare contro gli zombies, furono impiegati membri della Guardia Nazionale, delle forze dell’ ordine e cacciatori del luogo che si prestarono volontariamente e senza compenso.

Dal punto di vista tecnico, fondamentale è il ruolo degli special fx del grande make up artist: effetti spesso improvvisati sul momento, viste le difficoltà economiche appena menzionate. I volti degli zombies risultano bluastri poiché l’ artista scelse il grigio, ossia la medesima tonalità impiegata per “Night Of The Living Dead” (che essendo in bianco e nero ovviamente non presentava problemi di colore), e Savini in seguito riconobbe di aver commesso un grosso errore. Tuttavia, il lavoro non si concentrò tanto sulla zona facciale bensì su quelle corporee e sugli effetti splatter e gruesome: le scene di morsi, dettagliate e riprese da vicino, sono estremamente realistiche e raccapriccianti. Il divorare, da parte degli zombies, è un macabro banchettare cannibalico che spinge lo spettatore a coprirsi gli occhi per non guardare. Dunque, ciò entra in conflitto con l’ aspetto ironico e fumettistico dell’ opera, poiché le scene splatter provocano una reale repulsione e sono magnificamente efficaci. Poco importa se il sangue è palesemente finto: vedere un essere antropomorfo che stacca brandelli di carne dal corpo di un umano provoca in noi un senso di vero orrore, così come proviamo disgusto nel vedere gli zombies banchettare con budella, nonostante la consapevolezza che non siano umane bensì prese dal macellaio dietro l’ angolo. In quel momento però, il film ci assorbe completamente, la magia dello schermo ci tira dentro e la maestria di Savini completa perfettamente il compito.
Ecco perché ora ci si indigna per il CGI: artisti come questi non stanno più avendo lo spazio che meritano, messi in un angolo da effetti asettici elaborati al computer e finti come i Rolex delle bancarelle. Nostalgia retorica? Può darsi, ma questo era il cinema horror che aveva un valore.
Ovviamente, c’è anche l’ altro lato della medaglia: il trucco richiedeva circa tre ore di lavoro, e molte comparse si sentirono male per via delle sostanze utilizzate. Furono impiegati dei veri mutilati per interpretare alcuni zombies, uno è particolarmente visibile in una delle scene nel condominio.

Inutile dire che la censura non tacque davanti ad un film come questo: l’ MPAA tentò di imporre il rating “X” alla pellicola in caso non fossero stati effettuati dei tagli, limite censorio usualmente riservato ai film pornografici e che corrisponde al nostro “vietato ai minori di 18 anni”: Romero si oppose categoricamente sia alle sforbiciate che all “X rating”, questo a causa della sua personale avversione verso il genere a luci rosse. Riuscì a convincere i distributori a non attribuire divieti al film, inserendo tuttavia nei trailers e nelle comunicazioni pubblicitarie dei disclaimers che preannunciavano la non ammissione in sala per gli spettatori al di sotto dei 17 anni di età, a causa dei contenuti particolamente violenti.

“Dawn Of The Dead” è considerato, a pieno merito, uno dei capolavori horror della storia del cinema, e forse il più bello tra gli horror contemporanei: dopo lo stupefacente esordio con “Night Of The Living Dead”, vero spartiacque nella scena orrorifica, Romero realizzò un film ancora più potente, esaltante, dai sottotesti forti e variegati ma soprattutto, capostipite di un genere, lo zombie-movie (seppur già nato col film precedente), che ha visto negli anni innumerevoli imitazioni, nessuna delle quali è mai ovviamente riuscita ad arrivare ai vertici non solo di questa pellicola, ma dell’ intera trilogia. George A. Romero ha legato il suo nome ai morti viventi, sia in positivo che, talvolta, in negativo, poiché non si affrancherà mai dai suoi cadaveri antropofagi: ma i suoi zombies, sono quelli veri, che resteranno per sempre nel nostro immaginario col loro passo lento e la loro fame insaziabile. Lunga vita al Maestro dunque, e ai suoi Morti divoratori di vita.

Chiara Pani 
(araknex@email.it)


Zombi
Titolo Originale: Dawn Of The Dead
Italia/Usa - 1978
Regia: George A. Romero